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domenica 27 novembre 2016

Sulle Alpi Apuane, lassù dove combatterono i soldati brasiliani

FATELO SAPERE A QUELLI DELL'ANPI!!!

Cosa ci fanno quelle scritte in portoghese su un cartello indicatore verde-oro, come la bandiera del Brasile?
Sotto i nostri piedi, un migliaio di metri più in basso c’è la piana di Camaiore, in provincia di Lucca, Toscana, Italia.
Non Rio de Janeiro. Eppure “Saudade”, una, due, tre volte. I segnavia del CAI accanto a quelli dalle tinte carioca.
Il mistero si svela solo in vetta, dove una scritta racconta di un battaglione di soldati brasiliani schierati quassù
durante la Seconda Guerra mondiale a difesa di Camaiore e della Versilia.  



ETTORE PETTINAROLI                                                                                                                                       su "lastampa.it"

Il Monte Prana (1.220 m), è la più meridionale delle cime delle Alpi Apuane ed è anche una tra le più panoramiche, 
sospesa com’è tra il mar Tirreno, la Garfagnana e la Versilia. Si raggiunge in poco più di due ore da Casoli (403 m) — 
percorrendo il sentiero n. 2 e successivamente il n. 112 — ed è dunque una meta perfetta per una camminata autunnale
 non troppo impegnativa e di grande soddisfazione. Da lassù lo sguardo spazia anche su gran parte delle Apuane meridio
nali che si susseguono a perdita d’occhio tra valloni ammantati dal rosso delle foglie di faggi e castagni e cime a volte
svettanti, più spesso dai morbidi profili che chiedono solo di essere raggiunte dagli appassionati trekker. Che, da queste 
parti sono numerosi e favoriti da una fitta rete di sentieri ben segnalati. 



Come resistere, per esempio, al richiamo del Monte Forato (1209 m), così chiamato per il grande arco di roccia (il “foro”,
appunto) appena sotto la vetta e visibile anche da lontano. Per arrivarci si cammina, anche in questo caso, per un paio
d’ore risalendo il sentiero n.12 dal paese di Cardoso (278 m). Il selfie sotto l’Arco di calcare con sullo sfondo il Tirreno
è obbligatorio, mentre è riservata solo a chi non soffre di vertigini la “passeggiata” sul tetto del foro.  



Classica meta delle camminate Apuane è il Rifugio Forte dei Marmi, che compare all’improvviso dal bosco ai piedi delle
pareti strapiombanti del Monte Nona. In questo periodo dell’anno è aperto solo nei fine settimana ed è sempre molto
frequentato, anche per la relativa comodità dell’accesso. Basta infatti meno di un’ora di marcia da Pomezzana lungo 
il sentiero n. 106 e poco di più se ci si incammina da Stazzema (sentiero n.5) per godersi un pranzo a base di sostanziose 
specialità lucchesi in un contesto naturale di grande suggestione. Senza dimenticare il fascino di borghi senza tempo 
come Pomezzana e Stazzema, con i loro stretti vicoli, le case in pietra, le fontane, le chiese monumentali. Magnifici e 
silenziosi, non sono mai stati abbandonati e trasmettono una sensazione di pace e benessere insospettabile a poche 
decine di minuti d’auto dalle frenetiche coste versiliesi. 



Ed è un altro borgo incantato il punto di partenza per l’ascesa alla regina delle Apuane, la Pania della Croce (1.859 m). 
Pruno (447 m.) compare all’improvviso tra la vegetazione, in tutta la sua severa bellezza: una Pieve romanica del XIII 
secolo, un grappolo di case ben ristrutturate, un paio di ristoranti, un Ostello, un B&B. La salita è lunga, richiede
buone gambe e capacità di interpretare l’evoluzione del meteo, qui particolarmente ballerino. Il sentiero n. 122 sale fino 
al Passo dell’Alpino e a Foce Mosceta (1.170 m), nei cui pressi si trova l’accogliente Rifugio Del Freo, anch’esso aperto
secolo nei weekend. Da qui si prende a destra il sentiero n. 126 che risale il pendio ormai completamente privo di alberi 
e raggiunge la cima (4 ore da Pruno). Soddisfazione. Clic a raffica. Spettacolo. Come sempre nelle Apuane.  

sabato 19 novembre 2016

NERO SU BIANCO Giuseppe Cruciani, lettera a Berlusconi: "Critica Renzi, ma è come lui"

Concordo con quanto scritto da Cruciani:

