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martedì 1 marzo 2022

Pagare con lo smartphone, tutti modi: la guida da seguire passo passo

di Saverio Alloggio I pagamenti tramite smartphone rappresentano ormai una realtà consolidata. Utilizzarli è semplice ma è necessario conoscerne il funzionamento e alcune condizioni preliminari Gli smartphone come portafogli Saldare il conto al ristorante, prelevare i contanti dal bancomat, fare la spesa. Il tutto lasciando la carta di credito e i contanti a casa, al sicuro. È la magia dei pagamenti tramite smartphone, utilizzabili in pochi semplici passaggi. Una funzionalità che si sta ormai espandendo a macchia d’olio, complici gli innumerevoli vantaggi rispetto ai metodi tradizionali. Anche perché è possibile sfruttarli sia sui dispositivi Android che sugli iPhone, grazie ad apposite applicazioni. Tutto ruota attorno al chip NFC, una sigla che sta per Nield Field Communication. Una tecnologia che permette di scambiare, a distanza, delle informazioni tra due dispositivi, nel caso specifico gli smartphone e i POS. Entrambi devono esserne dotati affinché il sistema possa funzionare e, ovviamente, è necessario che l’esercizio commerciale di turno accetti i pagamenti elettronici. Ma procediamo con ordine. Verifica la compatibilità delle tue carte Il primo passo è verificare la compatibilità delle proprie carte con i pagamenti tramite smartphone. Solitamente le banche riportano questa informazione sui propri siti web, in cui è necessario cercare i marchi di Apple Pay e Google Pay, i due servizi più diffusi in questo particolare ambito. Qualora non ci fosse questa indicazione, è sufficiente rivolgersi al servizio assistenza dell’Istituto di Credito, sia online che allo sportello. Accoppia la tua carta allo smartphone Lo step successivo è quello di accoppiare la carta (sia di credito che prepagata) allo smartphone. In questo caso prenderemo in esame Apple Pay, il sistema di pagamento degli iPhone. Gli smartphone dell’azienda di Cupertino (da iPhone 6 in poi) hanno preinstallata l’applicazione Wallet. Dopo averla avviata, è necessario cliccare sul pulsante “aggiungi”. A questo punto si apre Apple Pay, in cui inserire tutti i dati della carta, dal numero alla scadenza. La procedura si completa ricevendo un codice di verifica, che può essere ricevuto via e-mail o SMS a piacimento. Con gli smartphone Android bisogna invece sincerarsi di due aspetti fondamentali. La compatibilità con la tecnologia NFC (ormai quasi scontata), che si verifica dalle impostazioni, cercando la voce “Usa NFC”. In secondo luogo, è necessario scaricare Google Pay. È il servizio di pagamenti che non è preinstallato come Wallet di Apple. Basta recarsi nel Play Store, il negozio app presente di default su Android Scegli un sistema di sicurezza Gli ultimi modelli Apple (da iPhone X in poi) hanno il riconoscimento facciale. È chiamato Face ID e utilizza uno scanner 3D e una luce strutturata per scansionare il volto. Basta uno sguardo per sbloccare lo smartphone o autorizzare un pagamento. Gli iPhone più datati offrono invece la scansione dell’impronta digitale. Ciascuna operazione viene autorizzata con le dita. Negli smartphone Android invece, proprio come accade con le carte, è possibile utilizzare anche un PIN, ovvero un codice numerico. Paga la cena al ristorante con il tuo smartphone Cena al ristorante, è il momento di saldare il conto. Occorre innanzitutto avviare l’app Wallet. È possibile impostare più di una carta per cui, una volta aperta l’applicazione, basta scegliere quella con cui si vuole pagare. Lo smartphone deve essere avvicinato al POS, il classico apparecchio mostrato dalle attività commerciale in questi casi. Si attiva così il chip NFC, lo stesso presente nelle carte. A questo punto si sente il classico “bip” e il pagamento si conclude con uno dei sistemi di sicurezza. Preleva dal Bancomat con lo smartphone, senza carta Improvvisa necessità di contanti. Anche in questo caso gli smartphone corrono in nostro aiuto. Giunti al bancomat, basta selezionare la voce “prelievo smart” nel menù. Appare a schermo un QR Code, un codice a barre quadrato che abbiamo imparato a conoscere in tempo di pandemia. La medesima operazione è necessaria nell’applicazione della propria banca sullo smartphone. Si apre la fotocamera e basta inquadrare il QR Code per prelevare. n sistema a prova di truffa Sono diversi i vantaggi offerti dai pagamenti tramite smartphone, specie in tema di sicurezza. A differenza delle carte infatti i telefoni non possono essere clonati e risultano immuni anche rispetto ai bancomat manomessi. Qualora lo smartphone venga smarrito o rubato, i sistemi di sicurezza impediscono di effettuare pagamenti, pur in presenza di somme minime. In più l’NFC necessita di una certa vicinanza tra smartphone e POS, per cui addio alle transazioni involontarie. È una rivoluzione ormai alle porte, che verrà certamente favorita dalla costante battaglia nei confronti dei contanti. La palla adesso passa alle attività commerciale e, forse ancor di più, alla nostra propensione.

