Pagine

giovedì 30 aprile 2020

Quando serve (davvero) la protesi al ginocchio

In Italia se ne impiantano circa 80 mila l’anno, soprattutto negli anziani. L’artrosi è la causa principale. I risultati sono duraturi ma bisogna valutare bene tutte le variabili prima di procedere. L’operazione è indicata quando la qualità della vita è compromessa

Quando serve (davvero) la protesi al ginocchio
shadow
La protesi del ginocchio, nell’80 per cento degli interventi, può durare più di 25 anni. A ribadire l’efficacia di questo impianto è uno studio pubblicato dall’Università di Southampton (Regno Unito) che ha preso in considerazione i registri medici relativi a questo tipo di chirurgia di tre Paesi: Inghilterra, Australia e Finlandia. Secondo i dati emersi questo tipo di impianto non solo funziona, ma dura più di quanto si creda: la protesi totale, nell’82,3 per cento dei casi analizzati, era ancora intatta dopo un quarto di secolo. In Italia, in media, ogni anno si impiantano 80 mila protesi al ginocchio. L’artrosi è la causa principale che porta a questo genere di chirurgia. Gli anziani sono la categoria più interessata, ma la necessità di ricorrere agli impianti è aumentati anche tra le persone più giovani.
Grazie al costante miglioramento dei materiali impiegati e alle tecniche chirurgiche sempre meno invasive, la maggior parte delle persone operate si dichiara soddisfatta dei risultati, ma rimane una quota di insoddisfazione per varie ragioni, dalle aspettative legate all’impianto ai dolori o alle limitazioni funzionali. «L’artrosi è la causa principale di intervento di protesi al ginocchio» spiega Roberto D’Anchise, primario di chirurgia del ginocchio dell’ IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. «Insorge in seguito alla perdita graduale della cartilagine articolare (il tessuto connettivo che ricopre le articolazioni, ndr), causando dolore e difficoltà di movimento. Si manifesta con l’avanzare dell’età, ma può insorgere anche in soggetti più giovani, e interessa, in modo lieve, oltre il 90 per cento della popolazione ultrasettantenne. Nelle persone più giovani può essere dovuta a traumi e a lesioni meniscali o legamentose (artrosi post-traumatica) oppure ad artrite reumatoide, solo per citare alcune cause. Indipendentemente dall’età del soggetto quando l’artrosi inficia significativamente la qualità della vita, con dolori notturni, difficoltà di movimento, limitazioni del cammino e non esistono alternative mediche efficaci (come terapie farmacologiche, trattamenti fisioterapici o interventi chirurgici per correggere deformità congenite, come il ginocchio varo o valgo) l’intervento protesico rimane l’unica opzione ma è giusto indicarlo solo quando altre soluzioni si sono rivelate inefficaci».
Nella maggior parte dei casi l’impianto della protesi è un intervento d’elezione vale a dire non obbligatorio (come può esserlo invece, ad esempio, uno in seguito alla frattura del femore), ma che aiuta a migliorare la qualità della vita quotidiana. «Perché ci sia indicazione ad andare in sala operatoria è necessario capire che tipo di vita conduce il candidato: se è anziano, ha difficoltà a camminare, ma per la maggior parte del tempo rimane a casa e non fa grandi attività, forse la protesi si può evitare. Al contrario, se una persona ha un’artrosi debilitante, l’impianto può essere la soluzione. E se, come citato dallo studio inglese, le protesi durano oltre 20 anni, ha poco senso aspettare» precisa lo specialista. Per questo tipo di intervento si richiede una preparazione muscolare, con attività specifiche per rinforzare i muscoli dell’arto interessato dall’operazione. Per impiantare la protesi si utilizza per lo più l’anestesia spinale, non quella generale: il paziente, quindi, rimane cosciente durante l’intervento. Il ricovero può durare dai 4 ai 7 giorni, mentre il percorso riabilitativo richiede alcuni mesi: per i primi 30 giorni è necessario usare le stampelle, in seguito devono essere praticati esercizi di fisioterapia. Nei casi di insuccesso (perché c’è dolore o usura della protesi) si può procedere alla revisione, che consiste nel reimpianto della protesi. Dev’essere chiaro che l’intervento di protesi non si fa perché si vuole giocare più comodamente a tennis o a golf.
Si tratta comunque di un intervento chirurgico che deve essere indicato se strettamente necessario. Il rischio, infatti, è quello di generare nei pazienti aspettative superiori a quelle che è realistico attendersi: «Stiamo parlando di qualcosa che ricopre un’articolazione molto complessa — sottolinea D’Anchise — e che, per quanto all’avanguardia, non può riprodurre fedelmente la perfezione della natura. Bisogna quindi ricordare al paziente tutte le caratteristiche di questo intervento, spiegando bene il decorso post-operatorio». Spesso, con la protesi, si possono svolgere attività fisiche a basso impatto come la camminata, il nuoto o lo sci di fondo ed è dimostrato che, per chi svolgeva questi sport prima dell’intervento protesico, è più facile riprenderli dopo l’impianto. Altre attività ad alto impatto, come la corsa e le arti marziali, sono sconsigliate. «È bene quindi che non sia trascurato nessun aspetto e che siano illustrate, attraverso il consenso informato, tutte le caratteristiche dell’intervento — ribadisce lo specialista — se il rapporto medico paziente è già di per sé essenziale in qualsiasi tipo di prestazione, lo è ancora di più per situazioni come queste».

mercoledì 29 aprile 2020

Ufficio di Presidenza di Forza Italia: Il documento ufficiale

Testo integrale approvato all'unanimità


Il Comitato di Presidenza,
al termine di una discussione ampia e positiva, che conferma la capacità di Forza Italia di discutere e confrontarsi salvaguardando la coerenza degli obiettivi e l’ unità del movimento:

1. ribadisce grande preoccupazione per la situazione economica del Paese, e per le prospettive di recessione che sembrano purtroppo confermate. La politica economica del Governo, inclusa la legge di stabilità, è stata finora priva della capacità di determinare una frustata positiva all’economia italiana. Constatiamo anzi il permanere di una tassazione ingiusta e pesantissima sulla casa e sull’edilizia, a cui si aggiunge l’inadeguatezza delle misure a favore delle imprese e dei lavoratori autonomi, la mancanza di coraggio nei tagli alle tasse e alla spesa pubblica, più la vera e propria mina rappresentata dalle clausole di salvaguardia, cioè altre tasse pronte a deflagrare, senza che con ciò sia nemmeno scongiurato un ulteriore aggravamento della manovra a causa delle richieste dell’Unione europea. In sostanza la manovra economica del governo colpisce l’Italia che produce, il ceto medio, gli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, gli agricoltori, i liberi professionisti ed i pensionati;

2. in questo senso, Forza Italia ritiene una ottima base di lavoro il pacchetto emendativo alla legge di stabilità predisposto dai nostri Gruppi parlamentari, a partire dal nucleo di emendamenti promossi nei giorni scorsi, in conferenza stampa, da nostri parlamentari.  Quelle proposte, tutte centrate su una drastica riduzione delle tasse e della spesa pubblica, hanno il valore di una controproposta liberale, rispetto a una legge di stabilità altrimenti deludente e inadeguata. Quegli emendamenti rappresentano il punto di partenza del confronto alla luce del sole che intendiamo condurre sia con le altre forze di opposizione sia con il Governo;

3. quanto alla questione della legge elettorale, le nostre posizioni a favore di un chiaro bipolarismo sono note, così come sono note le nostre proposte su ognuno dei punti tuttora aperti. Se alcune modifiche prospettate nelle ultime ore dalla maggioranza dovessero effettivamente concretizzarsi si porrebbe a rischio la semplificazione del sistema politico e la effettiva governabilità del Paese, modificando unilateralmente lo spirito e l’essenza degli accordi intercorsi. Alla luce di ciò, confermiamo la nostra volontà di collaborare alla scrittura della legge elettorale e delle riforme istituzionali, ma ovviamente senza subire diktat o imposizioni di alcun tipo.