Gentile Presidente Berlusconi, mi consenta di dirle una cosa.
Lei sta facendo campagna a favore del No al referendum del 4 dicembre avvertendo gli italiani di un imminente pericolo se la riforma fosse approvata dal popolo: la dittatura renziana. Prendo a caso alcune sue dichiarazioni: «C’è il pericolo di una deriva autoritaria, la dittatura di un uomo solo al comando padrone del suo partito e del 55 per cento dell’unica Camera»; «Chi vince le elezioni sarebbe padrone dell’Italia e degli italiani»; «Il leader di un partito potrebbe diventare padrone del governo, della Corte Costituzionale e del Csm».
Scusi Presidente, ma di cosa parla? Quello che lei paventa come una catastrofe che andrà ad intaccare la libertà dei cittadini, è esattamente quello che Silvio Berlusconi ha sempre voluto quando era al governo di questo Paese o negli anni trascorsi come capo dell’opposizione. Ed è anche il motivo per cui tanti italiani nel passato l’hanno scelta come capo del governo. È inutile che ricordi a lei e soprattutto a quelli che ci stanno leggendo alcune battaglie storiche sue personali e della sua parte politica contro i piccoli partiti che le avrebbero impedito di attuare il programma o sui pochi poteri che ha il Presidente del Consiglio in Italia. Basta andare su Google, e credo che ormai lei si sia impratichito del mezzo, per trovare decine di suoi interventi. Solo per citarne alcuni: «In Italia il premier non può fare nulla, ha poteri quasi inesistenti»; «Basta coi piccoli partiti, pensano solo a se stessi».
A un certo punto, lo ricorderà certamente, disse che il Parlamento era pletorico e sarebbero bastati «cento deputati» e sarebbe stato più utile e veloce che a votare fossero «solo i capigruppo al posto dei parlamentari». E sovente si è trovato a rimproverare gli italiani che non davano a Forza Italia la maggioranza assoluta. Insomma, lei era il Re della semplificazione e, a mio modesto parere giustamente, il grande sostenitore dello spoil system, cioè «chi vince prende tutto». Come sta facendo adesso Trump.
Francamente, e detto con grande rispetto, non si capisce di cosa si possa lamentare. Tra l’altro, chi scrive non ha alcun pregiudizio nei suoi confronti. Anzi. Più volte, quando mi sono recato alle urne ho messo la crocetta sul suo nome o su qualche partito a lei alleato compresa Forza Italia. E non me ne sono mai vergognato, al contrario di tanti giornalisti che non hanno il coraggio di dire cosa hanno scelto nel segreto dell’urna. O addirittura si nascondono per paura di essere etichettati utilizzando la solita ipocrita frase: non vado a votare.
Io l’ho votata, Presidente, perché mi aspettavo quella famosa rivoluzione liberale, meno tasse e più attenzione alle partite Iva, che lei ha sempre promesso. Non è arrivata, e amen, ormai è andata così. Sono persino convinto che Berlusconi Silvio abbia subito un attacco da parte della magistratura che ha messo in piedi una gigantesca caccia alle streghe cercando di scoprire con chi lei trascorreva allegre serate a casa sua, e in parte è stato estromesso dalla vita politica anche a causa di questa operazione spionistica in stile Germania Est. Ma è acqua passata e amen anche qui.
Adesso, capisco che la politica significa dire tutto e il contrario di tutto e forse oggi le conviene che alle elezioni non vinca nessuno così può ancora avere voce in capitolo. Capisco dunque che ora a lei e alla sua formazione politica convenga azzoppare Renzi o addirittura farlo cadere, sostenendo che la riforma è pasticciata o altro. E capisco pure che si senta tradito da Renzi che a un certo punto, dopo aver collaborato con Fi e scritto con voi questa stessa riforma, l’abbia messa da parte come si fa con una vecchia ciabatta. L’uomo è fatto così, come lui stesso ha ammesso: cattivo e arrogante. Il contrario di come, credo, sia Silvio Berlusconi, forse l’ultimo leader democristiano dell’Italia: sempre pronto ad accontentare tutti, pure troppo. E forse invidia al premier proprio queste «qualità», tanto da dire, nello stesso momento in cui parla di dittatura in arrivo: «Renzi è l’unico vero leader in politica». Per tornare al punto, qui non c’è alcuna dittatura alle porte, come lei sa bene. Silvio Berlusconi quei poteri vorrebbe averli, eccome. Ma per ottenerli c’è un solo modo: battere il fiorentino alle elezioni.
La saluto cordialmente.
di Giuseppe Cruciani

venerdì 18 novembre 2016

Voglia d'indipendenza, il Veneto via dall'Italia: la data della Venexit

da "liberoquotidiano.it" 