domenica 20 febbraio 2022

Giustizia ma anche libertà

Angelo Panebianco Nel campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: «È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti». Ne consegue che «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere». Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante — anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo — sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri. Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione. Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le «filosofie» che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso. In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale. Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo. All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera. Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe. Anche se lentamente, molto lentamente, muterebbero le mentalità. Si modificherebbero, per cominciare, gli atteggiamenti del pubblico, finirebbe la pessima abitudine di chiamare «giudici» i procuratori (con il terribile effetto pratico di scambiare gli atti delle procure per sentenze e tanti saluti, nella consapevolezza generale, alla presunzione di non colpevolezza). Alla fine costume e prassi giudiziarie si adeguerebbero. E forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere. Ma, appunto, ciò non si realizzerebbe dalla sera alla mattina. Ci vorrebbe tempo, molto tempo. Tuttavia, intorno a questo referendum più che agli altri si giocherà una partita decisiva per il futuro della democrazia italiana. Con questa prova referendaria decideremo se tutelare la libertà del cittadino sia altrettanto importante che assicurare alla giustizia i colpevoli di reati, decideremo in sostanza se ci interessa vivere in una autentica democrazia liberale oppure se, per perseguire altri nobili scopi (colpire la corruzione o la criminalità organizzata o altro) siamo disposti a sacrificare certe garanzie di libertà. Non c’è soltanto la strada scelta dall’Ungheria di Orbán. Ci sono molti e diversi modi per rendere illiberale una democrazia. Gli argomenti usati da coloro che difendono l’unità delle funzioni (e quindi anche delle carriere) sono chiari. Essi dicono che, proprio allo scopo di tutelare meglio il cittadino, occorre che il pubblico ministero partecipi di quella che essi chiamano la «cultura della giurisdizione», ossia che egli non sia distante, professionalmente e culturalmente, dal giudice. In controluce si scorge una concezione paternalistica dell’amministrazione della giustizia (e quindi anche della democrazia). È il pm che operando senza essere limitato da forti contrappesi, contempera, grazie alla sua cultura e alla sua professionalità, il perseguimento dei reati e la tutela delle libertà costituzionalmente garantite. La concentrazione del potere che si è realizzata a causa dell’unità delle carriere, per i sostenitori di questa tesi, non è affatto un pericolo. La salvaguardia per tutti è data, in sostanza, dalla professionalità del pubblico ministero. La tesi opposta è di chi, d’accordo con Montesquieu, pensa che la libertà sia tutelata quando, e solo quando, a un potere se ne contrappone un altro, quando le prerogative dell’uno sono bilanciate dalle prerogative di un altro, quando «il potere frena il potere». Se il pubblico ministero è solo l’avvocato dell’accusa con pari peso e dignità rispetto all’avvocato difensore e il giudice è davvero «terzo» non per buona volontà o per gentile concessione ma perché glielo impone l’assetto proprio dell’organizzazione giudiziaria, allora, e solo allora, è sperabile che l’amministrazione della giustizia si avvicini almeno un po’ a un antico ideale, che diventi possibile perseguire i reati senza passare come rulli compressori sulle libertà costituzionalmente garantite. Non è dalla «benevolenza» del pubblico ministero che dobbiamo aspettarci il rispetto di quelle libertà, è da un sistema di «pesi e contrappesi» ben funzionante. Ciò che l’unità delle carriere, come si è potuto constatare in tutti questi anni, non è stata in grado di assicurare. Ci sarà pure una ragione per la quale, con le sole eccezioni di Italia e Francia, la divisione delle carriere sia la regola in tutte le democrazie liberali. Separando le funzioni cominceremmo a incamminarci su quella strada. Magari il Parlamento che, diciamolo, negli ultimi tempi non ha sempre dato brillanti prove di sé, ci sorprenderà. Magari il referendum sulla separazione decadrà perché il Parlamento riuscirà a fare una buona legge ispirata al principio liberale sopra evocato. Forse arriverà un giorno in cui avremo un giudice compiutamente «terzo», al di sopra dell’accusa e della difesa, grazie alla scomparsa dei legami organizzativi fra giudici e pubblici ministeri. E i pubblici ministeri, a loro volta, dovranno fare i conti con un forte potere controbilanciante. Secondo le regole, sempre faticose e difficili, da cui dipende la tutela delle libertà.

venerdì 11 febbraio 2022

Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa"

Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa" L'aria che tira, a Guido Crosetto basta una frase: "Qual è il reato?", zittito il manettaro Barbacetto L'Eredità, ridono alle sue spalle? Flavio Insinna li inchioda: "Quei due scavezzacollo...", clamoroso su Rai 1 Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani travolge Draghi: "Qual è la vera violenza, noi l'unico Paese al mondo", italiani prigionieri Dritto e Rovescio, Paragone e la rivelazione su Luc Montagnier: "La domanda più stupida". Poco prima di morire... Giorgia Meloni contro Roberto Saviano: "Mi dà della bast*** e scappa. Ma poiché non siamo un partito di imbecilli..." Mario Draghi? Contestare il premier non è reato: l'inquietante titolo di "un quotidiano di primario rilievo" Le Iene, Teo Mammucari-choc contro Belen Rodriguez. "Non sembri, sei una putt***" Bollette alle stelle, il nuovo tetto-famiglie: rumors sul piano del governo, chi può usufruirne Striscia la Notizia, il "tentato suicidio" di Rafa Leao: ciò che pochi hanno notato, disastro a San Siro PiazzaPulita, Romano Prodi e la confessione su Mario Draghi: "Perché è sceso in politica". Italia commissariata per sempre? Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa" 00:00 Mi fido della mia antica memoria. Sono trascorsi 30 anni da quando scoppiò Mani Pulite. Era il 17 febbraio 1992 quando la magistratura avviò l'inchiesta giudiziaria che diede la stura a una sorta di rivoluzione. Venne pescato il capo del Pio Albergo Trivulzio mentre incassava una tangente in denaro contante, alcuni milioni di lire, mentre lui, Mario Chiesa, preso in castagna, per evitare guai si affrettò a gettare la mazzetta nel water. Furbata inutile, perché le forze dell'ordine capirono tutto e ripescarono i quattrini. Ciò bastò per aprire indagini che ebbero sviluppi clamorosi. Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all'epoca si usava in politica. Il Pci era finanziato dall'Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori. Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell'epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l'impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene. Le toghe cacciano Giuseppe Conte, il dubbio di Vittorio Feltri: è giusto che i magistrati scelgano i leader? Le toghe cacciano Giuseppe Conte, il dubbio di Vittorio Feltri: è giusto che i magistrati scelgano i leader? MASSACRO - La magistratura, con Antonio di Pietro in testa, organizzò un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato. L'intera compagine politica fu accusata di furti, cosicché sparirono la Dc, il Psi, i repubblicani e in socialdemocratici nonché i liberali. Un cimitero. Vi risparmio i dettagli della strage avvenuta secondo criteri che a distanza di anni appaiono grossolani. Craxi e Forlani, in particolare, furono massacrati. La Repubblica si inginocchiò alla magistratura, lasciando che l'impianto istituzionale che aveva favorito la rinascita postbellica del nostro Paese andasse a ramengo. Le conseguenze sono note e hanno provocato una crisi nel nostro sistema amministrativo da cui non siamo ancora riusciti a uscire. I CONSIGLI DI AFELTRA - La narrazione sommaria di questi fatti dimostra che la cosiddetta Prima Repubblica fu assassinata dalle toghe senza fatica, perché essa si arrese senza neanche tentare di reagire. L'unico che protestò con veemenza fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. All'epoca dirigevo da un paio di mesi L'Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempila prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po' di merda (testuale). La ricetta funzionò. Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo. Li denuncio, molestie sessuali: la bomba di Matteo Renzi contro i giudici che lo vogliono processare "Li denuncio", molestie sessuali: la bomba di Matteo Renzi contro i giudici che lo vogliono processare IL CINGHIALONE - Cominciarono gli arresti, i suicidi. Le vendite dell'Indipendente si impennarono e mi indussero ad insistere sul caso che divenne nazionale, internazionale addirittura. Scrivevo articoli al fulmicotone in appoggio alla procura di Milano, costringendo i miei colleghi a venirmi appresso, dapprima timidamente, poi usando la grancassa. Il mio giornale andava a ruba e io godevo, non mi importava nulla del pressappochismo delle toghe. Ero invasato, eccitato. Il soprannome Cinghialone affibbiato a Craxi lo inventai io, e ancora me ne vergogno. Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo "un tanto al chilo". In quegli anni covava nelle gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'. La mia indole di direttore in cerca di successo era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali. Renzi, Boschi e Lotti alla sbarra. Tsunami giudiziario su Italia Viva: finanziamenti, perché li vogliono processare "Renzi, Boschi e Lotti alla sbarra". Tsunami giudiziario su Italia Viva: finanziamenti, perché li vogliono processare FRUTTI PEGGIORI - Sta di fatto che quella stagione fu devastante, aprì le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima, quella in cui viviamo malamente con una classe politica assai peggiore della precedente. La parentesi berlusconiana ci ha illuso di essere tornati alla normalità, ma sappiamo come e perché Silvio innocente sia stato castigato con le stesse armi giudiziarie servite per uccidere la prima Repubblica. Oggi la classe politica è di infimo livello, la colpa è collettiva, anche mia. Mi scuso coi lettori se ho ecceduto nel menare le mani, ma ho qualche attenuante: mi prudevano.