Lettera aperta di 30 giuristi torinesi al Presidente del Consiglio Conte.

Caro Presidente, Collega,
siamo un gruppo di professionisti del diritto, cioè di “quelle sagge restrizioni che rendono liberi”. Non può sfuggirci che le restrizioni delle libertà fondamentali messe in campo dal Governo centrale e da enti locali per fronteggiare l’emergenza Covid-19 generano gravi dubbi di costituzionalità e rappresentano un pericoloso precedente per lo Stato di diritto. Non è qui in discussione se tali provvedimenti fossero materialmente giustificati – e siano stati sopportati – dalla necessità di ridurre la curva dei contagi. Ciò che qui preme rilevare, come sarà illustrato in questa lettera, è che:
-primo, se non sappiamo quando si potrà tornare alla “normalità” delle nostre vite (ammesso che ne esista una), è fondamentale -ed è possibile- ritornare al più presto a una normalità costituzionale;
-secondo, se i provvedimenti gravemente restrittivi della libertà personale (e altri diritti costituzionali) sono stati accettati di buon grado – insieme con la compressione delle attività economiche e del reddito – essenzialmente dalla totalità della popolazione italiana, lo è stato in virtù di un ‘patto sociale’, che a fronte del vincolo di solidarietà e della sostanziale delega ai cittadini di buona parte della tutela della salute pubblica comportava che lo Stato “facesse in pieno la sua parte” nell’organizzare, allocare e dispiegare efficacemente le risorse necessarie (test, dispositivi di protezione, accesso alle terapie, attrezzature mediche, etc.). È evidente che questo non è pienamente avvenuto né prima né durante la Fase 1, ed è dunque fondamentale che avvenga in pieno nella Fase 2 e in quelle che seguiranno;
-terzo, vista l’attuazione spesso aggressiva dei provvedimenti restrittivi delle libertà costituzionali e l’uso in corso e prospettico di meccanismi di sorveglianza, è altrettanto fondamentale che questi siano attuati nel fermo rispetto dei diritti della persona e del principio di proporzionalità;
-quarto, è inaccettabile che la giurisdizione sia stata di fatto sospesa nella Fase 1, come se non fosse un’attività essenziale al pari almeno delle tabaccherie. Questo non dovrà più avvenire. In questo, come in altri ambiti, si può prendere esempio da altri Paesi di risalente tradizione giuridica; e
-quinto, data l’importanza che in una democrazia liberale rivestono gli organi di informazione e la pubblica opinione, non è tollerabile che la comunicazione di piani, studi e misure di siffatta rilevanza sia rimessa a indiscrezioni o dirette Facebook senza contraddittorio, il dibattito sia riservato a esperti o si svolga al riparo dallo scrutinio pubblico e non sia possibile porre domande pubbliche ai decisori. Lo Stato deve rendere conto (the State must be held accountable) e, soprattutto in questa emergenza, garantire piena trasparenza, anche per costruire o mantenere quella fiducia nello Stato e nel Governo che è presupposto essenziale per l’efficace funzionamento di qualsivoglia misura.
1. Ripristinare le guarentigie costituzionali
È un fatto che le misure (centrali e locali) introdotte per fare fronte all’emergenza Covid-19 ledono fino quasi ad annullare le libertà e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, incluse la libertà di circolazione (Art. 16), la libertà di riunione (Art. 17), il diritto di professare la propria fede religiosa nei luoghi di culto (Art. 19), il diritto allo studio (Artt. 33-34), la libertà di iniziativa economica (Art. 41), financo la libertà di espressione del pensiero (Art.21) e soprattutto la libertà personale (Art. 13) e i diritti inalienabili della persona di cui all’Art. 2 e alla CEDU.
Non si intende qui sottovalutare la gravità della pandemia e l’esigenza di agire con rapidità ed efficacia per contrastarla, e del resto misure di c.d. lockdown sono state introdotte in una pluralità di Paesi. Né tanto meno si ignora che alcune di queste libertà (come quella di circolazione e soggiorno) possono essere limitate (ancorché dalla legge in via generale) “per motivi di sanità o di sicurezza”.
Ma non è vezzo formalista ricordare che non si possono trattare le guarentigie costituzionali come un inutile orpello -anche perché la crisi del coronavirus sarà lunga, a questa potranno seguirne altre, e una volta creato un precedente può nascere la tentazione di non tornare indietro (come già osservava l’Economist qualche settimana fa). È proprio in crisi come questa che vanno salvaguardati i nostri valori fondamentali (come ricordava la Presidente della Commissione Europea il 31 marzo scorso) e le limitazioni che si rendono necessarie devono rispettare i principi di adeguatezza e proporzionalità (come ricordava l’Office of the Commissioner for Human Rights dell’ONU il 6 marzo scorso).
Viene in rilievo, per un verso, la riserva di legge prevista dalla Costituzione per introdurre limitazioni (anzi, per la libertà personale la doppia riserva, di legge e giurisdizione), per altro verso l’assenza di una previsione costituzionale che consenta di limitare il diritto di riunirsi in privato o di impedire l’uscita dal proprio domicilio per ragioni sanitarie, e per altro verso ancora l’effetto combinato di tutte le limitazioni introdotte contestualmente. E viene in rilievo la gerarchia delle fonti del diritto, che non può sovvertirsi nel nostro ordinamento. E invece è stata sovvertita, come si dirà ora.
Il Governo ha dichiarato lo “stato di emergenza”, “in conseguenza del rischio sanitario” connesso con l’insorgenza del coronavirus, con una delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020. La nostra Costituzione non conosce alcuno “stato di emergenza”, prevedendo solo lo “stato di guerra” (che ex Art. 78 Cost. va deliberato dal Parlamento e dichiarato dal Presidente della Repubblica). Infatti la delibera del Consiglio dei Ministri invoca una legge ordinaria, segnatamente gli artt. 7 e 24 del D. Lgs. 2/1/2018 n. 1 (codice della protezione civile). Ma questa legge, per un verso, non contempla il caso di pandemie e, per altro verso, consente di emanare ordinanze di protezione civile in ambiti del tutto diversi da quelli oggetto delle misure qui in discussione (e comunque “nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione Europea”) -dunque senza autorizzare chicchessia a comprimere libertà costituzionali che solo la legge (e in casi limitati) può comprimere. Il Governo si è anche appoggiato alla pronuncia dell’OMS per giustificare lo “stato di emergenza”. Sta di fatto che lo stato di emergenza è stato dichiarato unicamente dall’organo esecutivo, senza alcun vaglio parlamentare e in un vuoto costituzionale. Per fare un esempio, la Francia ha dichiarato lo stato di emergenza il 20 marzo scorso con una legge approvata da entrambi i rami del Parlamento. E del resto il 31 gennaio c’era tutto il tempo, prima che si manifestassero tre settimane dopo i primi casi di trasmissione del virus, per fare un passaggio parlamentare anche in Italia. Il Governo si è invece limitato a emanare un comunicato stampa con cui informava di avere deliberato lo stato di emergenza per sei mesi, “come previsto dalla normativa vigente” (quale?), “al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione Civile” (cui certamente non è consentito di incidere sulle libertà costituzionali).
Sarebbe dunque bene, in primo luogo, intervenire eventualmente con norme di rango costituzionale per disciplinare situazioni analoghe a quella in corso, soprattutto al fine di fissare i limiti, anche rispetto ai diritti della persona, che l’azione di governo dovrà rispettare con percorsi parlamentari obbligati-salvi i poteri della Protezione Civile. Tale riforma costituzionale, come ben noto, sarebbe necessaria pure per l’utilizzo massiccio del DPCM, giacché non è previsto in Costituzione che i poteri di cui all’Art.77 siano delegabili al Presidente del Consiglio che resta un primus inter pares.
Dopo le prime ordinanze di protezione civile ai primi di febbraio sul coordinamento degli interventi necessari a fronteggiare l’emergenza, quali il controllo negli aeroporti e il rientro di italiani all’estero, a seguito della scoperta di contagi a Codogno il 23 febbraio il Consiglio dei Ministri approvava un decreto-legge con cui si autorizzavano le “autorità competenti” (quali?) ad adottare “ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”, tra cui il divieto di allontanamento o accesso alle aree interessate (c.d. “zone rosse”), la chiusura di scuole e attività commerciali in dette zone, e così via (come è ampiamente noto).
Si noti che il decreto-legge, per un verso, introduceva un divieto di “ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato” (di dubbia costituzionalità) e, per altro verso, non conteneva misure restrittive della libertà personale salvo la quarantena obbligatoria o fiduciaria per chi aveva avuto contatti con contagiati o proveniva da zone a rischio (identico contenuto aveva il DPCM in pari data). Tuttavia il decreto-legge autorizzava le “autorità competenti” ad adottare “ulteriori” (imprecisate) “misure di contenimento e gestione dell’emergenza” -e demandava ad altri soggetti, tra cui i Presidenti delle Regioni, l’adozione delle misure (così tra l’altro, complicando la catena di comando e aprendo la via a una proliferazione di atti privi di forza di legge, talora in contrasto tra loro, limitativi dei diritti costituzionalmente garantiti).
