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giovedì 13 maggio 2021

Stelle cadenti

Longread 13 MAGGIO 2021 Faide per la leadership, i soldi e gli iscritti, scissioni, rinuncia alla democrazia diretta della rete. Inchiesta su una rivoluzione al capolinea e sulla nemesi di un movimento che nelle intenzioni dei padri, Grillo e Casaleggio, doveva cambiare la politica ed è stato divorato dal Palazzo DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE E TESTO), ANNALISA CUZZOCREA, EMANUELE LAURIA, LUCIANO NIGRO, MATTEO PUCCIARELLI, VIDEO DI VALERIO LO MUZIO. COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. PRODUZIONE GEDI VISUAL In quattordici anni hanno perso tutto. O quasi. Consenso, identità, coerenza, coesione, spinta propulsiva e spesso e volentieri anche dignità e decenza. I 5 Stelle dovevano aprire il palazzo della Politica come una scatoletta di tonno e hanno fatto la fine del tonno. Una parte di loro, in un capolavoro di trasformismo insieme politico e antropologico, si è fatta ceto politico e ha tradito, con il "vaffa" delle origini, la democrazia diretta e le sue parole d'ordine, come un ormai inutile orpello. Un'altra, ha preso la porta. Brandivano lo streaming - e dunque la trasparenza - come il grimaldello in grado di far saltare i disprezzati istituti della democrazia diretta, ma della segretezza dei meccanismi di selezione della classe dirigente e di discussione politica interna hanno finito per fare la loro regola. E ancora: sono passati dal culto sciamanico dei padri fondatori - Grillo e Casaleggio senior - alla consegna della loro leadership a un ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, cooptato da Grillo, e paralizzato dalla constatazione di non sapere su quanti iscritti oggi il movimento possa contare. Per il semplice fatto che gli iscritti se li è portati via l'ultima scissione, quella di Davide Casaleggio e della sua piattaforma Rousseau. Una rivoluzione al capolinea, insomma. Che, solo negli ultimi 3 anni ha perso per strada più di cento parlamentari, cacciati o fuggiti. E che oggi conosce, insieme all'inesorabile tramonto del suo inventore e garante, Grillo, il redde rationem anche sui soldi. Non solo i 450 mila euro che Casaleggio vanta come credito. Ma anche un tesoro di 7,4 milioni di euro, di cui nessuno parla, che i Cinquestelle non riescono a spendere perché paralizzati dallo scontro con Rousseau. E questo, mentre la magistratura di Milano indaga sui 2,4 milioni di Philip Morris e 1,2 di Moby finiti alla Casaleggio Associati srl. a titolo di consulenze quando i 5 Stelle in quella società avevano la loro cassaforte. Comma 22 "Non voglio creare un partito, io i partiti li voglio distruggere. Sono il cancro della democrazia". Questo diceva Beppe Grillo quando tutto stava nascendo, l'8 settembre del 2007, dopo un Vaffa Day che aveva riempito Piazza Maggiore a Bologna e raccolto oltre 350mila firme per il "Parlamento pulito", il ritorno delle preferenze, il limite dei due mandati in politica. È lì che tutto nasce. Ed è lì, a quella dichiarazione identitaria che lo voleva altro dal sistema, diverso, nato per sovvertirlo e cambiarlo per sempre, che resterà impiccato. Perché è successo il contrario. Entrati nelle istituzioni, arrivati a ricoprirne le cariche più alte, i seguaci del comico che si è fatto politico cercano adesso un modo per abitarlo, il sistema. Vorrebbero uno statuto democratico, un leader riconosciuto, sedi fisiche dove incontrarsi, un congresso vero, l'accesso al due per mille e perfino una scuola di politica. Dicono di essersi sbagliati. Che dunque non è vero che "uno vale l'altro". Al contrario, che serve la competenza, che non è più il momento della guerra alle elite, del turpiloquio e delle scomuniche. Hanno coltivato l'odio verso i giornali e l'Europa matrigna. Oggi difendono la libertà di stampa, le istituzioni europee, la moneta unica. Promuovono i vaccini, espellono no vax come Sara Cunial e David Barillari, rinnegano i Lello Ciampolillo (il senatore pugliese cacciato con ignominia per non aver mai restituito un euro dei suoi compensi in questa legislatura e diventato famoso - oltre che per i tweet antimascherine e gli alberi scelti come residenza per salvarli dall'abbattimento anti-Xylella - per il buffo voto al photofinish con cui tentò di salvare il Conte due). "Del Movimento ormai è rimasto solo il simbolo, ma quelle stelle e quegli ideali sono stati traditi": parola di Federico Pizzarotti, primo sindaco 5 Stelle d'Italia. Tiene a specificare: "La mia non fu un'epurazione, siamo stati isolati e lasciati a bagnomaria". Tra i fondatori di 'Italia in Comune', analizza il lungo declino dei 5S partendo dalla piazza del primo V-Day di Bologna, fino ad arrivare al contenzioso sui dati degli iscritti, tra Conte e Casaleggio junior. Già, Ciampolillo. Il 21 maggio del 2009 era su un palco, a Bari, con Beppe Grillo che incitava il pubblico: "Votatelo, renderà il comune una casa di vetro". Dodici anni dopo il senatore pugliese è il simbolo di tutto quello che il neo Movimento vuole lasciarsi alle spalle: le teorie antiscientifiche, le liti sui soldi, le pagliacciate a favore di telecamere. Ma è difficile tagliare le proprie radici e fa dimenticare le origini. Soprattutto se sei nato su un blog che prometteva di liberarsi del Parlamento con votazioni on line stabilite dall'alto. Difficile o quasi impossibile, se per rinascere dopo una serie di ricorsi contro espulsioni indiscriminate - come quella di Marika Cassimatis a Genova - affidi la creazione di una nuova associazione e di un nuovo Statuto a due