Le liti nei partiti e tra alleati, insulti a chilometro zero

di Antonio Polito | 10 febbraio 2022 Nessuno si fida di nessuno: forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia La pugnalata alle spalle, il tradimento, il complotto, l’abiura, l’autocritica. Il dizionario della lotta politica, in pieno XXI secolo e nonostante un governo di unità nazionale, rispolvera le parole e i toni della guerra fredda. Di un tempo in cui la delegittimazione tra avversari poteva almeno essere giustificata dallo scontro epocale tra visioni del mondo contrapposte. Così, se Di Maio non è d’accordo con il capo del suo partito, è perché è un essere «a forma di poltrona», è un «traditore», è «il Renzi del M5S» (non è chiaro se nella similitudine Conte ne sia il Bersani). E Di Maio, per difendersi, deve metterla anche lui sul piano della dirittura morale, per spiegare che pur avendo contrastato l’elezione di Elisabetta Belloni, capo dei Servizi, a capo dello Stato, lei è sua «sorella» (addirittura!), e garantire che le è stata sempre «leale», in un singolare capovolgimento dei ruoli per cui è il ministro della Repubblica che giura lealtà al funzionario. Giorgia Meloni, d’altra parte, non è più «disposta a fare buon viso a cattivo gioco», dove il cattivo giocatore, si direbbe quasi il baro, è Salvini, perché prende i voti del centrodestra e poi se li spende col centrosinistra, e d’ora in poi, se vuole ancora avere rapporti con lei, deve dare «garanzie» di non tradirla di nuovo alla prima occasione. «Stia all’opposizione senza romperci troppo i coglioni», aveva dal canto suo intimato il Capitano, anche lui incline all’uso politico dell’indignazione. E lo scontro non risparmia nemmeno i minori. Perché se la Meloni dice che non vaccina la figlia, vuoi che Salvini non corra ad annunciare che nemmeno lui vaccina la figlia, e Tajani invece che la vaccinerebbe subito, se solo ce l’avesse una figlia piccola? Poveri ragazzi, privati della privacy fin dalla più tenera età. Non si capisce fino a che punto i politici stiano imitando lo stile dei social, o i social abbiano assorbito quello dei politici; in una logica paranoica che prima o poi porterà qualcuno a definire gli avversari «pulci nella criniera del cavallo di razza», come fece Togliatti settanta anni fa con due dirigenti del Pci in dissenso, Magnani e Cucchi, bollati come «magnacucchi» (la infamia sul «venduto» funziona sempre: la colf di uno dei due espulsi si licenziò pur di non restare al servizio di un «traditore»). Ma mentre nel passato di solito ci si insultava tra nemici, oggi lo si fa molto spesso tra alleati o anche tra compagni dello stesso partito. Con il risultato che gli elettori, il popolo costantemente evocato e vezzeggiato, viene indotto a ritirarsi sdegnato da una competizione politica sempre più vuota di idee e piena di potere. Perché se Conte e Di Maio non si fidano l’uno dell’altro, se Meloni e Salvini non si fidano l’una dell’altro, se Renzi non si fida dei magistrati che lo stanno indagando, e i sovranisti non si fidano dei centristi che non votano la Casellati, e i leader non si fidano dei loro stessi ministri in odore di «poltronisti»; ma come pensate che gli elettori possano fidarsi di tutti loro, e fidarsi del Parlamento e del processo democratico, e affollare le urne quando è il momento? È infatti sulla fiducia che è basata la «grandiosa invenzione del sistema rappresentativo», il frutto migliore della Rivoluzione francese: il popolo esercita la sovranità attraverso una delega ai suoi rappresentanti, confermandogliela o ritirandola a scadenze fissate dalla legge. Forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia. Gli elettori vengono trattati da spettatori di un numero circense, eseguito da quegli stessi leader che ogni giorno rivendicano «il primato della politica», il bisogno che «torni in cattedra», e denunciano il complotto tecnocratico che mira a screditarla per prenderne il potere. Medico, cura te stesso, dice il Vangelo. E di certo i partiti sembrano tutti aver bisogno di un bagno di umiltà e di identità. Umiltà per ricordarsi che la vita pubblica di una nazione è più grande delle loro pretese. Identità per fermarsi un attimo a riflettere su chi sono (visto che le coalizioni non ce lo dicono più), che cosa vogliono (non basta volere ciò che i sondaggi dicono che la gente vuole), e quali regole si danno per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come prescrive la Costituzione (invece di passare il tempo dai notai, come se fossero società a responsabilità limitata).

domenica 6 febbraio 2022

Si dice "ciliege" o "ciliegie?

Marta Alicja Folęga Ha studiato presso Università di Bologna10 mesi Si dice "ciliege" o "ciliegie? Nei plurali dei sostantivi femminili terminanti con le sillabe -cia o -gia non accentate, la grafia segue di solito una regola pratica: – si conserva la i quando la c e la g sono precedute da vocale acacia ▶ acacie ciliegia ▶ ciliegie – si elimina la i quando c e g sono precedute da consonante goccia ▶ gocce spiaggia ▶ spiagge -CIA, -GIA, -SCIA, PLURALE DEI NOMI IN in "La grammatica italiana" Nei plurali dei sostantivi femminili terminanti con le sillabe -cia o -gia non accentate, la grafia segue di solito una regola pratica: – si conserva la i quando la c e la g sono precedute da vocale acacia ▶ acacie ciliegia ▶ ciliegie – si elimina la i quando c e g sono precedute da consonante goccia ▶ gocce spiaggia ▶ spiagge Si tratta di una questione puramente ortografica: al plurale, infatti, la i non viene pronunciata (come nel singolare) e non serve neanche a indicare la corret https://www.treccani.it/enciclopedia/cia-gia-scia-plurale-dei-nomi-in_%28La-grammatica-italiana%29/ 117.903 visualizzazioniVisualizza 232 voti positiviVisualizza 2 condivisioni