Non a caso prendeva vita una serie di provvedimenti di rango amministrativo che, anche eccedendo l’ambito del decreto-legge, restringevano sempre più la libertà personale (ad esempio, l’ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo che vietava l’accesso alle aree gioco e alle zone verdi e vietava attività all’aperto, l’ordinanza dei Ministri della Salute e dell’Interno del 22 marzo che “bloccava” le persone nella dimora anche temporanea in cui si trovavano) senza alcuna copertura legislativa fino al nuovo decreto-legge del 25 marzo. Quest’ultimo si faceva scudo dell’Articolo 16 della Costituzione (“che consente limitazioni della libertà di circolazione per ragioni sanitarie”) per contemplare anche “limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora”, ovvero limitazioni alla libertà personale, che è ben diversa dalla libertà di circolazione, come già insegnavano i grandi costituzionalisti, da Mortati a Vassalli, sulla scorta del dibattito in Assemblea Costituente. Limitazioni della libertà peraltro eseguite con dispiego di mezzi e risorse -di cui diremo oltre- vistosamente sproporzionate rispetto all’obiettivo (si pensi, tra i tanti, all’inseguimento di un runner con drone e poliziotti o alla signora multata perché sedeva -da sola- su panchina a 200 metri da casa). Eppure l’Articolo 13 Cost. non ammette “forma alcuna di detenzione” né “qualsiasi altra restrizione” della (“inviolabile”) libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Il Governo ha più volte giustificato le restrizioni alle libertà personali con la necessità di reprimere i comportamenti quali quelli del “weekend del 7 marzo” che vide i Navigli o le piste di sci affollate. Ora, a parte che non è mai stato dimostrato un link epidemiologico tra quei comportamenti e i contagi riscontrati nelle settimane successive (link sempre più tenue, a due mesi di distanza), vi è da chiedersi se non si poteva conseguire un risultato analogo o migliore di quello raggiunto nella curva dei contagi senza ricorrere a un sostanziale annullamento della libertà personale, come è stato fatto in altri Paesi -in primis, la Germania- e di questo diremo oltre.
Ciò che si intende evidenziare non è solo il fastidioso atteggiamento paternalistico e colpevolizzante rispetto a una popolazione che ha mostrato un sostanziale senso di responsabilità ma è il rischio che la restrizione dei diritti della persona possa creare un pericoloso precedente, che un futuro governo -magari di orientamento politico diverso- potrebbe sfruttare, magari in una crisi legata alla sicurezza (si pensi al cyberwarfare o al terrorismo), per incidere pesantemente sulle libertà costituzionali (si pensi alla manifestazione del pensiero, alla libertà di riunione o alla libertà religiosa) senza vaglio parlamentare e senza copertura costituzionale. Si rende dunque necessario tornare alla normalità costituzionale, sin dalla Fase 2 (anche in vista di possibili, future “emergenze”).
2. Lo Stato faccia in pieno la sua parte
Il lockdown -con le correlate restrizioni delle libertà costituzionali- non sopprime di per sé il virus. Il confinamento in casa:
serve a “guadagnare tempo”: se grazie ad esso la curva dei contagi tende verso lo zero, si allevia la pressione sulle strutture sanitarie e si possono apprestare misure mirate ai nuovi casi (test, terapie sui positivi, tracciamento dei contatti, isolamento) tese a evitare altri lockdown;
e, a ben vedere, rappresenta (di fatto) una colossale delega alla popolazione (di buona parte) della tutela della salute pubblica.
In buona sostanza, le restrizioni alle libertà e ai diritti costituzionali sono complementari all’opera sanitaria delle autorità nella fase acuta della crisi. Si può dire che sono state accettate dai cittadini (e da chi cittadino non è), che hanno di buon grado effettivamente rinunciato alla libertà personale, in virtù di una sorta di ‘patto sociale’ che comportava, a fronte di tale sacrificio e rinunzia, che le autorità facessero in pieno la loro parte nell’organizzazione, allocazione ed efficace utilizzo delle risorse necessarie a individuare, isolare e curare subito (per quanto possibile) i contagiati, limitare i nuovi contagi e i decessi, proteggere il personale sanitario e il resto della popolazione, rafforzare i presidi territoriali e le strutture ospedaliere.
È evidente che questo non è avvenuto (quanto meno non in maniera soddisfacente) nella Fase 1. I dispositivi di protezione individuale (a partire dalle ‘mascherine’) non sono stati prodotti e distribuiti in quantità sufficiente, si sono presto resi introvabili e non sono stati assicurati neanche al personale sanitario. I c.d. tamponi sono stati effettuati in maniera eccessivamente selettiva e tardivamente: abbondano i casi in cui il tampone è stato negato in presenza di sintomi conclamati a persone che venivano prese in carico dalla sanità pubblica solo in caso di crisi respiratoria (perciò tardi). La gestione delle RSA, ovvero delle persone più vulnerabili, è stata catastrofica. La necessaria separazione delle strutture di soccorso e ricovero dedicate ai pazienti Covid-19 (o sospetti tali) e quelle riservate agli altri non è stata realizzata ovunque. Ci si è concentrati sull’aumento dei posti di terapia intensiva, rispetto a cui si è conseguito un risultato importante, ma a scapito degli altri. Il numero dei decessi è cinque volte superiore a quello della Germania (che ha una popolazione ben maggiore).
Non si vuole qui sminuire la complessità della crisi pandemica e ignorare le difficoltà di gestire una fase convulsa. Possono avere concorso altri fattori, vi sono altri Paesi (come la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti) che hanno reagito altrettanto o più tardivamente, ma resta il fatto che, nelle sei settimane trascorse dalle notizie certe sul nuovo coronavirus in Asia e i primi casi di community transmission in Italia, non ci si è preparati a sufficienza, né sono state poste in essere tutte le azioni necessarie nei due mesi di diffusione del virus in Italia.
Il punto fondamentale, in un’ottica costruttiva, è che quanto non è stato fatto sinora si faccia nelle prossime fasi. La questione centrale è quella dei ‘tamponi’, come raccomandato dall’OMS, suggerito dai migliori esempi nazionali e da ultimo evidenziato da Angela Merkel: “testing, testing, testing is the way forward”. Nella c.d. Fase 2 è necessario assicurare che i ‘tamponi’ siano effettuati su larga scala, al primo sintomo e a tutti i contatti dei sintomatici -e che sia esteso il numero dei laboratori che possano ‘processarli’. Così come va assicurato che i dispositivi di protezione individuale siano disponibili a tutto il personale sanitario (compresi i medici di base) e al resto della popolazione. Non risulta che la questione sia centrale nel discorso pubblico e nelle comunicazioni governative. Non è dato -ad oggi- sapere quali siano i piani ‘granulari’ del Governo, per intenderci, su tamponi (qual è la capacità?), laboratori, test sierologici e mascherine.
I piani sembrano invece concentrati ancora una volta sulle misure di distanziamento sociale, affidate essenzialmente a cittadini e imprese. Ma il distanziamento sociale, da solo, non basta a scongiurare un’altra impennata dei contagi né, di conseguenza, un altro confinamento con le correlate compressioni di diritti costituzionali, attività economiche e culturali, crescita educativa, salute fisica e mentale. È necessario che lo Stato faccia in pieno la sua parte.
3. Sorvegliare la sorveglianza
L’esecuzione (e di fatto l’interpretazione) delle misure restrittive è stata affidata, in sostanza, alle forze dell’ordine, che hanno svolto il compito con modalità particolarmente aggressive (anche quando non si ravvisava alcuna offesa al bene giuridico tutelato), in un vuoto giurisdizionale.
Non sono stati rari i fermi di cittadini che si recavano all’edicola (attività pur dichiarata essenziale dalle norme restrittive), le multe a chi si recava in ospedale a riprendere la moglie infermiera o passeggiava non distante dal proprio domicilio, e generalmente i casi di ‘interpretazione estensiva’ delle restrizioni della (inalienabile!) libertà personale da parte di coloro cui è stata deputata la ‘sorveglianza’ (anche nei confronti dei sani e di attività che non presentavano alcun rischio di contagio di terzi). Il tutto condito con stigma sociale e con un linguaggio che capovolge l’ordine normativo: si parla di “consentire” libertà che sono costituzionalmente garantite. Non solo: sanzioni per centinaia di Euro, palesemente irrituali, sproporzionate e punitive, vanno a colpire una popolazione già pesantemente afflitta da una perdita di reddito senza precedenti, e che dovrebbe spenderne altre per impugnarle con uno spazio di difesa ridotto.