persone, Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, che in quel momento, dopo la morte di Gianroberto Casaleggio, con la guida di Beppe Grillo divenuta impalpabile e i parlamentari già recalcitranti di fronte a regole troppo rigide, hanno un solo interesse: incatenarsi l'uno all'altro. È così che nasce il comma 22 che oggi imprigiona i 5 stelle. Con uno Statuto secondo cui il Movimento non può decidere nulla senza la piattaforma Rousseau. E con un'associazione che dipende interamente da "donazioni liberali" di parlamentari della Repubblica, ma che le ha usate per i propositi più diversi (senza concordarli con gli eletti M5S) perché così era al principio: Grillo era il volto, Casaleggio la mente, il decisore politico, l'organizzatore, l'ideatore di regole immutabili che il figlio, oggi, vorrebbe ancora tali. I protagonisti La democrazia diretta tradita Quando nel 2013 la prima pattuglia di eletti M5S arrivò in Parlamento per, testuale, "aprirlo come una scatoletta di tonno", la Casaleggio Associati mise nero su bianco non solo l'impegno a restituire una parte dello stipendio per donarlo a un fondo per il microcredito alle imprese, ma anche quello di avvalersi di una struttura di comunicazione che sarebbe stata la società milanese a scegliere. Arrivarono così a indirizzare gli eletti grillini su quel che potevano o non potevano dire, o fare. Parliamo di personaggi del calibro di Claudio Messora, ideatore del blog "Byoblu" adesso oscurato da Youtube per "contenuti che violano le norme contro la disinformazione in ambito medico", o di Debora Billi, di recente critica nei confronti del Movimento, ma di fatto allontanata dopo aver scritto un tweet che augurava la morte all'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Erano i tempi in cui deputati come Giorgio Girgis Sorial - non rieletto ma piazzato prima al ministero dello Sviluppo economico e ora come presidente della società Traforo del Monte Bianco - dicevano in conferenza stampa cose come "Napolitano boia". Erano i giorni in cui per Napolitano si evocava l'impeachment, sorte in realtà toccata anche a Sergio Mattarella in tempi più recenti - dopo le elezioni del 2018 - per bocca dell'"istituzionale" Luigi Di Maio, in diretta al telefono a "Che tempo che fa". Ma insomma, soprattutto nei primi anni il Movimento antisistema era entrato in Parlamento con l'idea di poterne davvero fare a meno. Gli eletti - teorizza in quel momento Casaleggio padre - devono votare quel che decide la rete attraverso il blog. Devono definirsi "portavoce" o "cittadini" - l'eco della Rivoluzione francese è una costante - e dovrebbero dimettersi se violano gli impegni presi. Nulla di questo è accaduto e nulla di questo è rimasto. Il voto sul blog è stato usato quasi sempre come mera ratifica di decisioni già prese prima da Grillo e Casaleggio, poi dal direttorio a 5 di cui facevano parte Luigi Di Maio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco e Carlo Sibilia. Infine, dal capo politico Di Maio e poi - dopo le sue dimissioni - dai maggiorenti di quello che, negli anni, è diventato a tutti gli effetti un partito. Fino al paradosso di oggi: la forza politica nata per affermare il potere sostitutivo della democrazia diretta su quella rappresentativa sta lottando per liberarsi dallo strumento che doveva garantirla. Il motivo? Un conflitto economico che è anche una guerra di potere. Il tweet della responsabile web del Movimento 5 Stelle, Debora Billi e le sue scuse a Giorgio Napolitano, su Facebook Dal pauperismo francescano alle liti per la cassa Durante lo Tsunami tour, quello che portò i 5 Stelle in Parlamento facendoli passare da 0 a oltre 8 milioni di voti, Beppe Grillo prometteva davanti a folle plaudenti che i suoi ragazzi avrebbero preso 2500 euro al mese dallo stipendio di parlamentari e restituito tutto il resto alla comunità. Così, le interviste della vigilia erano tutte un "andremo in autobus", "divideremo casa in periferia", "noi non siamo come loro". Ma quelle di qualche mese dopo diventarono un florilegio di giustificazioni sul perché tutto questo non fosse possibile. Il Movimento non ha accettato quell'anno i 42 milioni di finanziamento pubblico che gli spettavano dopo le elezioni e ha spinto perché la legge cambiasse, rifiutando in seguito anche quel che c'è adesso, la possibilità di ricevere donazioni attraverso il 2 per mille - cui Conte invece vorrebbe accedere - ma sugli stipendi e sugli scontrini allora partirono le liti. Gli eletti si erano impegnati a restituire la parte della diaria non spesa, ma alcuni - si scoprì a fine mandato - lo facevano solo per finta. Effettuavano formalmente i bonifici al fondo per il microcredito per poi annullarli di nascosto nelle successive 24 ore (fu uno dei tanti motivi di espulsione, non l'unico, a dire il vero. E non per tutti, visto che la deputata Giulia Sarti è riuscita a non farsi cacciare restituendo il dovuto e affermando - ma ha dovuto ritrattare - che i soldi li aveva ripresi il fidanzato a sua insaputa). Anche per i soldi, litigano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio nei mesi che precedono la morte del cofondatore M5S. Il manager decideva espulsioni repentine le cui conseguenze giudiziarie ricadevano su Grillo, che era il rappresentante legale del Movimento. Il fondatore non voleva che sul blog ci fosse pubblicità che considerava ingannevole, pensava si desse troppo spazio alla politica spicciola e troppo poco alle idee, alle teorie visionarie che raccoglieva in giro per il mondo. "E te ne sei andato senza neanche parlarmi - disse una volta Grillo sul palco di uno spettacolo poco dopo quella