O il 2 o il 9 aprile 2017. Ci sono due ipotesi di data per il referendum autonomista in Veneto. Sarà consultivo, sul modello della Brexit, ma vista l’aria che tira in tutto l’Occidente, il voto indipendentista potrebbe essere l’inizio di un percorso pericoloso per un’Italia concentrata solo su Renzi e non sul vero stato di salute del Paese. Sul malessere che cova nelle zone produttive e che nessun partito sta riuscendo a interpretare. Luca Zaia, presidente del Veneto, ha annunciato la consultazione in Argentina, al circolo della comunità trevigiana, una delle tappe del suo tour in America Latina per incontrare gli emigranti dall’ex Serenissima. Milioni di persone, che il Doge vorrebbe coinvolgere proprio nel referendum autonomista.
Facile per qualcuno liquidare la questione come folclore. Soprattutto adesso che la Lega è impegnata in un percorso di italianizzazione per creare un movimento lepenista-trumpiano e chi più ne ha più ne metta. Peccato che proprio adesso, senza il Carroccio sulla strada, il popolo veneto sarà invece più libero di intraprendere un percorso che partendo dalla richiesta di autonomia, potrebbe sfociare in qualcosa di più grande. La secessione forse è un qualcosa di minoritario, ma la voglia di mandare un vaffa a Roma è tanta. Un recente sondaggio della Demos di Ilvo Diamanti, commissionato dal Gazzettino, ha infatti certificato che il 48 per cento dei veneti vorrebbe l’indipendenza, contro il 47 di cosiddetti italianisti. Come dicevamo, soltanto un 12 è in realtà per la secessione dura e pura. Ma il 52 vuole un’autonomia come quella del Trentino-Alto Adige, ovvero che tutti i soldi fatturati in Veneto restino in Veneto.
Ecco perché l’Italia dovrebbe prendere sul serio il referendum autonomista. Il Veneto regala ogni anno a Roma qualcosa come 20 miliardi, il famoso residuo fiscale, cioè la differenza fra gettito e soldi che ritornano nel territorio sotto forma di spesa pubblica. Se prima o poi si arrivasse a uno statuto speciale sul modello siciliano o altoatesino, per il governo italiano sarebbe un bel guaio: di fatto perderebbe il valore di una finanziaria. Dolori forti. Ben peggiori delle menate provenienti da Bruxelles.
L’emicrania per il presidente del Consiglio, Renzi o chissà chi, potrebbe diventare però permanente, perchè la Venexit fa rumore, ma qua è tutto il Nord che vuole fuggire da uno Stato, capace solo di inventare bonus occupazionali per il Sud e di togliere 400 milioni alla Lombardia, unica regione a zero debito, per regalare 600 milioni alle società campane del trasporto pubblico. Roberto Maroni, presidente dei lumbard, sta percorrendo la stessa strada di Zaia. E probabilmente anche a Milano, così come a Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Como, Cremona, Pavia, Mantova, Lodi, Monza e Sondrio, si voterà il 2 o il 9 aprile per chiedere l’autonomia fiscale dallo Stato centrale. Un voto che potrebbe contagiare pure la Liguria di Giovanni Toti, ormai perno fondamentale della triplice intesa con Zaia e Maroni. Beh, se tutto il Nord chiedesse a gran voce lo statuto speciale, potremmo dichiarare la bancarotta dell’Italia: al bilancio statale mancherebbero quasi 100 miliardi l’anno, il residuo fiscale dell’intero Nord, dove la Lombardia la fa da padrone con 52 miliardi regalati ogni 365 giorni a Palazzo Chigi.
Ripetiamo: qualcuno, sotto la linea gotica, si metterà a ridere dei referendum indipendentisti, come gli amici di Hillary Clinton ridevano di Donald Trump fino a un minuto prima della sconfitta ufficiale della moglie di Bill. Chi non riderà tirerà fuori il solito populismo e i fantasmi della guerra jugoslava (vi ricordate i discorsi della sinistra e di Gianfranco Fini negli anni ’90 contro Bossi?), senza capire che le parole buoniste hanno rotto le scatole. Conta il portafoglio: una volta stava a destra, poi ha cambiato sponda, adesso lo teniamo ben stretto in mano per paura che un amico della Ue ce lo porti via definitivamente. E con i partiti spappolati e i sindacati sorpassati dalla storia, non resta che dare segnali con questi referendum stile Brexit: stavolta vogliamo decidere noi dei nostri soldi, senza farci imporre decisioni dalle banche centrali o dai Napolitano di turno.
di Giuliano Zulin

'DIOSCURI' SINISTRI - BEHA: “ADESSO CHE SONO APPOLLAIATI SULLE DUE SPONDE DEL TEVERE REFERENDARIO, POSSIAMO DARE UN GRAZIE SINCERO A VELTRONI E D’ALEMA, PERCHÉ NON HANNO SOLTANTO DISTRUTTO LA SINISTRA MA CI HANNO ROVINATO LA VITA. GRAZIE A NOME DI TUTTI QUELLI CHE LO PENSANO, DEI POCHI CHE LO SUSSURRANO, DEI MOLTI CHE NON LO DICONO”

Oliviero Beha per Dagospia
oliviero behaOLIVIERO BEHA

Quando Walter Veltroni, onusto di glorie televisive e più in generale artistiche, ha annunciato il suo “Sì” al prossimo referendum costituzionale mi sono sentito gradevolmente rimpannucciato.