Come si è già autorevolmente osservato, con il sistema della c.d. autocertificazione si è di fatto richiesto al cittadino di esercitare il proprio diritto di difesa al momento della contestazione, in sostanziale violazione dell’Art. 24 Cost. e delle garanzie procedimentali di legge.
E si è assistito a scene, come la multa di 533 Euro a un rider in bicicletta che lavorava o all’interruzione di una Messa da parte di un poliziotto, francamente intollerabili ma prevedibili quando si affida a forze dell’ordine l’interpretazione e l’esecuzione di norme vaghe e mal redatte.
Da ultimo si vedono elicotteri e droni sorvolare e soffermarsi su giardini privati e cortili condominiali, senza che ne sia chiara la ragione né l’utilizzazione dei dati così conseguiti. Non solo: è allo studio l’utilizzo su larga scala di una app che, ai fini di tracciamento dei contatti e contenimento della diffusione del virus, potrebbe avere accesso a dati personali e/o sensibili, per quanto si sostenga che dovrebbero essere raccolti in forma anonima.
È di fondamentale importanza che, nella Fase 2 e in quelle successive, nella misura in cui sia strettamente necessario limitare i diritti costituzionali, si garantisca la certezza del diritto senza affidarne l’interpretazione, in modo peraltro frammentato, a soggetti attuatori o deputati alla sorveglianza, apprestando strumenti di controllo anche giurisdizionale delle loro attività. E che, tanto queste limitazioni quanto i nuovi meccanismi (anche tecnologici) di sorveglianza, siano attuati nel fermo rispetto dei diritti della persona e del principio di proporzionalità.
4. La Giustizia è un’attività essenziale
Non è dato comprendere perché sia stata “consentita” l’attività di esercizi commerciali con misure di distanziamento tra le persone, e non sia stato fatto altrettanto per le aule di giustizia, oppure perché si sia organizzata la didattica a distanza e non lo si sia fatto -a parte alcune eccezioni legate all’indifferibilità- per le udienze civili (come in Inghilterra). In Germania e in Olanda, ad esempio, non vi è stata una sospensione generalizzata di tutte le udienze e dei termini processuali. Allo stato, in Italia, le udienze e i termini processuali sono generalmente rinviati all’11 maggio 2020.
In altre parole, la Giustizia non è stata considerata un’attività essenziale. Ci auspichiamo che questo non avvenga più nelle prossime fasi, anche ove dovesse ritenersi necessario disporre un nuovo lockdown. Non si tratta soltanto di una questione simbolica o di principio. Non c’è Stato senza giurisdizione.
Di contro, sarebbe ancor più grave che le restrizioni adottate per l’emergenza sanitaria avessero un effetto nefasto sullo svolgimento delle attività processuali con inescusabile compressione del contraddittorio e del diritto alla difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione.
Lo svolgimento improvvisato e disorganizzato di udienze, specie in materia penale, che si è avuto in queste settimane, con mezzi telematici di fortuna, contribuisce infatti a dimidiare l’attività giurisdizionale, privandola dei suoi contenuti minimi, e ad affossare il valore costituzionale del giusto processo (art.111) già messo a dura prova da altri provvedimenti di questo Governo.
Ciò senza dimenticare che la vicenda della introduzione del c.d. “processo da remoto” in sede penale (convertita in legge con il DL n°18/20 contestualmente alla approvazione di un Odg della Camera dei Deputati che sostanzialmente ne ha preannunciato la successiva, parziale, abrogazione) -più che la tardiva presa d’atto della ovvia incompatibilità di tale modalità con gli strumenti cognitivi propri del giudice penale, oltre che con i principi di immediatezza e oralità del rito- rappresenta un esempio di schizofrenia legislativa che appare un unicumpersino per la reattiva e ondivaga produzione legislativa italiana.
Tradizione che, da quanto si apprende, sarebbe destinata ad arricchirsi di un nuovo capitolo nei prossimi giorni, attraverso l’emanazione, anche qui di dubbia costituzionalità ratione materiae, di un DL ad hoc riguardante le decisioni della Magistratura di sorveglianza con ciò smentendo, nei fatti, la proclamata intenzione di difendere la libertà e la autonomia della giurisdizione.
Dubbi di costituzionalità che, peraltro, sono già stati autorevolmente espressi anche sulle norme che hanno disposto la generalizzata sospensione dei termini di prescrizione e di custodia cautelare, in taluni casi, come in Cassazione, persino di fronte alla richiesta di procedere da parte dell’imputato detenuto.
5. Trasparenza e contradditorio vanno garantiti
Anche sul piano comunicativo l’azione di governo lascia ampi margini di miglioramento. Si è autorevolmente detto che, nella gestione delle pandemie, è cruciale che il governo stabilisca e mantenga la fiducia dei propri cittadini, anche attraverso la piena trasparenza delle proprie azioni.
Questa deve declinarsi in una comunicazione assidua e completa dell’andamento epidemiologico, delle proiezioni e degli studi utilizzati, della metodologia dei test (tamponi) effettuati, delle ragioni e dell’eziologia dei decessi, dei piani anche in via di formazione relativi ai test, alle altre misure di diagnosi, protezione e contenimento, delle previsioni e così via. Soprattutto, la comunicazione deve provenire direttamente dal governo, e consentire un’interlocuzione che si presti a soddisfare ogni pertinente domanda di informazione.
E invece la comunicazione in Italia è stata essenzialmente affidata a una conferenza stampa della Protezione Civile e dell’Istituto Superiore di Sanità, in cui alcuni dati sono stati costantemente forniti senza ulteriori spiegazioni (si pensi ad esempio al numero dei decessi o quello dei tamponi) e le risposte alle domande dei giornalisti sono spesso state evasive o ripetitive. Non vi è stata una regolare conferenza stampa del Presidente del Consiglio e del Ministro della Sanità, al contrario di altri Paesi. La comunicazione (peraltro, essenzialmente delle misure restrittive) è stata affidata a dirette televisive o via Facebook, spesso a tarda notte, senza contraddittorio e senza alcuna possibilità di approfondire le questioni trattate o affrontare le questioni omesse. Su questo sfondo sono proliferate le esternazioni di vari esperti, spesso in disaccordo tra loro (peraltro in relazione a un virus di cui si sa ben poco), e le indiscrezioni sul lavoro di varie commissioni e task force esonerate dallo scrutinio pubblico. Paradossalmente, è lo stesso diritto costituzionale alla salute a essere messo a repentaglio se si abdica alla delicata opera di bilanciamento politico e si delegano le scelte a tecnocrati non politicamente responsabili e sempre a rischio di conflitto di interesse.
In una democrazia liberale gli organi di informazione e la pubblica opinione rivestono un ruolo primario. Non è tollerabile che la comunicazione di piani, studi e misure che rivestono la rilevanza qui discussa sia rimessa a indiscrezioni o dirette Facebook senza contraddittorio, il dibattito si svolga in circoli riservati, assai poco aperti a opinioni critiche, e non sia possibile porre domande pubbliche ai decisori. Lo Stato deve rendere conto (the State must be held accountable). É auspicabile che nelle prossime fasi muti la linea comunicativa sin qui adottata.
Caro Presidente, nulla di quanto detto fin qui va letto come mancanza di rispetto. Abbiamo tuttavia voluto aggiungere la nostra voce a quella di molti altri, dai genitori preoccupati per la chiusura ad libitumdelle scuole, agli operatori che si occupano di disabili, ai numerosi gruppi anche organizzati di cittadini preoccupati per la sospensione del Referendum Costituzionale e per la compressione degli spazi costituzionali di partecipazione politica, che non hanno trovato finora alcun ascolto. Sappiamo che Lei, da fine giurista, è attento al delicato bilanciamento degli interessi in gioco, compresi i valori costituzionali conquistati a caro prezzo. Nell’ora più buia, ci paiono necessari dialogo e umiltà.
Avv. Fabrizio Arossa
Avv. Bruno Arrigoni
Dr.ssa Claudia Benanti
Avv. Maurizio Bonatesta
Avv. Antonella Borgna
Prof. Avv. Aldo Berlinguer
Prof. Avv. Ilaria Caggiano
Avv. Andrea Comisso
Avv. Alessandra Devetag
Prof. Avv. Lucilla Gatt
Avv. Stefano Giordano
Avv. Dario Gramaglia
Prof. Elisabetta Grande
Avv. Franzo Grande Stevens
Avv. Cristina Grande Stevens
Avv. Giulia Facchini
Avv. Vincenzo Lapiccirella
Prof. Avv. Alberto Lucarelli
Prof. Costanza Margiotta
Prof. Avv. Ugo Mattei
Prof. Avv. Pier Giuseppe Monateri
Avv. Lorenza Morello
Prof. Avv. Luca Nivarra
Dr. Walter Nocito
Prof. Avv. Massimo Paradiso
Prof. Avv. Salvatore Patti
Dr. Daniele Ruggiu
Avv. Giacomo Satta
Dr. Stefano Scovazzo (Pres. Trib. Minorenni, Torino)
Avv. Pierumberto Starace
Avv. Gianluca Tognozzi
Prof. Avv. Daniele Trabucco
Prof. Avv. Giovanni Maria Uda
Avv. Carlo Zaccagnini