morte improvvisa - e io ci sono stato male". È allora che nasce l'associazione Rousseau. Quando c'è bisogno di dividere sempre più le strade del blog di Beppe Grillo e del sito che serve da supporto al Movimento 5 stelle. È così che si passa dal Movimento senza capi all'elezione di un capo politico, per scaricare il fondatore dal peso anche economico di una forza diventata improvvisamente grande e difficile da gestire. Ma i problemi di soldi di un Movimento che si dichiarava francescano continuano fino a oggi. I 5 stelle hanno perso per strada 100 parlamentari di quelli che, nella seconda legislatura, si erano impegnati a dare 300 euro al mese per il funzionamento della piattaforma Rousseau. E hanno perso al contempo molti tra i consiglieri regionali e gli europarlamentari che avevano preso lo stesso impegno. Nonostante questo, Casaleggio chiede i soldi che considera dovuti e che - dice - ha già speso. Il conto mesi fa era fermo a 450mila euro. Su questo si è incartata tutta la trattativa di questi mesi per la leadership. Se Grillo vuole davvero che Conte diventi il capo del Movimento 5 stelle, bisogna convincere Casaleggio a permettere un voto sulla piattaforma. E per farlo, a parte vie legali che possono essere lunghissime, non c'è altra strada che pagare. La via suggerita ora dall'ex premier, l'idea di poter votare altrove o addirittura per corrispondenza, può essere percorsa - certo - col rischio di restare nelle aule giudiziarie per i possibili ricorsi da qui all'eternità. Guerra di potere Non c'è solo il denaro alla base del conflitto tra i vertici del Movimento e il figlio del cofondatore. Casaleggio comincia a dare segnali di impazienza quando i 5 stelle decidono, dopo la parentesi del governo con la Lega, di allearsi con il Partito democratico. È Grillo a imporlo, anche a Luigi Di Maio che in quei giorni aveva ricevuto un'ultima offerta da Matteo Salvini: Rifacciamo l'alleanza e il premier sarai tu". È il fondatore a immaginare una nuova strada, che riprendeva quella di dieci anni prima, quando tra un VDay e la nascita delle "liste Beppe Grillo", il comico aveva tentato di iscriversi al Pd per partecipare alle primarie, respinto dai vertici di allora. Il Pd non è un bus dove salire per farsi un giro", aveva detto in quel 2009 Pier Luigi Bersani, per poi tentare - nel 2013 - un'alleanza impossibile, distrutta in streaming dalle parole dell'allora capogruppo M5S Roberta Lombardi: "Mi sembra di essere a Ballarò". Riprende da lì, la strada del Movimento. E Casaleggio scalpita perché la sua influenza è sempre minore. Fino all'agosto 2020, quando Luigi Di Maio appoggia l'idea di cambiare lo statuto per consentire alleanze col Pd alle amministrative e il manager scrive un quesito che sembra fatto apposta per spingere gli iscritti a votare "no". Da quel momento, il "sì" al quesito passa, ma il sodalizio tra i due si rompe. E, perso l'appoggio di Di Maio, Casaleggio rimane solo contro i principali rappresentanti del Movimento, che vedono ormai Rousseau come un giogo da cui è necessario liberarsi. Lo Statuto 2020 del Movimento 5 Stelle La mutazione della base Non sono solo le cariche e i privilegi del potere, a cambiare il rapporto degli eletti M5S con le istituzioni. Perché a mutare, tra il 2013 e il 2018, è anche il loro elettorato di riferimento. Se il primo Tsunami tour si rivolgeva a una base elettorale di giovani disoccupati, cui venivano promessi reddito di cittadinanza e protezione sociale, se il Movimento delle origini coccolava ogni tipo di teoria complottista, dalle scie chimiche alle malefatte di Big Pharma, dal finto sbarco sulla luna alla Trilateral, la scelta nel 2018 è di cambiare totalmente target. Di Maio va a Cernobbio a parlare di Smart country, insegue lobby e categorie professionali in cerca di candidati per i collegi uninominali e per i ministeri che spera di conquistare. E incontra in questa ricerca spasmodica anche l'avvocato Giuseppe Conte, che il Movimento aveva scelto qualche anno prima per votarlo come componente del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. Di Maio lo presenta - in una sala polifunzionale dell'Eur addobbata come una convention della Forza Italia degli anni d'oro - come possibile ministro della Pubblica Amministrazione. I veti incrociati con la Lega lo portano a Palazzo Chigi e il resto lo fa la comunicazione della Casaleggio Associati, attraverso Rocco Casalino. Che il 23 maggio 2018, uscendo da un portone di fronte a Ponte Sant'Angelo insieme a colui che dopo poche ore diventerà premier, dice solenne: Ne faremo l'avvocato del popolo". Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il premier Giuseppe Conte celebra i 10 anni di attività politica dei 5 Stelle alla Mostra D'Oltremare - Napoli, 12 ottobre 2019 Guerre fratricide Nel partito in cui nessuno doveva emergere e tutti dovevano essere uguali ed eterodiretti, vengono fuori in realtà, nel corso degli anni, più personalità in conflitto tra loro. E non esistendo meccanismi di democrazia interna, al di fuori delle parlamentarie on line grazie alle quali si viene messi in lista in base ai clic collezionati, i conflitti diventano autentiche guerre tribali. Alla morte di Gianroberto Casaleggio, seduti l'uno accanto all'altro su un treno che li riporta da Milano a Roma, il 14 aprile del 2016 Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista parlano del futuro. In quel momento sono alleati. Si definiscono "fratelli". Credono entrambi che il Movimento debba mantenersi una forza "né di destra né di sinistra". Sono gli antagonisti dell'allora minoritario Roberto Fico, più legato a