In tanti avevano obiettato a chi avrebbe votato contro la riforma Renzi/Boschi che così avrebbero favorito la “casta”, la resistenza al cambiamento, la sopravvivenza di vecchi arnesi, citando all’uopo tra personaggi, figure e figuri per esempio D’Alema. Il discorso era facilmente rovesciabile, ma ora con Veltroni sulla sponda opposta la scomposizione dei due Dioscuri che tanto bene hanno operato per il Paese negli ultimi trent’anni risulta perfezionata.
DALEMA VELTRONIDALEMA VELTRONI

Si dice che insieme, anche se contrapposti secondo i momenti ma complessivamente complementari dalla morte di Berlinguer in poi, abbiano polverizzato la sinistra e l’idea di sinistra che il Pci aveva comunque conservato per le decadi precedenti. Sinistra?

Mah…se ciò che la distingue dalla destra è un’esigenza di solidarietà e difesa dei più deboli, vorrei capire in che modo abbiano contribuito in questo quadro i summenzionati Dioscuri. C’è chi sostiene che non gliene sia mai fregato un beneamato cazzo di nessuno, se non al massimo della loro cerchia privata e dei loro beni, chi più (D’Alema il pugliese…), chi meno (Veltroni l’intellettuale con le mani in pasta e in pasto).
MUSSI VELTRONI DALEMA jpegMUSSI VELTRONI DALEMA JPEG

Giudizio severo, ammettiamolo, specie se si considera che uno continuava a pulpiteggiare sulla sinistra dall’alto di tutti gli incarichi consentiti, fino all’amato Copasir fonte inesauribile di informazioni non sul panettiere ma sull’intera classe dirigente, militari compresi, e l’altro minacciava - ma dall’Italia - i bambini africani, risparmiati (purtroppo solo da lui) in extremis per il prevalere della sua incomprimibile creatività.

Dovendo girare un film come fa lui ma su di lui, un titolo possibile sarebbe “La Grande Doppiezza”, mentre un testo adatto a D’Alema potrebbe intitolarsi “Il cervello al Massimo”. Sul film veltroniano lascio ampia facoltà d’immaginazione. Sul libro dalemiano forse ci vuole un asterisco.
VELTRONI E DALEMAVELTRONI E DALEMA

Qualche anno fa sentii raccontare da Staino, attuale Direttore dell’Unità renziana, il seguente aneddoto, in un’occasione pubblica, alla presentazione di un libro: ”Ero seduto al tavolo vicino a Massimo, col quale per tutta la vita ho battagliato e fatto pace, quando lui sospirando mi ha detto: “Certo che per un vignettista perdere la vista come sta accadendo a te deve essere tremendo….”. Io ovviamente ho assentito. Lui ha continuato quasi soprapensiero: “Sarebbe un po’ come se a me venisse un tumore al cervello…”.

VELTRONI DALEMAVELTRONI DALEMA
Beh, adesso che sono appollaiati sulle due sponde dello sporchissimo Tevere referendario, possiamo fotografarli ben bene nel nostro presepe personale e generazionale. Un grazie sincero ad entrambi, perché non hanno soltanto distrutto la sinistra (forse c’avrebbe pensato da sola e comunque rimarrebbe sempre la destra, se non fosse un’accozzaglia pressappochista di inventati) ma ci hanno semplicemente rovinato la vita. Grazie anche a nome di tutti quelli che lo pensano, dei pochi che lo sussurrano, dei molti che non lo dicono proprio.
Oliviero Beha

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mercoledì 16 novembre 2016

SONDAGGIO O SON DESTO? - CHI E’, CHI NON E’, CHI SI CREDE DI ESSERE ARIE KAPTEYN, L’UNICO SONDAGGISTA AD AVER PREVISTO L'EXPLOIT DI TRUMP: “ANCHE CHI AVEVA SCELTO OBAMA 4 ANNI FA SU HILLARY AVEVA DIVERSI DUBBI. MI HANNO DERISO, MI DICEVANO CHE ERO UN TRADITORE. COME SE FOSSI IO A VOTARE TRUMP..." - -