lunedì 27 aprile 2020

Assemblea di condominio, nel verbale vietato divagare

Il documento non è un contenitore nel quale inserire qualsiasi dichiarazione, soprattutto se non pertinente all’oggetto della discussione. A maggior ragione i condomini non possono quindi avere la pretesa di allegare un proprio documento con osservazioni e personali prese di posizione. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma
Pagine a cura di Gianfranco Di Rago

Il verbale assembleare non è un contenitore nel quale i condomini possono pretendere di inserire qualsivoglia dichiarazione, soprattutto se non pertinente all'oggetto della discussione. Fermo restando il loro diritto di intervenire alla discussione ed esprimere il proprio pensiero, occorre, infatti, richiamarsi a quella che è la funzione principale di tale documento, ovvero il tenere traccia delle varie fasi che hanno caratterizzato il procedimento di formazione della volontà condominiale. A maggior ragione i condomini non possono quindi avere la pretesa di allegare al verbale assembleare un proprio documento scritto contenente osservazioni e personali prese di posizione. Il rifiuto opposto dall'assemblea a tale allegazione è perfettamente legittimo e non vizia in alcun modo la validità delle deliberazioni assunte nel corso della riunione. Lo ha evidenziato il Tribunale di Roma nella recente sentenza n. 2281 dello scorso 3 febbraio 2020.

Il caso concreto. Nella specie una condomina, proprietaria di una unità immobiliare facente parte dell'edificio condominiale, aveva impugnato le deliberazioni risultanti dal verbale assembleare sulla nomina dei consiglieri e dell'amministratore, sul bilancio preventivo e relativa ripartizione, sullo stato degli appalti e su questioni varie. La condomina, in particolare, contestava la nullità del deliberato perché il consesso assembleare, nonostante la sua specifica richiesta, aveva deciso di non inserire nel verbale un documento predisposto dal proprio delegato alla riunione, che a suo parere avrebbe dovuto esserne parte integrante.