Grillo che a Casaleggio, ancorato alle battaglie storiche su cui sono fioriti - a partire dal 2005 - i primi meet up: i beni comuni, l'acqua pubblica, le lotte ambientaliste. Quel sodalizio negli anni pare rafforzarsi. Aiuta Di Maio quando la sua influenza viene messa in discussione per alcune mosse troppo disinvolte e poco condivise (in aiuto ai pasticci romani di Virginia Raggi). Di Battista è il volto più amato, il deputato che si mette in viaggio per lottare contro il referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi raccogliendo consenso e manifestazioni di idolatria, ma alla vigilia delle elezioni del 2018 lascia il passo al sodale compagno. Nel giorno in cui Di Maio è incoronato, a Rimini, capo politico del Movimento, mentre Roberto Fico si rifiuta di salire sul palco e rende plastica la prima frattura ufficiale in un M5S che si è dipinto sempre come monolitico, Di Battista annuncia infatti il passo indietro. Non si candiderà, decide di saltare un giro. Secondo alcuni, per una sorta di patto a staffetta con l'amico di allora. Ma quel che succede in seguito, la normalizzazione del Movimento, lo spinge a prendere sempre di più le distanze. E lo porta allo scontro totale proprio con Di Maio. Ora che i 5 stelle sono andati più dove voleva Fico, cioè a sinistra, che dove volevano lui e Di Maio, cioè dietro a Donald Trump o ai gilet gialli, riavvicinarsi è sempre più complicato. Mentre le sirene di Davide Casaleggio propongono altro: ripartire con lui e con Rousseau, contro i compagni di un tempo, alla ricerca delle origini tradite. Luigi Di Maio, Roberto Fico e Alessandro Di Battista durante la manifestazione contro l'approvazione della riforma elettorale "Rosatellum Bis" organizzata dal Movimento 5 Stelle davanti al Parlamento - Roma, 11 ottobre 2017 Le origini rinnegate L'ultima capriola è del plenipotenziario in Sicilia Giancarlo Cancelleri, che in questi giorni ha aperto al Ponte sullo Stretto. "Il Movimento ci sta pensando", ha detto il sottosegretario ai Trasporti, dimenticando quel che i 5 stelle hanno promesso fin dalla loro nascita. Del resto, era già successo che la militante no Tav Laura Castelli una volta diventata viceministra all'Economia lavorasse a una mini-Tav, prima che toccasse a Giuseppe Conte sdoganare l'opera in Parlamento. E che i 5 stelle andassero al governo giurando "bloccheremo il Tap", il gasdotto che arriva sulle coste della Puglia, arrivando a dire - copyright dell'ex ministra del Sud Barbara Lezzi - che altrimenti mai più nessuno avrebbe potuto stendere un telo sulla spiaggia di San Foca. E invece, come è noto, il Tap si è fatto. Mentre lei era ancora al governo. Così come non è stata né spenta né riconvertita l'Ilva di Taranto. Mentre una delle fratture più dolorose si è consumata, tra l'ex braccio destro di Beppe Grillo e Davide Casaleggio Max Bugani e l'allora vicepremier Di Maio, sulla costruzione di alcuni tratti autostradali in Emilia-Romagna, con i buoni auspici dell'allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli. Ma non ci sono solo i "no" alle grandi opere, tra le battaglie dimenticate dal Movimento. C'è il No all'Euro e alla permanenza nell'Unione europea che li aveva portati, nel 2015, ad andare in massa ad Atene per sostenere la lotta contro la troika. Nel 2016, il direttorio 5 stelle posa, durante un incontro alla Camera, con il guru anti-euro Yanis Varoufakis. Il Movimento raccoglie le firme ai banchetti per un referendum che consenta l'uscita dalla moneta unica, Grillo lo presenta in pompa magna in un incontro davanti alla Stampa Estera, ma una volta arrivato il momento delle politiche, se ne dimentica. Fino al sì di oggi al governo di un ex banchiere centrale come Mario Draghi, qualche anno fa considerato il male assoluto, e dopo aver già appoggiato la commissione europea di Ursula von der Leyen. Al Parlamento europeo, in realtà, tutto era cominciato dal patto siglato con il leader dell'Ukip Nigel Farage, arrivato dalla Gran Bretagna per portarla fuori dall'Europa in nome di un'ideologia di estrema destra. Nel 2014 Grillo decide - davanti a una birra a Bruxelles - che i due gruppi possono lavorare insieme e così è per qualche anno. Finché il Regno Unito non esce sul serio e i 5 stelle si ritrovano a chiedere ospitalità prima ai liberali dell'Alde, quando ancora erano con Farage, poi a Renew di Macron, ora ai socialisti di S&D, passando per i Verdi, dove nel frattempo è andato qualche transfuga: gli eurodeputati M5S erano 14, sono rimasti in 8. Senza dimenticare l'ultima volta che Di Maio e Di Battista hanno lavorato a un progetto insieme. Era la campagna per le elezioni europee del 2019, i due - dopo una lunga separazione - partirono in macchina, direzione Parigi. Lì incontrarono una delegazione dei gilet gialli - ai tempi Di Maio era vicepremier - che in quei mesi mettevano a ferro e fuoco ogni sabato le città francesi. L'obiettivo era siglare un'intesa che li portasse a sedere insieme in un gruppo al Parlamento europeo. Tra loro c'era Cristophe Chalençon, condannato pochi giorni fa a sei mesi di carcere per "provocazione ad armarsi contro l'autorità dello Stato". Beppe Grillo e Nigel Farage, leader dell' UKIP (il partito indipendentista britannico), in conferenza stampa insieme durante un incontro al Parlamento europeo a Strasburgo, 1 luglio 2014 Le regole cancellate Non c'erano solo le restituzioni degli stipendi, tra le regole ferree dettate dal primo Movimento. C'era anche, ad esempio, il divieto di lasciare un mandato prima di completarlo. Tabù rotto da Giancarlo Cancelleri quando decide di abbandonare l'Assemblea regionale