Alberto Flores D’Arcais per la Repubblica
ARIE KAPTEYNARIE KAPTEYN
«Che devo dire...sono rimasto sorpreso anche io. E poi, per essere onesti fino in fondo, avevamo previsto che vincesse con un margine ancora più ampio ». Arie Kapteyn ridacchia. Dalla sua casa di Topanga, Los Angeles, “l’uomo dei sondaggi”, il vecchio professore di economia che ha ridicolizzato i giovani leoni dei polls digitali come Nate Silver (FiveThirtyEight) o Nate Cohn ( New York Times) appare piuttosto divertito da quelle che chiama «queste ore di celebrità» e cerca di ragionare sul perché le previsioni di guru, ed esperti vari si siano rivelate sballate nel novanta per cento e oltre dei casi.

«Premesso che abbiamo sbagliato qualcosa anche noi, penso che la differenza l’abbia fatta il metodo che noi della University of Southern California abbiamo usato nel condurre i sondaggi per il Los Angeles Times. È stato un processo lungo, iniziato un anno fa, quando ci siamo resi conto che con mezzi tradizionali come le telefonate e anche attraverso Internet molti elettori non ci avrebbero detto volentieri che volevano votare per Donald Trump».

ARIE KAPTEYNARIE KAPTEYN
Così Kapteyn e il suo staff hanno scelto, come prima mossa, il metodo più antico. «Abbiamo inviato migliaia di lettere in ogni singola contea degli Stati Uniti, con dentro un questionario e cinque dollari. Chi rispondeva alle domande veniva premiato con altri quindici dollari».

Non c’è nessun tipo di corruzione nel pagare chi risponde a un sondaggio spiega il professore, «perché la gente dedica tempo al sondaggio, si sente più responsabile e accetta di rispondere anche a domande cui al telefono non risponderebbe mai. Così, partendo dalla buona vecchia posta, abbiamo selezionato quelle tre/quattromila persone che per tutto il 2016 sono diventate il nostro campione».

Una volta fatto questo è entrato in scena Internet. «A chi si dichiarava interessato e magari non aveva a disposizione una connessione a banda larga o un computer, abbiamo regalato un tablet e un abbonamento. Perché la seconda cosa che abbiamo capito era che molti pro-Trump non avrebbero mai ammesso pubblicamente la loro scelta, l’avrebbero condivisa solo al ‘riparo’ dell’anonimato garantito da Internet e rispondendo a domande mirate».
trump clinton i sondaggi rasmussen sulla pagina fb di donaldTRUMP CLINTON I SONDAGGI RASMUSSEN SULLA PAGINA FB DI DONALD

Che tipo di domande? «Non quella classica, ‘per chi voti’. Abbiamo chiesto loro, con una scala da zero a cento, di ‘autoassegnarsi’ le probabilità che avevano di votare per l’una o per l’altro candidato e poi abbiamo insistito per sapere come avessero votato nel 2012».

Usando il cosiddetto microweighting, le micro-valutazioni che (prima del voto) hanno suscitato critiche e irrisioni per il suo metodo di valutazione, Kapteyn e il suo staff sono stati in grado di «vedere come, nel corso dei mesi, cambiavano atteggiamenti, dubbi e sentimenti verso Trump e Clinton».

Una prova? «Chi sceglieva Hillary in maggioranza lo diceva apertamente, per i fan del candidato repubblicano accadeva il contrario. Credo che nei sondaggi classici si sia tenuto poco conto di cosa avevano votato gli elettori quattro anni fa: molti sondaggi, anche tra quelli fatti meglio, non hanno tenuto conto di chi non aveva votato affatto. Noi ci siamo resi conto che chi non aveva votato, o aveva votato Obama, su Hillary aveva diversi dubbi. Dopo mesi di sondaggi una cosa per noi era chiara: l’elettorato era diverso da quello di quattro anni fa. E se non sai chi sono i nuovi elettori - e non mi riferisco solo ai giovani - non sai per chi voteranno».

SONDAGGISONDAGGI
Per Kapteyn «non esistono sondaggi perfetti», con i mezzi che offre oggi la tecnologia ci vuole il «giusto mix tra numeri ed esseri umani», i ‘Big Data’ sono «molto importanti, ma occorre saperli leggere» e «gli algoritmi da soli non bastano».

Prima dei numeri «occorre trovare il campione giusto, composto da gente che sia rappresentativa di tutto l’elettorato, da chi vive nelle sperdute contee rurali e non ha mai usato un computer ai giovani che vivono collegati in rete 24 ore al giorno ma non usano lo smartphone come un telefono. Facebook o Google pensano di sapere tutto di noi? In molti casi è vero, ma anche loro non raggiungono tutti».