A cosa serve il verbale assembleare? L'importanza del verbale assembleare è resa evidente dal fatto che esso costituisce l'unico mezzo a disposizione dei condomini e dei terzi per ricostruire il contenuto della volontà assembleare. Detto documento serve per esempio ai condomini assenti, ai quali deve essere obbligatoriamente inviato dall'amministratore nei giorni successivi alla riunione, per venire a conoscenza di quanto deliberato ed eventualmente esercitare il proprio diritto di impugnazione. Esso rappresenta poi il titolo che giustifica una parte dell'operato dell'amministratore, il quale è obbligato a mettere in esecuzione il deliberato assembleare, quale rappresentante della compagine condominiale. Lo stesso costituisce inoltre un fondamentale mezzo di prova in giudizio, consentendo al giudice di ripercorrere il procedimento di formazione della volontà assembleare ai fini dell'accertamento della validità della delibera impugnata.

Il verbale assembleare ha quindi una indubbia rilevanza dal punto di vista probatorio, in quanto finalizzato a riportare fedelmente quanto accaduto nella riunione condominiale. Come evidenziato dalla Suprema corte, quest'ultimo, anche nella parte in cui indica la presenza, di persona o per delega, dei condomini, offre una prova presuntiva, di modo che spetta al condomino che impugni la deliberazione, contestando la rispondenza a verità di detta indicazione, di fornire la relativa dimostrazione. Il verbale assembleare, ex art. 63 disp. att. c.c., consente poi di procedere alla riscossione dei contributi con decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo sulla base dello stato di ripartizione approvato dall'assemblea.



Il verbale consiste quindi nel resoconto completo dello svolgimento della riunione assembleare, dal momento della sua costituzione fino a quello della sua chiusura. Esso deve quindi recare traccia delle varie fasi dell'assemblea, dalla formazione e costituzione della stessa (verifica del quorum costitutivo, nomina del presidente e del segretario, verifica della regolarità degli avvisi di convocazione, controllo delle deleghe rilasciate dai condomini) alla discussione (interventi dei condomini e dell'amministratore, condomini intervenuti o che si sono allontanati), fino alla votazione (punti all'ordine del giorno, verifica del quorum deliberativo, risultato della votazione) e alla dichiarazione di chiusura della riunione.

Nel verbale devono essere indicati gli elementi indispensabili per il riscontro della validità della costituzione della riunione e delle sue deliberazioni.

Esso, infatti, deve costituire lo specchio fedele di quanto accaduto in assemblea, specificando aspetti di fondamentale importanza come il numero dei condomini presenti e i relativi millesimi di proprietà rappresentati, il conferimento delle deleghe, gli argomenti trattati e le decisioni prese, il risultato delle singole votazioni, senza tralasciare tutte le altre informazioni pertinenti allo svolgimento della riunione.

La decisione del Tribunale di Roma. Il Tribunale di Roma, illustrando la funzione e le finalità del verbale assembleare, ha quindi evidenziato come nel caso in questione dal medesimo risultasse espressamente documentato che il soggetto delegato dalla condomina alla partecipazione all'assemblea aveva chiesto che venisse allegato un documento al verbale e che «l'assemblea si era rifiutata di farlo». Risultava pertanto pienamente documentata l'attività svolta dall'assemblea, che aveva deliberato di non acquisire il documento al verbale. Nella specie il verbale era quindi stato correttamente utilizzato per tenere traccia del contenuto dell'intervento della condomina e della sua richiesta di allegazione della propria memoria scritta.

Circa la determinazione dell'assemblea di non accogliere detta istanza, la stessa, secondo il Tribunale di Roma, era da ritenersi pienamente legittima anche perché, come sottolineato dal giudice, la condomina aveva avuto la possibilità di mettere a verbale ogni dichiarazione pertinente, in quanto attinente agli argomenti posti all'ordine del giorno, al fine di portare a conoscenza degli altri condomini presenti le ragioni del proprio voto. La pertinenza agli argomenti posti all'ordine del giorno della assemblea è quindi da considerarsi una legittima e ragionevole limitazione al diritto di intervento dei condomini, che consente di arginare eventuali condotte poco rispettose della comune esigenza di garantire un ordinato e proficuo svolgimento della riunione condominiale.

giovedì 23 aprile 2020

Coronavirus, perchè il Copasir indaga sulla app Immuni

Il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica approndisce gli aspetti di sicurezza dell’applicazione. Avviate una serie di audizioni.
di Marco Ludovico

Mettere in sicurezza, se possibile, l’app Immuni di contact tracing coronavirus scelta dal governo presieduto da Giuseppe Conte. Il comitato parlamentare presieduto da Raffaele Volpi (Lega) ha disposto una serie di audizioni, legate anche al tema di un documento secretato del ministero della Salute sull’allarme COVID-19.

Decise audizioni a raffica
Il Copasir ha reso noto di aver programmato l’audizione del ministro della Salute, Roberto Speranza, e in particolare, per Immuni, della titolare del dicastero dell’Innovazione, Paola Pisano, del direttore generale del Dis (Dipartimento informazioni e sicurezza), prefetto Gennaro Vecchione, e del vicedirettore Dis per la cybersicurezza, professor Roberto Baldoni.
Il Copasir lo dice senza indugi: ci sono «implicazioni tra la sicurezza della Repubblica e la persistenza dell’emergenza del coronavirus». In proposito il comitato «ha deciso di intensificare le proprie convocazioni e il ciclo delle attività connesse».

La mappa dei rischi reali e potenziali
Spiega l’avvocato Stefano Mele, socio di Carnelutti studio legale associato: «L’utilizzo dei dati personali dei cittadini, soprattutto quelli sul loro stato di salute, anche se utilizzati per risolvere una gravissima crisi come quella Covid-19, deve obbligatoriamente sottostare ad alcune imprescindibili garanzie che impattano proprio sul piano politico e della sicurezza nazionale».
È innanzitutto indispensabile «verificare in maniera approfondita le relazioni, soprattutto economiche e di finanziamento, che la società aggiudicataria della realizzazione dell’app ha intessuto negli ultimi anni».

Le garanzie di sicurezza da fissare
Diventa così essenziale «conservare i dati dei cittadini - e i backup di questi dati - in sistemi informatici all’interno del territorio italiano e in sistemi che siano gestiti direttamente ed esclusivamente dal nostro Governo» sottolinea l’avvocato Mele. E bisogna «evitare, se possibile, di conservarli in sistemi nel cloud, perché inevitabilmente allontaniamo le informazioni da chi le gestisce, da chi le deve proteggere e da chi deve monitorare gli accessi».


Coronavirus, Arcuri: Immuni? Volontaria e nel rispetto privacy
Soggetti e modalità dei controlli
Il tema di chi sorveglia la tutela dei dati acquisiti dalla app è un altro profilo fondamentale. Bisogna «far controllare i dati dei cittadini esclusivamente da soggetti pubblici - sottolinea l’avvocato Mele - perciò la società che ha realizzato l’applicazione non deve poter accedere ai dati raccolti, così come qualsiasi altro attore che abbia dato un apporto, anche tecnologico, a questa soluzione».
Ma ci vogliono anche «misure di sicurezza stringenti a supporto dell’app e dei sistemi informatici pubblici che conserveranno questi dati, così pregiati da attirare l’attenzione nazionale e internazionale di tutti gli attori: hacktivisti, organizzazioni criminali, agenzie di intelligence straniere, ma anche molte tipologie di società che possono trovare utilissimi questi dati per il loro business».