siciliana per diventare viceministro dei Trasporti. Anche le regole sui carichi pendenti, sugli indagati e sui condannati sono cambiate in corso d'opera, permettendo ad esempio a Virginia Raggi di restare sindaca nonostante i processi subiti (da cui poi è stata assolta). E allargando sempre più maglie un tempo strettissime, secondo cui bastava essere indagati per non essere all'altezza di ricoprire un ruolo pubblico (il tutto urlato in piazza contro qualsiasi rappresentante di altri partiti finito in qualche inchiesta, al suono di O-nes-tà, O-nes-tà con gogna continua sul seguitissimo blog). Esisteva - nel Movimento delle origini - anche il divieto, tassativo, di andare in televisione. Per averlo fatto una delle prime consigliere comunali M5S, la bolognese, Federica Salsi, fu insultata da Beppe Grillo che tuonò: È andata a Ballarò a cercare il punto G". Cacciandola poi con un post scriptum senza diritto d'appello. Come accadde al senatore Marino Mastrangeli, ammaliato dal salotto bianco di Barbara D'Urso. Fu Alessandro Di Battista, lo rivendica lui stesso, a persuadere Casaleggio a cambiare idea sulla tv. Andò a Milano a parlargli per convincerlo che per rispondere alla potenza di fuoco dei partiti tradizionali internet non poteva bastare. Non raggiungeva tutti, non era sufficiente. Così cominciarono i corsi di comunicazione della coach tv Silvia Virgulti e di Rocco Casalino e si cominciarono a selezionare i parlamentari in base al loro appeal mediatico. È così che emergono Di Battista e Di Maio, lasciando indietro gli altri. Ed è così che per il Movimento comincia un'altra storia, fatta di regole imposte ai talk show, di condizioni stringenti inviate agli autori tv, di contraddittori sempre negati e di faccia a faccia concessi col contagocce. Il mandato zero Le regole si tirano come elastici a seconda delle convenienze e così il divieto di candidarsi con il Movimento, se si è prima militato in un partito tradizionale, viene modificato quando - alle ultime politiche - i 5 stelle candidano Elio Lannutti, già senatore dell'Italia dei Valori, con la scusa che la sua elezione precedente risaliva a 10 anni prima. Cambia anche, nel tempo, il divieto di superare i due mandati per chi ha fatto il primo in un consiglio comunale: ragion per cui Virginia Raggi può ricandidarsi come sindaca a Roma e il ministro Stefano Patuanelli potrà farlo ancora una volta per il Parlamento, avendo consumato i primi 5 anni in consiglio comunale a Trieste. Mentre - a regola vigente - per Roberto Fico, Luigi Di Maio, Paola Taverna, Laura Castelli, Stefano Buffagni, Riccardo Fraccaro, Alfonso Bonafede e molti altri questo dovrebbe essere l'ultimo giro. È la regola che più di tutti i dirigenti M5S vorrebbero cambiare, ma è la più cara agli iscritti, a Davide Casaleggio e perfino a Beppe Grillo, che pure su altre ha dimostrato grande elasticità. I due mandati c'erano già nelle piazze dei Vaffa Day, "10 anni e poi a casa", gridava Grillo sporgendosi da un palco per dire quel che secondo lui la politica doveva essere. È l'abiura più difficile da fare. Ma è anche uno dei motivi per cui, trai 5 Stelle a fine legislatura, potrebbe scoppiare la guerra nucleare. Facendo impallidire il conflitto già in corso. L'armadio della vergogna Il Movimento che vorrebbe ora come leader Giuseppe Conte ha insomma chiuso in un armadio, dove si rifiuta anche solo di andare a guardare, gran parte del suo passato. E se si parla con chi oggi riveste cariche istituzionali tra i 5 Stelle, si ascoltano discorsi sulle battaglie ambientaliste, la lotta alla corruzione, la legalità, tralasciando i toni e i modi spesso violenti usati negli anni dal blog. Quando Gianroberto Casaleggio e Grillo cominciano la loro collaborazione, l'obiettivo - dichiarato anche in libri come "Il gallo canta sempre al tramonto", scritto insieme a Dario Fo - è quello di raccogliere e incanalare la rabbia degli italiani. In quel momento, Silvio Berlusconi è ancora al potere, ci sono le leggi ad personam, il Pd è accusato di ogni complicità e di ogni nefandezza. "Se non fossimo arrivati noi ci sarebbe Alba Dorata", dicono spesso i rappresentanti M5S. Ma come Alba dorata in Grecia, non fanno che soffiare sul disagio, il rancore, la paura del diverso. Il blog ospita post in cui si accusano gli immigrati di far tornare malattie debellate come la tubercolosi. Si dà spazio a ciarlatani come Luigi Di Bella e Davide Vannoni del metodo Stamina. Si alimentano teorie complottiste e si prendono di mira persone per la sola colpa di appartenere ai partiti che si vogliono distruggere. Giorgio Napolitano è tra i nemici numero uno, Bersani viene chiamato Gargamella, Umberto Veronesi Cancronesi. Nel 2015, durante una marcia Perugia-Assisi che il Movimento dedicò alla promessa del reddito di cittadinanza, Grillo arrivò a criticare l'oncologo per la pubblicità che faceva alle mammografie, sostenendo ci fosse dietro un interesse economico. Per un'accusa simile fatta a Rita Levi Montalcini, definita "vecchia puttana" e accusata di essersi fatta comprare il premio Nobel da una casa farmaceutica, l'ex comico aveva dovuto patteggiare una costosa causa di diffamazione. Già, il rapporto con la medicina è a dir poco controverso e pericoloso, se si pensa a quanto il blog fosse seguito soprattutto in quegli anni. In un'intervista del 1997 del resto Grillo aveva detto:Io ho la convinzione che l'Aids non esiste. Che questa malattia è stata un modo per prendere fondi, miliardi di dollari. Mai è stato provato che esista il virus Hiv, nessuno l'ha mai visto". Ma anche, in seguito, che lo screening e la prevenzione