Quanto alle previsioni di esperti e simili il professore scoppia a ridere: «Quelli che pontificano in televisione non ne azzeccano mai una. Il giorno dopo sono capaci di spiegarci perfettamente come è andata, il giorno prima non sanno nulla di più di quanto ne sappiamo io e lei». Il fatto che il sondaggio del team della Southern California fosse l’unico tra i grandi media a dare (con una certa costanza) Trump vittorioso ha procurato a Kapteyn critiche e non solo.
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«Diciamo che prima del voto non ero molto popolare. Vere e proprie minacce non ne ho avute, ma telefonate, email di derisione, articoli su blog di ogni tipo e anche su qualche giornale serio che mi dicevano di smettere, che stavo sbagliando tutto... di queste cose ne ho avute tante. Per non parlare di chi, anche nel mio ambiente, mi gridava che ero un traditore. Come se fossi io a votare Trump».
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Il professor Kapteyn non vuole dire per chi ha votato per una questione di etica professionale: «non sarebbe corretto, devo essere neutrale», ci spiega. Ma alla fine della conversazione si lascia sfuggire una battuta evocativa: «Sa, sono cresciuto in Olanda, mi sento europeo…».
ARIE KAPTEYNARIE KAP

martedì 15 novembre 2016


Non ne posso più di un Paese che dice solo no. Ci ho pensato, voto Sì al referendum per 12 motivi

Condivido le affermazioni di Fabio Gasparrini, giornalista, anche se scrive su l'UNITA': 
Ho riflettuto, e ho deciso che ci sono almeno 12 motivi per cui voterò sì al referendum. Ho provato a elencarli.
1. Perché non ne posso più di un Paese che sa dire solo no. Siamo un popolo conservatore fino allo spasimo, che a parole chiede riforme ma che al dunque trova sempre modo di affossarle, perché in fondo è complice dello status quo. Dire no è sempre più facile, spesso anche più fico; abbiamo paura di sembrare ingenui o peggio entusiasti. Meglio tenerci il nostro cinismo e il nostro scetticismo, contro tutto e tutti. Così imparano, tié.
2. Perché chi vota no, nella maggioranza dei casi, non sta votando contro una riforma costituzionale, ma contro Renzi. Privando così il Paese di un tentativo di riforma, pur di danneggiare politicamente il Governo. E ricordando così quel tale che se lo taglia per fare dispetto alla moglie.
3. Perché questa riforma non è (ovviamente) perfetta, ma è comunque qualcosa. Oltre alla trasformazione del Senato introduce anche nuovi meccanismi volti a snellire i lavori parlamentari. Si poteva fare meglio? Sicuramente. Ma da qualche parte si deve pur cominciare. Il meglio è nemico del bene, e l’alternativa è tenerci un sistema che già sappiamo non funzionare. I contrari, in caso di vittoria dei no, promettono riforme alternative, che sappiamo benissimo non si faranno mai.
4. Perché chi critica i compromessi che la riforma ha dovuto accogliere, dimentica che questi sono dovuti all’inevitabile e faticosa ricerca di un consenso parlamentare che andasse oltre la maggioranza. Com’era giusto che fosse, trattandosi di riforma costituzionale. La politica – si dovrebbe ricordare – è l’arte del possibile, e il compromesso ne fa parte integrante. Il paradosso è che coloro che hanno obbligato al compromesso adesso sono contro la riforma. Troppi compromessi, dicono.
5. Perché si fa intenzionalmente melina, confondendo la riforma costituzionale con la legge elettorale. Quest’ultima è stata già approvata ed è legge dello Stato, e non è oggetto di Referendum. Non è perfetta (a me non piacciono per esempio i capolista bloccati) ma è comunque mille volte meglio del Porcellum. È vero che rientra in un più ampio ragionamento sul l’equilibrio dei poteri, ma il rimetterla in discussione – e rendere le due cose indissolubili – mi sembra il classico modo per affossare tutto.