22 aprile 2020

Immuni, la app anticontagio nella triplice morsa di partiti, privacy e Copasir
di Nicola Barone


Controllare gli anelli deboli della catena
La prevenzione è essenziale in ogni passaggio. «Ci vogliono misure di sicurezza e controllo anche a presidio di chi potrà accedere alle informazioni dei cittadini. L’essere umano è sempre l’anello più debole della catena. Controllare le persone fisiche - rileva Mele - è altrettanto fondamentale quanto proteggere i sistemi informatici dagli attacchi esterni».
Sono i numeri a dirlo: «Metà degli incidenti di sicurezza informatica provengono dall’interno della struttura e non dall’esterno e sono causati dagli esseri umani per disattenzione e negligenza». O anche peggio: «Sono anche soggetti ricattati, costretti o addirittura comprati per ottenere quelle informazioni».

I pericoli più concreti
«La tecnologia di trasmissione dei dati che sarà utilizzata, ovvero il Bluetooth, è notoriamente molto debole sotto il punto di vista della sicurezza delle informazioni. L’effetto potrebbe essere quello che malintenzionati potranno accedere agevolmente all’interno dei cellulari di chi ha installato l’app e al suo contenuto».
Con la possibilità, sottolinea il legale, «di sottrarre i dati, falsificarli, compresi quelli relativi alle condizioni di salute del soggetto e delle persone con cui quel soggetto è entrato in contatto, e sviluppare tutta una serie di potenziali azioni crimonose».

Cosa ci aspetta

Un lungo articolo del New York Times raccoglie analisi e previsioni di venti esperti di epidemie, salute e storia, delineando diversi scenari sul prossimo anno e forse di più