non servono, che il tumore alla prostata si cura trombando, che dal cancro si guarisce con cacca di capra e limone. Là dove hanno fatto le vaccinazioni le malattie sono scomparse, là dove non le hanno fatte le malattie sono scomparse lo stesso", dice un Grillo che a sentirlo oggi fa venire i brividi. E del resto, appena arrivato in Parlamento il Movimento deposita una proposta di legge sul "diniego dell'uso dei vaccini per il personale della pubblica amministrazione" nella convinzione che esista un collegamento tra le vaccinazioni e "leucemia, intossicazioni, infiammazioni, immunodepressioni, mutazioni genetiche trasmissibili, malattie tumorali, autismo e allergie". Non mancano gli attacchi personali. Per anni, il blog diventa una pubblica gogna per molti politici. E per i giornalisti, cui Casaleggio non manca di ricordare periodicamente che la carta stampata morirà e cui viene dedicata un'apposita rubrica, il giornalista del giorno, destinata a chi non plaude alle magnifiche gesta M5S. Per ironia della sorte ci passa chiunque, anche cronisti poi premiati dai grillini quando si tratta di fare nomine Rai, a dimostrazione che i tempi cambiano. Anche se per qualunque giornalista, tranne che per quelli considerati amici, le manifestazioni del primo M5S sono sempre luoghi ostili: posti dov'è meglio non farsi vedere col taccuino in mano, se non si vuole essere insultati come servi del potere. Uno dei bersagli preferiti del blog diventa, nella scorsa legislatura, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Il primo febbraio 2014, Beppe Grillo lancia il concorso "Cosa faresti con la Boldrini in macchina", dando la stura a una serie di commenti volgari e sessisti da cui i 5 stelle sono infine costretti a prendere le distanze. È uno dei casi sfuggiti di mano, ma è un metodo squadrista, sul quale Casaleggio e i suoi lavorano per far crescere il consenso. Ed è un metodo, quello degli attacchi violenti sul blog o sui social, usato anche contro chi osa contestare la linea. Nel Movimento delle origini il dissenso non è tollerato. Si viene espulsi anche solo per aver messo in dubbio una decisione dei due leader indiscussi, Grillo e Casaleggio. Succede alle senatrici Adele Gambaro o Maria Mussini. Succede a tanti altri, e ogni cacciata è corredata di insulti, ingiurie, minacce. Ieri e oggi Se si chiede al presidente della Camera Roberto Fico qual è il suo primo ricordo nel Movimento 5 stelle, lui dice: "La battaglia a Napoli contro la privatizzazione dell'acqua, che riuscì". Se si domanda al ministro dell'Agricoltura Stefano Patuanelli, ricorda quando - a Trieste - fece una battaglia per la chiusura dell'area a caldo della ferriera di Serbola. Stabilimento la cui dismissione ha firmato poi, oltre 10 anni dopo, da ministro dello Sviluppo. Alessandro Di Battista ricorda un incontro al Linux Club di via Libetta a Roma, quando alle amministrative in città erano candidate Paola Taverna e Roberta Lombardi. E proprio Lombardi, di quell'anno, ricorda quando incontrò Beppe Grillo dopo uno spettacolo al Palalottomatica: gli portò in camerino gli attivisti No Coke di Civitavecchia. "Ma sei alto, non ti ci facevo!". E lui: "Perché negli spettacoli sto sempre curvo, e invece vedi?". È anche una storia di battaglie e di fascinazione per un leader carismatico, quella del Movimento. Leader in disarmo da tempo e ancor più ora, dopo il video con cui ha complicato ancora di più la vicenda giudiziaria del figlio Ciro. Nonostante sia stato proprio lui, Grillo, con un'ultima mossa azzardata e apparentemente contraddittoria, a portare i 5 stelle sul sì al governo Draghi inventandosi un nome, ministero della Transizione ecologica, che come per magia ha trasformato un "Mai" in un "facciamolo". In tutto questo, Conte è la new entry. Arrivato per caso, messo in secondo piano dalla coppia Salvini-Di Maio durante il suo primo governo, venuto fuori come leader su una battaglia di legalità, quella per allontanare il sottosegretario Armando Siri - indagato - dall'esecutivo giallo-verde. E poi trasformato dall'alleanza con il Pd nel "fortissimo punto di riferimento dei progressisti" da un pezzo del mondo dem che pare subirne l'influenza, nonostante l'ex premier nulla faccia per esercitarla. Il cedimento alla corsa di Virginia Raggi a Roma, fatto per non lasciare una fetta di Movimento all'influenza di Casaleggio e di un possibile ritorno di Di Battista in difesa della sindaca, è un segno di debolezza, in quanto a leadership. Ma è anche un passaggio necessario per provare a portarsi dietro i 5 stelle verso una strada completamente nuova. A oggi, i più convinti che ne sarà capace risiedono nel Pd e non nel M5S: balcanizzato, in rotta, privo di capi riconosciuti, insofferente rispetto alle sue stesse regole, quello che doveva chiamarsi - così fu annunciato al teatro Smeraldo nel lontano 2009, davanti a un pubblico che andava da Adriano Celentano a Luigi De Magistris - Movimento di liberazione nazionale, è finito prigioniero di sè stesso, delle sue contraddizioni, di un vuoto identitario. E quindi, è oggi incapace di decidere del suo destino. L'odore dei soldi Per non farsi mancare nulla, nel collasso dei 5 Stelle non poteva mancare l'odore dei soldi. In quella ragnatela inestricabile che tiene ancora avvinghiati il "nuovo" Movimento di Giuseppe Conte e l'associazione Rousseau, è infatti il denaro - non poco a ben vedere - a pesare. In particolare, l'oggetto del contendere sono le restituzioni, il cardine della rivoluzione grillina. Quelle somme cui ogni eletto doveva rinunciare per riconsegnarle alla collettività. Quelle liberalità, nel