6. Perché l’obiezione che la riforma “sottrae rappresentatività al popolo” è stupida. Tanto varrebbe allora introdurre una terza camera, se abbiamo tutta quest’ansia di rappresentatività. Si fa finta di non sapere che esistono poteri eletti indirettamente, come sono ad esempio il Presidente della Repubblica e anche il Primo Ministro, eletti da rappresentanti eletti dal popolo. E come sarebbero (in parte) i nuovi Senatori. Si chiama democrazia indiretta, o rappresentativa. E non è niente di scandaloso.
7. Perché il bicameralismo perfetto si è rivelato largamente imperfetto. È stato concepito nel dopoguerra, dopo vent’anni di dittatura, come parte di un sistema che si cautelava dalla concentrazione dei poteri con una serie di contrappesi. Ma che al dunque si è rivelato lento e inefficiente, con leggi che veleggiavano per mesi fra una Camera e l’altra prima di arenarsi in un limbo dove restavano talvolta per anni. Proviamo a cambiare: la maggioranza parlamentare lavori, e legiferi. Se sbaglierà, sarà giudicata alle elezioni successive, e sostituita da un’altra maggioranza. E’ semplicemente democrazia. Chi parla di “golpe” e di “deriva autoritaria” non sa di cosa parla.
8. Perché è vero che la preoccupazione della stampa e dei mercati internazionali per l’instabilità politica (connessa a un eventuale no) non dovrebbe preoccuparci. Padroni in casa nostra, direbbe qualcuno. Ma oggi è tutto talmente interconnesso che lo stesso slogan usato in UK per la Brexit ha provocato quello che si sta rivelando un potenziale disastro, tanto che la maggioranza degli inglesi oggi voterebbe diversamente. Noi entreremmo in una fase di instabilità che il resto del mondo non capirebbe, con conseguenze imprevedibili. Facciamo tesoro, se non delle nostre esperienze, di quelle altrui.
9. Perché coloro che guidano oggi il no sono spesso in malafede, avendo (quasi tutti) votato sì a tutti i passaggi parlamentari. Solo adesso, per opportunità politica, ritiene di poter cavalcare il dissenso portando a casa qualche vantaggio. E dando vita a un fronte dell’opportunismo che va da Fassina a Brunetta, passando per Salvini e la Camusso, D’Alema e Bersani e Marino. Guarda caso, tutti sconfitti rancorosi. Senza dimenticare i Grillini, professionisti consumati del no.
10. Perché siamo un popolo dalla memoria corta. Ci siamo dimenticati che sono trent’anni che parliamo di riformare questo bicameralismo perfetto, con autorevoli interventi di autorevoli giuristi. E almeno quindici che vomitiamo ogni volta che parliamo del Porcellum. Tutti indistintamente, di ogni schieramento politico, hanno chiesto di cambiarlo. Ma erano evidentemente solo parole. Words are cheap, dicono gli americani che di soldi se ne intendono.
11. Perché siamo un popolo dalla memoria cortissima. Ci siamo già dimenticati che solo 2 (due!) anni fa un Parlamento bloccato dai suoi veti incrociati ha scongiurato Napolitano di accettare un secondo mandato, e che questi ha accettato solo in cambio di un preciso impegno a fare le riforme tante volte promesse, e mai realizzate. Tutti hanno applaudito e promesso. E infatti, eccoci qua.
  1. Perché la costituzione non è la Bibbia, e i padri costituenti avevano infatti previsto si potesse modificare, con le opportune garanzie (fra cui questo referendum). Le lamentazioni “la Costituzione non si tocca” in questo caso sono frasi vuote, ed espressioni di un populismo fuori luogo.