 Un uomo sul ponte di Brooklyn. (Victor J. Blue/Getty Images)
Il giornalista scientifico Donald G. McNeil Jr., che negli ultimi vent’anni ha seguito per il New York Times diverse epidemie in tutto il mondo, dall’AIDS a ebola alla SARS, ha scritto un lungo articolo in cui ha riassunto quanto gli hanno detto oltre venti esperti di salute pubblica, epidemiologia e storia su quello che ci aspetta nel prossimo anno. Quello di McNeil è uno dei più documentati e completi articoli usciti finora sulle potenziali conseguenze della pandemia da coronavirus: per quanto si rivolga a un pubblico statunitense, la maggior parte degli scenari descritti è utile per farsi un’idea di quello che potrebbe essere il futuro nel breve e medio termine anche in Europa e in Italia.
La newsletter del Post sul coronavirus arriva ogni sera e racconta molto di più di quello che trovi sui giornali: è gratuita e ci si iscrive qui.
McNeil scrive che il piano presentato dal presidente statunitense Donald Trump per far ripartire l’economia per tornare al più presto a una relativa normalità «è più roseo di quello dei suoi stessi consiglieri in materia di sanità, e degli scienziati in generale». La verità, dice McNeil, è che nessuno sa dove ci stia portando la crisi sanitaria in corso, ma che «è impossibile evitare previsioni pessimiste per il prossimo anno». La teoria di Trump secondo cui le misure restrittive termineranno presto, e che stadi e ristoranti torneranno a breve a essere pieni, «è fantasia».
«Ci aspetta un futuro triste», dice Harvey V. Finberg, ex presidente dell’Accademia Nazionale per la Medicina. Lui e altri prevedono una popolazione infelice intrappolata al chiuso per mesi, con i più vulnerabili verosimilmente in quarantena più a lungo. Sono preoccupati che gli scienziati non riusciranno inizialmente a trovare un vaccino, che i cittadini esausti violeranno le restrizioni nonostante i rischi, e che il virus resterà con noi d’ora in poi»
La maggior parte degli esperti prevede che una volta che la crisi sarà finita, il paese e l’economia si riprenderanno in fretta. Ma non ci sarà modo di evitare un periodo di grande sofferenza.
Dove siamoAttualmente la COVID-19 è probabilmente la principale causa di morte negli Stati Uniti: più delle malattie cardiovascolari e del cancro. Le curve dei decessi e del contagio sembrano aver raggiunto la fase del “plateau”, cioè di una crescita inferiore di giorno in giorno, e sembrano al di sotto dei modelli predittivi elaborati dal governo. Ma quella in corso è soltanto la prima ondata di contagi: e senza un vaccino, il coronavirus sarebbe destinato a rimanere in circolazione per anni. Senza misure restrittive, le previsioni dei CDC, i centri di controllo della sanità pubblica, dicono che verrà contagiato tra il 48 e il 65 per cento della popolazione americana, con 1,7 milioni di morti calcolati su un tasso di letalità dell’1 per cento.
Questo tasso è quello stimato sul bacino reale dei contagiati, che – negli Stati Uniti come in Italia – è molto maggiore di quello dei contagiati accertati. Nelle fasi iniziali di un’epidemia, testare estesamente la popolazione è complesso, e nel caso della COVID-19 quasi ovunque sfuggono ai controlli gli asintomatici, che secondo i CDC potrebbero essere fino al 25 per cento di chi risulta positivo al tampone. Ci sono studi secondo cui questa percentuale potrebbe essere doppia, o anche di più. L’attuale consenso scientifico è che i malati di COVID-19 siano contagiosi fin da alcuni giorni prima dello sviluppo dei primi sintomi.
Il martello e la danzaGli esperti consultati da McNeil dicono che non è immaginabile un futuro in cui, senza vaccino, diventerà sicuro uscire di casa in massa. Se succedesse, la situazione sembrerebbe sotto controllo per circa tre settimane, e poi gli ospedali tornerebbero a riempirsi. Alla fase “del martello”, quella che ha l’obiettivo di abbattere le curve attraverso i lockdown, seguirà secondo gli epidemiologi quella che in un post su Medium diventato molto popolare è stata definita “la danza”. Cioè la riapertura graduale di alcuni settori dell’economia e della vita pubblica, che continuerà finché non ci saranno troppi nuovi contagi e saranno necessarie nuove chiusure. La speranza è che se le operazioni di test e tracciamento organizzate nel frattempo saranno efficienti, queste chiusure siano più tempestive e limitate geograficamente di quelle attuali.
Secondo McNeil, i nuovi aumenti dei contagi sono inevitabili anche tenendo chiusi stadi, locali e ristoranti: e maggiori saranno le restrizioni, più lunghi saranno i periodi che separeranno i lockdown più rigidi. Anche in Asia, dove spesso l’applicazione delle misure restrittive è più efficace e le operazioni di contact tracing più efficienti, posti come Singapore, Hong Kong e città cinesi sono stati costretti a nuove chiusure, dopo aver temporaneamente allentato i lockdown.
ImmunitàAttualmente la scienza non ha ancora capito se e per quanto tempo il sistema immunitario mantenga la memoria del coronavirus, garantendo quindi una forma di immunità dopo essere stati contagiati. È il motivo per cui i test sierologici, di cui si sta tanto parlando, potrebbero darci risultati meno affidabili e significativi di quanto ci si aspetti. Ed è il motivo per cui a oggi sembra difficile immaginare che con i test sierologici si possa sviluppare uno strumento efficace e affidabile per quella che è stata definita “patente di immunità”, una specie di certificato che consentirebbe a chi ha già contratto la COVID-19 ed è guarito di tornare alla vita pubblica.
Ma anche nella prospettiva in cui questo possa accadere, spiega McNeil, ci sono implicazioni preoccupanti. Di fatto si creerebbero due categorie sociali, chi è immune e chi no, con i primi a cui sarebbe permesso di spostarsi e viaggiare, e i secondi a cui sarebbe impedito. Con il paradosso che, in futuro, una parte degli immuni potrebbero essere quelli che non hanno rispettato le restrizioni, entrando in contatto con altri, e che ciononostante – superata la malattia, che come sappiamo può provocare conseguenze gravi e gravissime anche su persone giovani e sane – sarebbero “premiati” con il permesso di tornare a spostarsi.
Un’altra ipotesi preoccupante, ammesso e non concesso che si possa sviluppare un’immunità da coronavirus: per molti, principalmente giovani, farsi contagiare volontariamente potrebbe diventare una prospettiva preferibile rispetto a rimanere chiusi in casa, magari senza poter lavorare e quindi avere un reddito. Successe qualcosa di simile a Cuba negli anni Ottanta, quando decine di senzatetto si infettarono volontariamente con l’AIDS per accedere ai centri di isolamento, che garantivano vitto e alloggio agli ospiti. In tanti morirono prima che fossero introdotte le terapie.
Test e isolamentiPer riorganizzare la vita pubblica e privata nei prossimi due anni sarà fondamentale organizzare un sistema efficiente di test sulla popolazione e di isolamento per i malati, dice McNeil. Gli isolamenti domestici, che rappresentano attualmente un grosso problema anche in Italia, sono fortemente sconsigliati dall’OMS: i contagi famigliari rimangono uno dei maggiori, se non il maggiore, mezzi di diffusione del virus, in tempi di misure restrittive. Gli americani ne hanno avuto una prova lampante quando, dopo aver visto per giorni i video dell’anchorman della CNN Chris Cuomo nel seminterrato di casa, dove si era isolato per il coronavirus, hanno ricevuto la notizia che anche sua moglie era risultata positiva al tampone.
«Se dovessi scegliere un solo intervento, sarebbe il rapido isolamento di tutti i casi», ha detto Bruce Aylward, che ha guidato la missione di osservatori dell’OMS in Cina, dove chiunque risultasse positivo era confinato, anche contro la sua volontà, in una struttura apposita. Mantenere umane e sopportabili queste misure dovrà essere una priorità, ma secondo alcuni esperti non sarà possibile e per questo non sarà una strada praticabile.
Trovare il vaccinoSecondo Anthony Fauci, il rispettato e autorevole epidemiologo che sta consigliando Trump sulla gestione dell’epidemia (e che è sembrato spesso in disaccordo con le dichiarazioni del presidente), per sviluppare un vaccino per la COVID-19 ci vorranno almeno dai 12 ai 18 mesi. Gli altri esperti di vaccini consultati da McNeil hanno ritenuto questa tempistica fin troppo ottimista. Se le attuali tecnologie consentono infatti di sviluppare candidati per il vaccino molto più in fretta che in passato, i test clinici richiedono tempi che sono molto difficili da accelerare. Non c’è modo, infatti, di aumentare la velocità con cui il corpo umano produce anticorpi.
Normalmente, un vaccino è testato inizialmente su meno di cento giovani in salute: se sembra sicuro e efficace, il campione viene esteso ad alcune migliaia di persone, che potrebbero essere ipoteticamente operatori sanitari esposti al virus, a cui viene somministrato in parte il vaccino e in parte un placebo, per studiarne gli effetti. Questa fase si può teoricamente velocizzare con un processo noto come “challenge trials”, in cui i volontari a cui è somministrato il vaccino vengono deliberatamente contagiati.
Di solito questo procedimento viene utilizzato soltanto per malattie curabili, come la malaria o la febbre tifoide, spiega McNeil: farlo con la COVID-19, per cui non c’è ancora una cura certa, pone di fronte a enormi questioni etiche. La gravità della situazione globale rende accettabile esporre a un rischio mortale un gruppo ristretto di persone, per evitare di lasciarne centinaia di milioni a rischio per anni? Gli esperti consultati sono divisi su questo punto, ma hanno convenuto che è più che possibile che sia la strada che decideremo di intraprendere.
E poi distribuirloSecondo gli esperti consultati da McNeil, per quanto possa essere difficile sviluppare un vaccino, produrlo e distribuirlo a tutte le persone che ne avranno bisogno sarà ancora più complesso. Negli Stati Uniti, per esempio, le fabbriche di vaccini producono dalle 5 alle 10 milioni di dosi all’anno, utilizzate in larga parte per i 4 milioni di neonati e gli altrettanti neo-65enni. Ma l’ipotetico vaccino per la COVID-19 sarà necessario in 300 milioni di dosi, cioè per tutti gli americani: 600 milioni, se ne saranno necessarie due dosi. E serviranno altrettante siringhe. Se poi il vaccino renderà immuni solo per un certo periodo di tempo, bisognerà ripetere ciclicamente questa gigantesca produzione: non solo per gli Stati Uniti ma per tutto il mondo. Saranno fondamentali quindi le vaste produzioni di paesi come Cina, India, Brasile: ma si dovrà vedere come sarà a quel punto l’epidemia lì, per capire se potranno produrne per altri paesi.
TerapiePrima del vaccino, saranno con ogni probabilità i progressi nelle terapie per la COVID-19 a fare la differenza. Gli anticorpi monoclonali, usati con successo contro ebola in Africa, sono quelli con maggiori prospettive di successo nel breve periodo, secondo gli esperti consultati da McNeil. Ma il loro sviluppo, come quello dei vaccini, richiede tempo, e allo stesso modo sarà complicato produrne a sufficienza per tutti: anche nell’ipotesi di sintetizzarli in apposite pillole, che dovrebbero essere prodotte più o meno nella quantità in cui sono prodotte oggi le aspirine.
Altri farmaci di cui si sta parlando come possibili alternative, come l’idrossiclorochina e l’azitromicina, richiedono altri test clinici: in passato l’utilizzo affrettato di farmaci promettenti per altre malattie – per esempio la talidomide – ha provocato gravi effetti collaterali, compresi migliaia di bambini nati con deformazioni.
Altre conseguenzeTra gli altri scenari ipotizzati dagli esperti con cui ha parlato McNeil c’è poi quello della difficile cooperazione tra Stati Uniti e Cina. Trump è stato estremamente critico verso la gestione cinese dell’epidemia, e recentemente ha accusato l’OMS di esserne stata complice, annunciando di voler interrompere i finanziamenti all’organizzazione. L’OMS, spiega McNeil, è però anche «l’unica capace di coordinare una risposta» che sia basata su una cooperazione internazionale di dimensioni mai viste negli ultimi decenni. In futuro, la Cina potrebbe diventare il maggiore distributore mondiale di farmaci e vaccini per la COVID-19: non sarà un bel momento per essere in cattivi rapporti.
Nicholas Mulder, economista della Cornell University, ha previsto che l’economia possa risollevarsi in fretta, a crisi finita, come successo dopo entrambe le guerre mondiali. Ma quando finirà la crisi è una grande incognita, e le conseguenze psicologiche saranno più difficili da superare: l’isolamento e la povertà causati dai lockdown potrebbero aumentare i suicidi, i casi di violenze domestiche e i malati di depressione. In una prospettiva più a lungo termine, e in una delle poche note positive dell’articolo del New York Times, Mulder ha notato come dopo le guerre mondiali le società e le economie diventarono meno diseguali. Se il vaccino funzionerà, poi, la fiducia nella scienza potrebbe aumentare, con possibili conseguenze anche sulla percezione del cambiamento climatico.