volgere degli anni, sono diventate un bottino da contendersi. La cifra, anzitutto: 7 milioni 446 mila euro. È l'ammontare delle quote degli stipendi (minimo 2 mila euro per deputato, senatore, o consigliere regionale) che da quasi un anno ormai è accantonata in un fondo senza essere utilizzata. L'ultima destinazione dei fondi, ha denunciato di recente l'ex parlamentare 5S Mattia Crucioli, risale al luglio del 2020. Da allora, tutto fermo: diversi esponenti del Movimento lamentano il fatto che quei soldi non si possono spendere perché Rousseau, impendendo l'uso della piattaforma, nega anche la possibilità di un voto per decidere cosa farne. Davide Casaleggio ritiene che questo sia un mero pretesto: "I fondi, se si vuole, si possono dirottare su qualsiasi iniziativa senza necessità di passare da Rousseau", è più o meno la sua tesi. Ma nel frattempo è subentrato un nuovo problema: i fuoriusciti o cacciati da 5 Stelle temono che quella somma, che comprende anche i loro contributi, venga utilizzata per far decollare la nuova "Cosa" di Conte. E si sono messi di traverso. Il Movimento rimane dunque vittima di un legame a doppio filo con l'associazione di Casaleggio jr., di un rapporto figlio dello Statuto che oggi Conte vuole riscrivere. Un'altra cifra da cerchiare in rosso è 450 mila euro. Che equivale al debito lamentato da Rousseau per i mancati versamenti del contributo mensile all'associazione per la piattaforma da parte degli eletti. Si tratta, in questo caso, dei 300 euro mensili vissuti sempre più come un ingiustificato obolo da parte dei parlamentari. Basti pensare che - secondo il sito tirendiconto.it - oggi solo 34 su 276 fra deputati e senatori sono in regola con i versamenti. L'ex capo politico Vito Crimi, nel chiudere i rubinetti a Rousseau con un nuovo conto corrente intestato al Movimento, ha chiesto comunque agli eletti di versare gli arretrati all'associazione. Risulta che pochi, pochissimi, l'abbiano fatto. E così continua la querelle fra il Movimento e il figlio di Gianroberto, che contesta il nuovo regolamento economico con cui si tolgono le entrate a Rousseau. La tesi, in questo caso, è che il regolamento sia stato varato dal collegio dei garanti senza la necessaria proposta da parte del comitato direttivo, che non si è mai insediato. È tutta una conseguenza di un meccanismo di presunta democrazia interna che si è inceppato clamorosamente: la forma-direttorio è stata votata su Rousseau nei giorni in cui nasceva il governo Draghi ma i membri di quella struttura non sono mai stati designati perché nel frattempo Grillo ha scelto come leader Giuseppe Conte. E però sui soldi si continua a litigare. Se è vero che anche il nuovo sistema di finanziamento del movimento ha fatto storcere il naso a più di un parlamentare. La nuova formula prevede mille euro per il Movimento e 1.500 per le restituzioni mirate a progetti di utilità collettiva. Va bene il principio ma non mancano le incertezze da parte di chi, prima di rinunciare a una parte dei propri emolumenti, vuole conoscere la fisionomia del nuovo progetto affidato a Giuseppe Conte. Il ministro Luigi Di Maio e alcuni rappresentanti del Movimento 5 Stelle durante il "Restitution day" con un assegno da 2 milioni di euro destinati alle popolazioni di Liguria, Friuli Venezia Giulia e Sicillia colpite dal maltempo - Roma, 6 febbraio 2019 Di certo, il divorzio con l'associazione era inevitabile. Doveva esplodere, prima o poi, la contraddizione di un soggetto esterno che incide pesantemente sulla linea politica. Che, per dirla con le parole di Crimi, "ha fatto delle attività, ha preso delle iniziative, relative anche alla piattaforma, in totale autonomia e senza coordinamento con il Movimento". Una fra tante: l'introduzione del sistema dei "mi fido", una sorta di contalike per gli esponenti 5S che ha fatto trionfare virtualmente Alessandro di Battista, rimasto l'uomo più vicino a Casaleggio. E ora il futuro ruota attorno ad altri numeri: i 198 mila iscritti, ad esempio, che riempiono un mega-elenco che il presidente dell'associazione non vuole cedere, almeno finché non verranno soddisfatte le sue pretese economiche. Per avere quei nomi, Conte ha annunciato un ricorso al garante della privacy. Ma Rousseau, particolare meno noto, custodisce gelosamente anche i data-base con il carteggio telematico dei procedimenti disciplinari: centinaia di mail con diffide, controdeduzioni, ricorsi. Insomma, tutti gli atti dei "processi" interni su cui regge l'inflessibile disciplina pentastellata. Fra questi, mail e allegati relativi all'espulsione degli oltre trenta dissidenti che non hanno votato per Draghi. Anche l'attività del tribunale grillino è sospesa, in questa lunga fase di transizione segnata da numeri monstre. E da una guerra per i soldi. E pensare che si parla di un movimento che comunque è riuscito a fare restituire dai propri eletti 96 milioni di euro: offuscare questo dato, farlo passare in secondo piano rispetto a veleni, polemiche e manovre di basso cabotaggio non era facile. Il Movimento è riuscito anche in questo. Nel frattempo, dulcis in fundo, i cacciati dopo il no al governo Draghi sono lì che pensano a come strutturarsi, diventando un altro partito, o soggetto politico, alternativo al M5S, attaccato al verbo delle origini. Una concorrenza sul suo stesso terreno insomma. Per ora ci sono una trentina di parlamentari interessati. Gli affari della Casaleggio Associati L'ambiguità di fondo che ha caratterizzato in tutti questi anni la fisionomia del Movimento 5 Stelle, con la poca trasparenza di gestione e potere tra vertice politico e "tecnico" - quest'ultimo appaltato a Rousseau, associazione diretta emanazione di una società privata - è anche oggetto di un approfondimento della procura di Milano che al momento non vede né un'accusa specifica né indagati; un fascicolo che in gergo è chiamato "modello 45" ma dove si analizzano almeno due nebulose consulenze fornite dalla Casaleggio associati. Il sospetto, che in realtà sul piano politico era stato messo in risalto da tempo, è che per ingraziarsi il M5S o aumentare la propria influenza sullo stesso Movimento, delle aziende fossero andate a bussare alla porta della società milanese di consulenza, una srl di medio-piccole dimensioni. Siglare un accordo con Davide Casaleggio confidando che quest'ultimo agevolasse le iniziative legislative riguardanti questo o quel dossier aperto in Parlamento o al governo. Nel caso specifico, nel "modello 45" sono finiti gli accordi tra la Casaleggio e Philip Morris (multinazionale del tabacco ora in fase di transizione verso le sigarette elettroniche) e poi Moby (trasporto marittimo), consulenze pesanti a livello economico. Piccolo particolare prima di entrare nel dettaglio e che accomuna entrambe le faccende: siti e pagine social oggetto di queste partnership, vecchie da uno a tre anni, sono praticamente tutte sparite dal web. Il centro di eccellenza di Philip Morris International a Zola Predosa, Bologna Da Philip Morris Italia, Casaleggio jr ha avuto in tutto 2,4 milioni di euro. La prima fattura è del settembre 2017. Passano due mesi e sul Blog delle Stelle, organo del M5S, appare un post firmato dalla futura viceministra all'Economia Laura Castelli e da Alessio Villarosa in cui si spiega che "a fronte di un sistema, la sigaretta elettronica, che sta aiutando moltissimi schiavi del tabacco ad uscire dalla loro dipendenza, da anni ormai sembra che i nostri governi cerchino in ogni modo di rendere impossibile l'abbandono della sigaretta tradizionale". Un assist in chiaro alle ragioni del committente. Il M5S non è ancora al governo, ci andrà di lì a poco meno di un anno. Ma in quel momento il potere di influenza del figlio del fondatore è ai massimi storici, la diarchia tra lui e Luigi Di Maio non è neanche lontanamente messa in discussione. Fino a luglio 2020, la big corporation versa circa 50 mila euro al mese di fatture alla società di Milano. Ma per fare cosa? "Per riservatezza e correttezza nei confronti di tutti i nostri clienti, non parliamo mai dei loro progetti, ma lasciamo che siano loro a decidere modalità e tempi se decidono di farlo", fu la versione di Casaleggio. Comunque: online vanno siti tipo "I furiosi" e cambiagesto.it, fanno una specie di controinformazione pro-sigarette elettroniche, articoli tipo "La caffeina crea più dipendenza del tabacco". La pagina Twitter di Pmi, gestita appunto dalla Casaleggio, supera di poco i mille follower e smette di cinguettare a maggio 2020. Nulla di memorabile. insomma. Di sicuro però pagato profumatamente. Sul fronte politico invece accade qualcosa, perché l'M5S nei fatti aiuta Philip Morris abbassando le tasse alle sigarette elettroniche (come detto: nuovo e principale business della multinazionale) una volta al governo con la Lega e opponendosi al riaumento proposto da Liberi e Uguali a luglio dello scorso anno. Altro fronte, la Moby di Vincenzo Onorato. Il 7 giugno 2018, una settimana dopo l'esordio dei 5 Stelle alla guida del Paese assieme al Carroccio, l'armatore si rivolge a Casaleggio con uno scopo ben preciso: "Sensibilizzare le istituzioni sul tema dei marittimi". Chi meglio può farlo di Casaleggio, il quale co-gestisce un partito con centinaia di parlamentari e che esprime un presidente del Consiglio, ministri e sottosegretari? Punto due dell'accordo, "raggiungere una community di riferimento da un milione di persone". Il contratto viene risolto a marzo 2020, alla Casaleggio in tutto vanno 1,2 milioni di euro. Anche qui, i risultati portati a casa sul piano professionale non sembrano eclatanti: il sito marittimi.com e relative pagine Facebook e Instagram al momento non più presenti ma non hanno lasciato particolari tracce su internet. Onorato comunque non si limita a Casaleggio, ma coinvolge anche Beppe Grillo. Al blog del comico vengono pagati 120 mila euro l'anno di pubblicità, per due anni, per ospitare dei banner di Moby: movimenti finiti al centro di una segnalazione all'Antiriciclaggio. Quanto a Moby - che nel corso degli anni ha erogato contributi anche a Pd, Fratelli d'Italia, alla fondazione del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti e alla fondazione Open di Matteo Renzi - aveva tutti gli interessi a coltivare buoni rapporti con la politica: tra le varie cose, infatti ha ereditato anche la compagnia Tirrenia, la quale gode di una convenzione con lo Stato da 72 milioni di euro l'anno, monopolio di alcune tratte marittime incluse. L'armatore Vincenzo Onorato Sul piano politico, entrambi i casi fanno rumore ed è ovvio che sia stato così, trattandosi del partito nato "contro il sistema", che da anni sul piano della propaganda e della retorica si diceva nemico di ogni lobby, impegnato a scardinare rapporti incestuosi tra gestione della cosa pubblica e strapotere delle grandi aziende. La risposta di Casaleggio invece è sempre stata la stessa: nessun conflitto di interesse né problemi di opportunità politica, un conto è il lavoro per Rousseau e i 5 Stelle e un altro quello che si fa per la propria società. Insomma, fidatevi di me. Solo che a un certo punto i primi a non fidarsi sono stati proprio i "suoi" parlamentari.

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