IO GRIDO 5 stelle polari

Febbraio 5, 2022 Focus di Beppe Grillo – Il movimento è nato nel 2009, ma è stato concepito sul volgere del millennio. Oggi è un giovane Post-Millennial con le paure e le speranze della sua generazione. Le prime per un mondo sempre più precario e fragile, devastato dallo sfruttamento delle risorse, intriso di un’avidità straripante, incapace di dare prospettive ai giovani. Le seconde per le persone semplici, la passione civile, il rifiuto di un modello di sviluppo basato sulla dissipazione. La vecchia classe dirigente non comprendeva – né comprende ancora – queste istanze, anche perché sono tutte in opposizione alla cultura dei Boomers, da cui dipendono molte ragioni del nostro disfacimento: da idealisti di un mondo più equo, solidale e sostenibile hanno finito per tradire sé stessi – e tradirsi fra loro – fino al punto di saccheggiare il presente come se non esistesse il futuro. Oggi assistono sbigottiti e increduli alla Great Resignation di chi ha lasciato il lavoro per vivere, piuttosto che vivere per lavorare. Siamo stati accusati di toni aspri verso la vecchia classe dirigente, ma non abbiamo fatto altro che esprimere ciò che pensava (e pensa ancora) la gente comune, che non ne poteva (e ancora non ne può) più. Tant’è che spunta sempre qualche “vecchia volpe” che – ora promettendo una scarpa o un condono, ora minacciando una rottamazione senza incentivi, ora inghiottendo un’italica salsiccia e tuonando contro i wurstel – sfrutta questo sentimento popolare per salire al potere e chiudersi nella fortezza al posto di (o insieme a) chi lo ha preceduto. Il movimento è stato accusato della stessa involuzione e di aver rinnegato i valori su cui è nato. Quest’accusa ricorda la parabola della trave e della pagliuzza, come se gli errori degli altri giustificassero i propri. E ben più gravi, tra l’altro, perché fatti da adulti smaliziati e non da giovani visionari e ingenui. E se l’alternativa deve essere il cinismo, rivendichiamo pure la nostra ingenuità, che potrà forse inciampare in una realtà più prosaica, ma resta anche il presupposto imprescindibile di un cambiamento che “appare impossibile, fino a quando non è fatto”. Così chi mai avrebbe potuto immaginare che le nostre visioni del mondo sarebbero state le stesse del piano di rilancio dell’Unione Europea e del PNRR? Chi mai avrebbe previsto che una nuova forza riuscisse ad avviare un percorso di autoriforma della classe politica al punto di farla rinunciare ad alcuni dei (sebbene non tutti i) suoi privilegi più insopportabili? Chi avrebbe sospettato che un’idea visionaria come quella del reddito di cittadinanza – sostenuta perfino dagli economisti più liberali – avrebbe trovato “cittadinanza” proprio in uno dei paesi più corporativi dell’occidente? Non tutto è andato come avremmo voluto, ma nessuno può negare che molti dei cambiamenti realizzati siano stati rivoluzionari. Alla spocchia e alla sufficienza di chi ci disprezza opponiamo la semplicità di chi ci ringrazia. Che è poi la semplicità nostra e delle nostre idee, rispetto alla presunta competenza di sedicenti ottimati che vivono di politica da quando hanno i calzoni corti, senza avere mai fatto uno dei lavori umili dei nostri, che per questo vengono pure derisi. Fra i tanti travisamenti – se non mistificazioni – di questa nostra identità, c’è il teorema del nostro rifiuto della competenza, come se la competenza fosse inconciliabile con i desideri della gente comune. A prescindere dal fatto che l’istruzione media dei nostri è superiore a quella dei nostri avversari, la competenza non è certo l’arguzia delle “vecchie volpi”, la cui unica capacità dimostrata è di aggrapparsi al potere, se non di restare sulla linea di galleggiamento. La vera competenza, per noi, deve essere cercata nella società civile da cui proveniamo, fra i professionisti, gli imprenditori e i manager, vale a dire fra chi ha dimostrato di saper fare, e non di far sapere. Questa nostra rivoluzione democratica è oggi chiamata a passare dai suoi ardori giovanili alla sua maturità, senza rinnegare le sue radici ma individuando percorsi più strutturati per realizzarne il disegno. La nostra visione del mondo è sempre la stessa: vogliamo costruire un futuro più sostenibile, equo, partecipato, accessibile e digitale. Cinque stelle polari che ricordano le cinque parole chiave delle proposte di Italo Calvino per il nuovo millennio, e che vorremmo oggi realizzare con indicazioni concrete e strutturate. 1. Leggerezza Ripensare al modello di sviluppo, passando da un modello “pesante” e ipertrofico – che potremmo chiamare dalla “culla alla discarica” – a un modello “leggero” e sostenibile – che potremmo chiamare “dalla culla alla culla” – da non confondere con un modello di “decrescita felice” ma da identificare piuttosto nell’economia circolare. Proposte: (1) tassa automobilistica basata sui consumi effettivi (di strada, di combustibili fossili, etc.) e non sulla cilindrata delle vetture. Grazie alla geolocalizzazione delle vetture il suo gettito potrebbe essere indirizzato, in tutto o in parte, alla manutenzione delle strade su cui più viaggiano, anche per dare un senso di partecipazione al costo sociale del trasporto su gomma; (2) imposta sui rifiuti proporzionale ai rifiuti (non riciclabili) generati, come avviene in Svizzera; (3) IVA proporzionale all’impronta ambientale dei prodotti e servizi acquistati; (4) incentivi per le imprese che realizzino centri di smart working vicini ai propri dipendenti 2. Rapidità Realizzare un sistema di attuazione delle regole rapido e decentrato, anche attraverso la mobilitazione e la partecipazione dei cittadini. Proposte: (1) incentivi privati per la tutela di interessi pubblici, analogamente a ciò che avviene negli Stati Uniti con le class actions, le azioni sociali di responsabilità dei soci di minoranza e i whistleblowers; (2) favorire la sussidiarietà orizzontale nell’erogazione di servizi pubblici, anche attraverso enti del terzo settore e/o risorse umane che godono di ammortizzatori. 3. Esattezza Realizzare un sistema di regole certe e prevedibili. Proposte: (1) realizzare sistema le cui sentenze siano più coerenti per favorire una migliore previsione dell’esisto dei contenziosi; (2) estendere l’istituto dell’interpello in materia fiscale ad altri ambiti della pubblica amministrazione; (3) libertà di accesso ai fornitori di servizi pubblici di diversi territori per favorire la competizione anche nel settore pubblico. 4. Visibilità Assicurare trasparenza dei (e accesso ai) dati personali. Proposte: (1) obbligo di comunicare i dati personali degli interessati a una “casella digitale” (repository) certificata da cui gli interessati potrebbero: (a) trovare in un unico indirizzo i titolari di trattamento dei dati che li riguardano; (b) esercitare tramite il medesimo indirizzo i diritti che già spettano loro in base al GDPR o che potrebbero spettar loro ai sensi di nuove norme; (c) rendere disponibili tali dati ai soggetti che ne facciano richiesta; (2) riordinare gli obblighi informativi al fine di alimentare database pubblici fruibili da imprese in un regime di accesso aperto. 5. Molteplicità Estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alla crescita della società civile. Proposte: (1) estensione dei referendum consultivi, per esempio come avviene in Svizzera da decenni; (2) rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione; (3) coinvolgimento dei percettori di ammortizzatori sociali in attività di utilità sociale. image_pdfScarica la pagina in PDF