domenica 13 novembre 2016

"Elezione di Donald Trump grande pagina nella storia dell'imbecillità"

Maurizio Ferraris all'Huffpost.

L'Huffington Post Di Nicola Mirenzi

Con lo sguardo del filosofo: “L’elezione di Donald Trump è una grande pagina nella storia dell’imbecillità, una pagina corale, destinata a rimanere nella storia”. Maurizio Ferraris – professore di filosofia teoretica a Torino, teorico del movimento per un nuovo realismo e autore de “L’imbecillità è una cosa seria” appena pubblicato dal Mulino – ha un giudizio insieme tenero e spietato sul voto statunitense: “È la dimostrazione che l’imbecillità è la cosa meglio ripartita nel mondo. Un tycoon col ciuffo, i suoi fan spaventati e aggressivi, una antagonista debole, i suoi sostenitori convinti spesso a torto della loro superiorità morale rispetto a The Donald”.
Dovremmo riderne, professore?
Si ride degli imbecilli sino a che non fanno stragi. Se poi le fanno – come Salah Abdeslan, uno degli attentatori del Bataclan, a Parigi – restano imbecilli, ma non si ride più: si piange e si punisce.
Scrive: "La repressione aguzza l'ingegno, mentre l'esortazione a essere creativi è paralizzante”.
Quando si loda la creatività non ci si rende conto che mentre le cose tramandate, siano esse il filo per tagliare il burro o la ruota, hanno passato il vaglio di generazioni, le cose create dai creativi non sono mai state sperimentate e hanno fortissime probabilità di essere delle scemenze.
Come le cose che scriviamo e leggiamo su Twitter e Facebook, che ci invitano sempre a esser brillanti?
I social network sono l’infrazione sistematica del principio secondo cui il silenzio è d’oro. Quante volte abbiamo visto qualcuno silente e gli abbiamo attribuito meditazioni profonde e giuste, tranne che poi ha incominciato a parlare, o peggio ancora a scrivere (scripta manent), e l’incanto si è rotto. (Ovviamente sono consapevole del fatto che questo vale anche per me in questo momento).
Abbiamo cognizione dell’imbecillità che – secondo lei – c’è in giro?
Ci nascondiamo l’imbecillità per lo stesso motivo per cui i nostri antenati provarono così tanto imbarazzo ad ammettere la continuità tra uomo e animale prospettata da Darwin. Con questa aggravante: che mentre non ha senso dire che un animale non umano è un imbecille, ha molto senso dirlo di un animale umano, cioè dell’animale non stabilizzato, pieno di bisogni, indifeso, e dunque bisognoso di tecnica (imbecille deriva da in-baculum, privo di bastone).
È la tecnica, dunque, a fare di noi uomini degli imbecilli?
No, la tecnica rivela l’uomo per quello che è. E, contemporaneamente, lo porta a sviluppare sogni titanici, per esempio quello di essere costruttori della realtà, o paranoici, per esempio quelli secondo cui la realtà è costruita da entità malvage (il Kapitale, l’Europa, la Massoneria) che ci ostacolano e tormentano.
Il progresso tecnico offre la stessa possibilità di esprimersi anche all’intelligenza?
Direi che l’imbecillità (e anzitutto il sospetto di essere imbecilli) è un grande stimolo per l’intelligenza. Anzi, credo che l’intelligenza, in senso proprio, non sia che la fuga senza fine che ognuno di noi compie nei confronti della propria e altrui imbecillità. Una fuga non sempre coronata da successo.
Rousseau, Nietzsche, Heidegger: stila un elenco sorprendente di intelligenze colpite dall'imbecillità. Ritiene più pericolosa l'imbecillità dei colti o quella di massa?L’imbecillità d’élite è meno pericolosa. Che Heidegger fosse nazista può apparire spiacevole o persino ridicolo, quando cerca di far quadrare in un unico disegno Hitler e Platone. Ma il vero pericolo sono stati i milioni di tedeschi che, attraverso un voto democratico, hanno portato al potere Hitler.
C’è un lato positivo nella stupidità?
Esserne consapevoli, per allontanarsene il più possibile attraverso la cultura.
Ma non è imbecille – a sua volta – avere tale fiducia nelle capacità dell’essere umano?
Se non si dà fiducia all’essere umano e alla sua possibilità di progresso, di miglioramento, di emancipazione, allora più nulla vale, e, per esempio, il tempo che impiego a rispondere alle sue domande è tempo buttato. Magari è anche vero, ma preferisco credere che non sia così.
È la democrazia il sistema politico che meglio riesce a rappresentare l'imbecillità umana?
Sì, la democrazia dà spazio all’umano più che ogni altro sistema politico, dunque è la grande arena dell’imbecillità. Ma non ha senso cercare di tornare indietro, nessuno di noi accetterebbe più di essere governato da un despota, sia pure illuminato e intelligentissimo. Non resta che proiettarsi in avanti, e fare il possibile affinché l’umanità nel suo insieme progredisca, ossia, per l’appunto, si allontani quanto più possibile dall'imbecillità.
Di che tipo d'imbecillità soffre la politica italiana?
Se mi mettessi a pontificare anche su questo non pensa che farei la figura dell’imbecille?

giovedì 3 novembre 2016

Sistema infallibile. "So chi vincerà le elezioni". Il pronostico-atomico

da "liberoquotidiano.it" del 1 Novembre 2016

IL METODO DEL PROF. LICHTMAN
Non ha sbagliato un colpo dalle elezioni presidenziali del 1984. Negli Stati Uniti è una sorta di autorità delle profezie il prof. Allan Lichtman, 69 anni, docente di storia alla American University di Washington. E anche stavolta il suo pronostico ha fatto tremare mezza politica a stelle e strisce: "Vincerà Donald Trump" è stato il suo verdetto.
Il sistema del prof. Lichtman, riporta il Corriere della sera, si basa su 13 domande vero/falso sviluppato dopo un approfondito studio delle elezioni americane dal 1860 a oggi. Il metodo finora infallibile si basa sulla certezza che le elezioni siano condizionate innanzitutto dalla valutazione dell'operato del partito in carica. Prende poi in considerazione la situazione economica, le riforme, l'instabilità sociale ed eventuali scandali.