Lo Stato, l’incuria e l’italiano oscuro delle leggi

OPINIONI di Sabino Cassese | 05 febbraio 2022 Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di «antilingua», che arriva persino a produrre «mostri linguistici La Gazzetta ufficiale di venerdì 4 febbraio ha pubblicato il decreto legge sulle certificazioni verdi Covid-19. Questo regola tre materie: la durata della validità dei certificati per chi risiede in Italia e per chi viene dall’estero e la loro efficacia nella zona rossa; gli spostamenti da e per le isole e il trasporto scolastico; la gestione dei casi di positività nelle scuole. Si tratta di materie che non presentano un grado di difficoltà simile a quello affrontato dal Georg Wilhelm Friedrich Hegel nella «Fenomenologia dello spirito». Tuttavia, i redattori del decreto sono riusciti nell’ardua impresa di rendere la lettura del decreto altrettanto difficile a quella dello studio dell’opera del grande filosofo tedesco. Per farlo, hanno dovuto condensare nei soli sette articoli del decreto ben dieci rinvii ad altri articoli di ben sette altri decreti o leggi e scrivere frasi ricche di parole, che in qualche caso, sfiorano il centinaio. Questo richiede al lettore di procurarsi altri sette atti con forza di legge per comprendere questo decreto, nonché uno sforzo particolare per giungere al termine delle centinaia di parole costrette in una frase (il noto linguista Tullio De Mauro aveva scritto che per esser leggibili le frasi non dovrebbero superare le 25 parole). È importante sapere che il decreto, datato 4 febbraio, è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione, quindi ieri 5 febbraio, e che fa «obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare». Quindi, ha richiesto a una cinquantina di milioni di residenti nel territorio della Repubblica italiana di dotarsi in ore notturne di una piccola biblioteca giuridica e di molta pazienza per completare il «puzzle» degli incastri di norme che rinviano l’una all’altra. Per frapporre maggiori difficoltà all’accesso alle norme, poi, il sito ufficiale del governo, alle ore 17 di ieri 5 febbraio, nella sezione intitolata «Covid-19 le misure adottate dal governo» non conteneva alcun riferimento al decreto legge del 4 febbraio. Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di «antilingua», che arriva persino a produrre «mostri linguistici» (queste sono espressioni che possono trovarsi nel libro di Michele Cortellazzo, Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione, Roma, Carocci, 2021; lo stesso autore aveva pubblicato, con Federica Pellegrino, una Guida alla scrittura istituzionale, Roma – Bari, Laterza, 2003). Altri linguisti si sono anche affacciati fuori d’Italia e hanno studiato l’italiano giuridico dell’Unione europea e della Svizzera (così Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci, 2021). Infine, lo Stato italiano, nel 1994, aveva pubblicato un Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposte e materiali di studio, edito dal Poligrafico dello Stato ed ora facilmente rintracciabile «on line», nel quale era spiegato come scrivere le leggi e i regolamenti. Questo ulteriore esempio di incuria dello Stato suscita alcune domande. La prima è: se lo Stato comunica in questo modo con i cittadini, che può aspettarsi dai cittadini? La seconda è: se questo non è un argomento che divide i cittadini (penso che non vi sia forza politica che ritenga che la legge debba essere oscura) come è possibile che si continui con questo pessimo andazzo? Poiché il lupo perde il pelo ma non il vizio, termino con tre proposte. Primo: distribuire questo o un altro similare decreto nelle scuole e invitare gli insegnanti di italiano a chiedere alle scolaresche di riscrivere in italiano comprensibile queste norme. Secondo: acquistare, a spese del Tesoro, duecento copie di una decina di libri di linguisti sul linguaggio legislativo e burocratico, regalarli agli autori di questi scempi, invitarli a leggerli e interrogarli dopo un mese, per accertarsi che abbiano appreso. Terza sommessa e trepida proposta: uomini politici e alte autorità dello Stato, prima di firmare questi decreti legge, oltre a interrogarvi sulla loro opportunità e legittimità, perché non vi chiedete come potrebbero essere resi comprensibili? COVID 19 LINGUAGGIO

domenica 23 gennaio 2022

La sinistra italiana? Un covo di perbenisti, senza senso della realtà

POLITICA Domenica, 23 gennaio 2022 Gli uomini di sinistra si credono infallibili, eternamente dal lato della ragione e in diritto di trattare tutti dall'alto al basso, giudicando severamente L'opinione di Gianni Pardo La sinistra italiana? Un covo di perbenisti, senza senso della realtà Per la maggior parte dei cittadini essere di sinistra non ha nulla a che vedere con l’economia o con la politica: è semplicemente una posizione morale Moltissime persone che votano a sinistra non sanno perché lo fanno. Ma l’ignoranza non è un’esclusiva della politica. La maggior parte delle posizioni religiose, sociali e culturali sono adottate e vissute con estrema superficialità. Chi si dichiara di sinistra normalmente non conosce la storia di questo movimento, dal socialismo utopistico francese in poi. Non conosce le teorie di Karl Marx. Non conosce la storia politica degli ultimi due secoli. In generale, il votante di sinistra della sinistra non sa niente. E per cominciare ignora del tutto l’economia. E allora, che cosa intende, per “essere di sinistra”? Ecco un problema che non si pone. Forse vi risponderebbe che “ogni persona perbene è di sinistra”. Infatti, per la maggior parte dei cittadini essere di sinistra non ha nulla a che vedere con l’economia o con la politica: è semplicemente una posizione morale. Una risposta all’interrogativo: siete per la bontà o per la cattiveria? Per la solidarietà o per l’egoismo? Per la giustizia o per l’ingiustizia? In una parola: per il bene o per il male? Questa distinzione manichea spiega perché indistintamente tutti coloro che si sentono “di sinistra” si considerano moralmente superiori. Infatti tutti gli uomini di destra – cioè tutti quelli che non sono di sinistra - sono per la cattiveria, l’egoismo, l’ingiustizia e il male. Il discrimine, come si vede, non è logico o intellettuale, politologico o economico: è essenzialmente affettivo. E si nutre di conformismo. Il mondo della scuola, pressoché unanimemente di sinistra, ne è un buon esempio. In esso si muove gente che vive di stipendio fisso e il cui lavoro non è mai sottoposto a controlli di rendimento. Dunque il genio della cultura e dell’insegnamento guadagna quanto l’ignorante scansafatiche. Quello che non insegna niente e promuove tutti. Ed ora chiediamoci: perché promuovere un somaro è “di sinistra” mentre bocciarlo è “di destra”? Tutto dipende dal criterio di valutazione. Il professore di sinistra pensa che, se quell’alunno ha risposto male alle interrogazioni, è perché non gli hanno insegnato le cose nel modo giusto; perché non gli sono state offerte le condizioni giuste affinché studiasse; perché i professori non si sono interessati di lui in modo speciale, come meritava; infine (addirittura) perché è intellettualmente ipodotato e ci si deve chiedere: è forse responsabile di questa inferiorità? Dunque va promosso “per motivi morali”. Per il docente di sinistra la bocciatura o la promozione non certificano l’acquisizione, o la mancata acquisizione, delle nozioni minime richieste ma il livello morale del discente. E questo ha completamente rovinato la scuola italiana. Che senso ha rilasciare il diploma di ragioniere ad uno che non saprebbe fare il ragioniere? E perché rilasciare un diploma di Scuola Media Inferiore a chi non è alfabetizzato? È come mettere il cartello: “Questa è una torta” su una forma di pane ammuffito. L’uomo di sinistra non parte dalla realtà, ma dal sentimento. Se gli operai di una certa fabbrica guadagnano troppo poco, pensa che lo Stato dovrebbe imporre alla fabbrica di pagarli di più. Senza chiedersi se per caso la fabbrica non sia marginale tanto che, se aumenta i costi, chiude. Per lui è evidente: se il datore di lavoro non li paga di più, è perché è cattivo e si mette in tasca quello che non dà agli operai. Il che potrebbe perfino essere vero, ma bisognerebbe accertarlo, non presumerlo. Purtroppo la realtà concreta è troppo prosaica per occuparsene. Basta creare un “salario minimo” e tutti gli italiani saranno benestanti. E poi ci si meraviglia del lavoro nero. Se proprio si tenta l’impresa titanica di spiegare un po’ di economia all’uomo di sinistra, si sbatte contro la panacea di tutti i mali: l’azione dello Stato. Se la fabbrica non può aumentare i salari intervenga lo Stato, ripianando il deficit, a spese dei contribuenti realmente produttivi. L’Italia ha sprecato quattordici miliardi di euro per non chiudere un’impresa economicamente fallita come l’Alitalia. E così si arriva al nocciolo della questione. Dinanzi ad ogni dilemma l’uomo può scegliere la soluzione logica (ammesso che la conosca) o la soluzione sentimentale. La prima indica quella più utile per tutti, la seconda quella che fa sentire buoni, sensibili, caritatevoli (sempre a spese altrui, beninteso). Se il dilemma è fra bene e male, chi può onestamente scegliere il male? Ecco come si spiega che tanta gente voti per l’ideale, per la soluzione miracolistica, per il paradiso in terra. Ed ecco perché, come ha detto Luca Ricolfi, gli uomini di sinistra sono “antipatici”. Il loro senso di superiorità morale è talmente forte che essi si credono infallibili, eternamente dal lato della ragione e in diritto di trattare tutti dall’alto e giudicarli. Severamente. Il successo mondiale del comunismo si spiega col fatto che molti non hanno mai guardato alla situazione che si è realizzata nei Paesi dove esso ha governato (si pensi all’attuale Venezuela) ma ai suoi slogan, alle sue speranze, alle sue promesse. Come si potrebbe non essere per l’uguaglianza di tutti? per la prosperità di tutti? Per la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Per l’eliminazione dei privilegi e delle rendite? per una società felice in cui gli ultimi sono aiutati e rispettati? Il fatto che questi ideali siano irrealizzabili, e che comunque il comunismo non li abbia mai realizzati, non ha avuto importanza. Ed è così che il comunismo ha dominato il mondo. La voglia di credere a queste fandonie è stata tale che, ogni volta che la verità trapelava dalle dittature comuniste gli idealisti preferivano credere che quelle evidenze fossero calunnie. Il complotto dei cattivi si attivava per negare la felicità di chi aveva abbracciato la dottrina salvifica. Il comunismo, nei Paesi che non lo hanno vissuto sulla loro pelle, non è stato annientato dall’evidenza del suo insuccesso, ma dalla dichiarazione di fallimento proclamata dalla più alta cattedra di quella dottrina: cioè da un congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Gli allocchi occidentali hanno accettato di vedere quello che avevano sotto gli occhi soltanto quando glielo ha mostrato Khrushchev, il Papa stesso di quella falsa religione. Prima, per decenni, hanno avuto il coraggio di credere che sotto Stalin la gente vivesse bene. Essere di sinistra significa avere buoni sentimenti e totale mancanza di senso del reale. Essere di sinistra significa credere che si combatta la povertà facendo la carità allo storpio dinanzi alla chiesa. Essere di sinistra significa fare la cosa che sembra giusta nel brevissimo termine, senza chiedersi se non sia rovinosa a medio e lungo termine. Essere di sinistra significa essere intellettualmente minorenni e vantarsene per giunta. Ma gli uomini di sinistra in questo campo hanno una giustificazione storico-culturale, anche se non la conoscono. E dire che è il motivo per il quale, dopo il Settecento, i cervelli europei sembrano funzionare a singhiozzo. Nella seconda metà del Settecento nacque in Francia una sorta di opposizione all’Illuminismo. Si era stanchi della fredda ragione e la moda divenne quella della “sensibilità”. Rousseau si propose come il leader e l’interprete di questa nuova tendenza, contrapponendo alla razionalità illuministica l’affettività pre-romantica. A suo parere, la bussola dell’uomo dabbene era e doveva essere il sentimento. L’uomo che ragiona, per lui, era corrotto e malvagio, mentre “l’uomo che sente” e segue il suo cuore, era “l’uomo di natura”, l’uomo giusto, l’uomo incorrotto. L’istinto è guida migliore della logica. Questa dottrina funesta uccise in concreto l’Illuminismo. Separò la scienza dal sentire comune. Risuscitò la religione (annullandone la dottrina e riducendola a sentimento; si legga Chateaubriand). Insomma ammorbò a tal punto l’intelligenza che ancora oggi la razionalità non ha diritto di cittadinanza e perde se si scontra con “i buoni sentimenti”. L’Illuminismo ha rappresentato il punto più alto della razionalità umana, ma deve essersi trattato di uno sforzo insostenibile. Infatti da un lato la scienza e la tecnologia hanno fatto passi da gigante, dall’altro la mentalità dell’uomo medio, ridivenuta infantile, se ne è allontanata nella direzione contraria. Verso il passato e la mentalità del primitivo.

mercoledì 12 gennaio 2022

Fine isolamento, la Regione Toscana libera chi è risultato negativo da 24 ore

REGOLE Fine isolamento, la Regione Toscana libera chi è risultato negativo da 24 ore Il perfezionamento dell’ultima ordinanza del presidente Eugenio Giani di Giulio Gori Se entro 24 ore dall’attestazione di negatività del tampone antigenico rapido fatto in farmacia (a casa non vale nulla) o test molecolare, il cittadino toscano non ha ancora ricevuto la certificazione di fine isolamento sanitario da Covid19, direttamente e automaticamente (tramite email), dagli organi competenti delle Asl, il referto di negativizzazione del test “è valido a tutti gli effetti” come provvedimento di fine isolamento. E’ la novità introdotta dal presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, a perfezionamento della sua ultima ordinanza (già firmata e in vigore da oggi) sulle attività di tracciamento e gestione dei casi positivi. «Questo ulteriore intervento si inserisce nel processo di velocizzazione delle procedure di comunicazione delle misure di isolamento e di guarigione che coinvolgono tantissimi cittadini - commenta il presidente -. Se entro 24 ore dall’attestazione di negatività del test non arriva la comunicazione automatica della Asl, l’isolamento sanitario da Covid può considerarsi concluso e la persona negativizzata può ritornare al lavoro e riprendere tutte le sue attività». Tra decreti governativi e ordinanze regionali, le regole per chi è contagiato e in isolamento, ma anche per chi è in quarantena precauzionale, sono molto cambiate rispetto a dicembre, ovvero prima che arrivasse l’ondata di coronavirus da variante Omicron. E sono anche diventate molto più articolate, quindi più difficili da comprendere. Ecco un breve vademecum. Le regole nazionali In caso di positività al coronavirus, sancita sia da tampone molecolare sia da antigenico rapido, scatta l’isolamento. Dura almeno 7 giorni per chi è vaccinato con la terza dose e chi ha la seconda da meno di 120 giorni. Per tutti gli altri, l’isolamento dura almeno 10 giorni. Per uscire dall’isolamento serve essere asintomatici da almeno 3 giorni e avere il tampone negativo (molecolare o antigenico, ma fatto in farmacia, non valgono quelli a domicilio comprati al supermercato). Chi al 22esimo giorno abbia ancora il tampone positivo, ma sia asintomatico, visto che viene considerato difficilmente contagioso, può uscire dall’isolamento e andare al supermercato con la mascherina Ffp2, ma non può, fintanto che non è negativo, andare a lavorare o a scuola. I contatti stretti Per quel che riguarda i contatti stretti di contagiato, le regole sono molto articolate: la quarantena non si applica per chi abbia la terza dose, la seconda da meno di 120 giorni o la guarigione da meno di 120 giorni, ma solo se asintomatici e con l’obbligo di portare sempre e ovunque la mascherina Ffp2. Per queste persone, se sintomatiche, la quarantena è invece di 5 giorni dal momento del contatto a rischio, con tampone in uscita. Per chi invece non sia vaccinato con la terza dose (o comunque non vaccinato o guarito negli ultimi 120 giorni), la quarantena è di 10 giorni col tampone finale. Le regole toscane Quanto si verifica il risultato del tampone, accedendo al sito della Regione «Referti Covid», oppure al sito del fascicolo sanitario elettronico (o alla sua app, Toscana Salute), in caso di prima positività si deve cliccare sul pulsante «autovalutazione» per fare l’auto-tracciamento. È una procedura necessaria non solo per segnalare il proprio caso al sistema sanitario, ma anche per accelerare le pratiche di gestione della quarantena, comprese poi quelle di fine isolamento. Per quanto riguarda i casi arretrati, chi ha già compilato il questionario legato all’sms non deve fare altro; e chi ha già il secondo tampone negativo ma non è mai stato preso in carico, può compilare il questionario per accelerare le pratiche di fine isolamento. Ma dopo 24 ore dall’esito del test negativo, in Toscana, si può uscire, tornare a lavoro e a scuola. I tamponi Sul fronte dei tamponi, la Regione Toscana sta mettendo a regime un sistema che nei prossimi giorni dovrebbe mettere a disposizione 50mila tamponi gratuiti al giorno per chi ha la ricetta medica (sintomatici e contatti di caso, non chi ha bisogno del green pass o di fare una verifica prima di un viaggio), mettendo in campo medici di famiglia, associazioni di volontariato e farmacie (che dovrebbero prevedere una finestra oraria dedicata ai tamponi gratis). Inoltre, la Regione ha emesso un’ordinanza per calmierare i prezzi dei tamponi nelle realtà private: chi supera le 80 euro per i molecolari e le 15 per i rapidi rischia ora di perdere l’accreditamento col sistema sanitario. Le regole a scuola Negli asili nido e nelle materne, in caso di positività si va in quarantena per 10 giorni, con tampone in uscita. Alle elementari, si resta in classe con un contagiato, ma si va in Dad per 10 giorni al secondo caso. Alle medie e alle superiori, con un caso si resta in classe, con due vanno in Dad solo i non vaccinati, con tre scatta la quarantena. I 10 giorni di didattica a distanza valgono anche per i vaccinati. Il super Green Pass Il super green pass, o green pass rafforzato, si ottiene col vaccino o con la guarigione dal Covid (non col tampone) ed è obbligatorio sui mezzi di trasporto, feste, sagre, fiere, congressi, hotel e in tutte le strutture ricettive, nei ristoranti anche all’aperto, piscine, centri benessere, sport di squadra, centri culturali, sociali e ricreativi. E anche per andare a sciare. Per chi non fosse in regola con le vaccinazioni, la Toscana applica la regola del libero accesso agli hub per gli over 12 che devono fare la prima dose. Mentre da oggi è scattato l’anticipo della terza dose da 5 a 4 mesi.

domenica 9 gennaio 2022

Superbonus, tutti i documenti necessari: dal salto di due classi energetiche al saldo lavori

di Gino Pagliuca8 gennaio 2022 1/13 Le nuove condizioni del Superbonus Il disegno di Legge di Bilancio 2022 modifica in maniera sostanziale il quadro dei bonus per la casa in termini di durata ed entità del vantaggio fiscale. L’agevolazione del 110% per i condomini resterà in vigore fino a tutto il 2023; nel 2024 l’aliquota scenderà al 70% per il 2024 e al 65% per il 2025. Stesse scadenze per gli edifici plurifamiliari aventi tutti la medesima proprietà e per gli edifici degli Iacp. Per quanto riguarda le case indipendenti, i lavori vanno terminati entro il 31 dicembre prossimo e a condizione che il 30 giugno risulti effettuato (o per essere più concreti: risulti pagato) il 30% dei lavori. Rispondiamo, intanto, alle domande più frequenti sui documenti da presentare per avere accesso all’agevolazione. 2/13 Come ottenere il miglioramento di due classi energetiche Per ottenere il super ecobonus è necessario conseguire un miglioramento di almeno due classi energetiche. Come si fa a provarlo? Con due certificazioni Ape (Attestazione di prestazione energetica), una redatta prima dell’inizio dei lavori e una alla fine. Si tratta di un attestato che può essere rilasciato da tecnici laureati in ingegneria, architettura, agraria e scienze forestali oppure con diploma di perito industriale, di geometra, o di perito agrario. I tecnici devono essere iscritti ad un ordine o collegio professionale e abilitati alla progettazione di edifici e impianti asserviti agli edifici stessi. In alternativa si può diventare certificatori dopo il superamento di appositi corsi con un esame finale. Nel caso in cui la valutazione dell’edificio richiedesse competenze multidisciplinari, è possibile che operino in collaborazione più valutatori. 3/13 Chi redige la certificazione La certificazione può essere redatta dall’impresa che effettuerà i lavori? No, al certificato Ape deve essere allegato un documento che le norme identificano con la denominazione altisonante di «Dichiarazione di indipendenza»; questa deve attestare l’assenza di conflitto di interessi, mediante la dichiarazione del certificatore che non ha nessun coinvolgimento diretto o indiretto nel processo di progettazione e realizzazione dell’edificio valutato e nemmeno con i produttori dei materiali e dei componenti, e che non vi sono rapporti di parentela fino al quarto grado con il committente. 4/13 Le «asseverazioni» La normativa prevede il rilascio anche di una o più «asseverazioni». Che cosa sono? Si tratta di documenti redatti da parte di un tecnico abilitato con cui si dimostra che l’intervento realizzato è conforme ai requisiti tecnici previsti, inoltre che le spese sostenute in relazione agli interventi agevolati sono congrue rispetto a quanto prevede la legge. 5/13 A chi vanno consegnate A chi va consegnata l’asseverazione? L’asseverazione deve essere trasmessa per via telematica all’Enea da parte del tecnico abilitato entro 90 giorni dal termine dei lavori o dal raggiungimento di un determinato stato di avanzamento dei lavori. Anche se si compiono lavori in un’abitazione indipendente il fai da te per il contribuente è quindi impossibile. Tutte le spese per certificazioni e asseverazioni sono fiscalmente detraibili. 6/13 I controlli Chi controlla la veridicità delle asseverazioni? L’Enea stessa sottoporrà a una prima verifica documentale un campione di almeno il 5% delle documentazioni presentate; di queste almeno il 10% dovranno passare a una secondo vaglio più accurato. Controlli solo a campione e grossi interessi in gioco: non c’è il rischio che possano passare asseverazioni, per così dire, compiacenti? Per un professionista serio il gioco non vale la candela. Deve obbligatoriamente avere una polizza assicurativa che lo tuteli in caso di errore e che preveda una copertura minima di 500mila euro. Nel caso di dichiarazioni infedeli è prevista una sanzione amministrativa da duemila a 15mila euro per ogni dichiarazione o attestazione contestata. Nei casi più gravi si arriva al procedimento penale. Ma c’è di più: se la dichiarazione infedele porta alla perdita del beneficio fiscale i committenti possono chiedere il risarcimento dei danni e inoltre scatta la segnalazione d’ufficio all’Ordine professionale o al collegio di appartenenza. Comunque è necessario porre molta attenzione alle spese, perché se l’Agenzia delle Entrate ne contesta l’entità chiede le somme in eccesso al contribuente e se questi ricorre, nelle more del procedimento rischia di trovarsi la casa ipotecata. 7/13 Avanzamento lavori Quando l’asseverazione va fatta anche ad avanzamento lavori? In tutti i casi in cui si chieda il beneficio fiscale o la cessione del credito nonostante i lavori non siano ancora ultimati. Operazioni possibili due volte: dopo che almeno siano state svolte (e pagate) il 30% e il 60% delle opere. 8/13 Il pagamento dei lavori Come vanno pagati i lavori? Come succede già per l’ecobonus e il bonus ristrutturazione, le persone fisiche devono saldare unicamente con il cosiddetto bonifico parlante, su modulo appositamente predisposto dalla banca o dalle Poste e che contenga il codice fiscale del beneficiario della detrazione e il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato. Questo particolare strumento consente all’intermediario di operare come sostituto di imposta e trattenere al beneficiario l’8% delle somme versate a titolo di ritenuta d’acconto. Di solito di questa incombenza per i lavori condominiali si occupa l’amministratore. 9/13 Documenti da conservare Quali documenti bisogna conservare? Le fatture e ricevute fiscali comprovanti le spese sostenute, unitamente alle ricevute dei bonifici se il contribuente è una persona fisica; la dichiarazione di consenso del proprietario all’esecuzione dei lavori, se questi sono effettuati dal detentore immobile (abitazione in affitto, in leasing, in comodato, o per cui si sia firmato il preliminare di acquisto senza che sia ancora avvenuto il rogito); una copia della delibera dell’assemblea di condominio e la tabella millesimale di ripartizione spese per interventi eseguiti su parti comuni o in alternativa la certificazione contenente queste informazioni rilasciata dall’amministratore; infine una copia dell’asseverazione trasmessa a Enea. 10/13 Regolarità urbanistica Quale documentazione sulle regolarità urbanistica dell’immobile e dell’edificio bisogna produrre all’Amministrazione prima di dare il via ai lavori per il superbonus? I documenti riguardanti la conformità urbanistica vanno presentati solo in caso di demolizione e successiva ricostruzione. Negli altri casi basta inviare un modello ad hoc di Comunicazione di inizio lavori (Cila) nel quale comunicare gli estremi dell’autorizzazione edilizia in forza del quale è avvenuta la costruzione, se questa risale a dopo il 1° settembre 1967 altrimenti basta indicare che l’edificazione è anteriore. Il modello è scaricabile sul sito del ministero funzione pubblica. 11/13 Condono edilizio e agevolazioni È possibile usufruire delle agevolazioni anche per immobili per cui è in corso una richiesta di condono edilizio non ancora conclusa? Sì, almeno così ha risposto a un quesito l’Agenzia delle Entrate delle Marche; inoltre bisogna rilevare che l’art. 34 bis del decreto semplificazione ha modificato il regime sulle difformità delle unità immobiliari, precisando che vi è un margine di tolleranza del 2% sulle difformità delle unità immobiliari rispetto alle previsioni urbanistiche, se non si violano specifici divieti. Una norma che può trovare applicazione soprattutto nel caso di ricostruzione a seguito di demolizione. Se invece vi sono violazioni urbanistiche più gravi si rischia di incorrere nella decadenza dei benefici se non si ricorre, quando possibile, alla sanatoria.

sabato 1 gennaio 2022

Brut, Prosecco e altri

https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/brut-ma-non-cattivi-spumanti-si-distinguono-metodo-294319.htm Carlo Ottaviano per “il Messaggero” Nei pochi giorni tra Natale e Capodanno stiamo dando fondo a quasi 90 milioni di bottiglie di spumanti italiani, stando ai calcoli di Ismea-Uiv. Nello stesso periodo saranno 150 milioni i vini sparkling made in Italy consumati nel mondo. L'Italia, del resto, vanta migliaia di etichette tra Metodo classico (quando la spuma si forma direttamente in bottiglia) e metodo Charmat-Martinotti (la fermentazione avviene in autoclave). SPUMANTE Altra distinzione importante è la definizione tra vini vivaci (la pressione dell'anidride carbonica è inferiore a 1 atmosfera), frizzanti e spumanti (superiore a 3 atmosfere). Gli spumanti sono anche classificati in funzione dei residui di zucchero che restano nel vino dopo l'aggiunta del liqueur d'expédition, la miscela segreta dell'enologo che dà stile diverso a ogni vino. Brut nature o anche dosaggio zero oppure pas dosé son definiti i vini con meno zucchero. LA GRADAZIONE PROSECCO Salendo in dolcezza, ecco extra brut, brut, extra dry, dry (oppure secco), demi-sec (anche abboccato), dolce. Infine dovendoci qui limitare millesimato vuol dire che lo spumante è stato prodotto con vini di una sola annata; cuvée è l'assemblaggio di vini di vigneti diversi vinificati separatamente; cru è fatto solo con vini di una determinata zona. Le bollicine italiane più note, addirittura sinonimo nel mondo di spumante italiano, arrivano da Veneto e Friuli. PROSECCO Il Prosecco (due docg e una doc) in bocca ha una forte fragranza con sensazioni di mela e pera, molto minerale. Il perlage le bollicine che salgono dal fondo del bicchiere è persistente. Per il Prosecco, la novità dell'ultimo anno è la versione rosé, di gran moda come tutti i rosati. Il primato storico al netto delle polemiche è invece dell'Alta Langa (Alessandria, Asti, Cuneo) che contende perfino alla Francia la primogenitura del metodo classico. Qui il colore è più giallo paglierino, tendente all'oro. Stessa antica storia per i vini del vicino Oltrepò Pavese dove da metà 800 si coltiva il pinot nero. A proposito: gli spumanti derivano quasi sempre da vini a bacca scura. Solo i blanc de blancs nascono da uve bianche (principalmente chardonnay). In Lombardia e Trentino si trovano le altre due aree spumantistiche, quelle che da alcuni anni qualitativamente stanno riuscendo a competere a livello altissimo con lo Champagne. IL PIONIERE Il successo del Franciacorta si deve al pioniere Franco Ziliani, scomparso a 90 anni proprio il giorno di Natale. Nel 1961 riuscì a spumantizzare un pinot difficile da lavorare dando vita a un vino eccellente che richiama agrumi, frutta secca e un piacevole sentore di crosta di pane. Il Trento Doc, le bollicine di montagna, conquistano particolarmente per il sottile e prolungato perlage e il forte ricordo di frutta secca e frutti esotici. Scelto il territorio (ma in tutta Italia sono moltissime le cantine che producono spumanti), per la degustazione ottimale si consiglia una temperatura di servizio intorno agli 8 gradi per i vini più freschi, poco sopra i 10 per i Metodo classico. Il vino va versato nel bicchiere leggermente inclinato per non provocare troppa schiuma. È indicato il bicchiere flùte (alto e sottile) perché aiuta la concentrazione dei profumi oltre a far sprigionare meglio il perlage. Non resta che dire cin cin evitando però quest' anno causa Covid il tintinnio dei bicchieri che si toccano.