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domenica 30 maggio 2021

Brunetta: “Siamo alla vigilia di un boom. Con le nostre riforme una rivoluzione gentile”

di Francesco Bei (ansa) Intervista al ministro della Pubblica amministrazione. "Il Pnrr è un contratto tra noi e l’Europa. Gli altri Stati fanno debiti per aiutarci e noi ci impegniamo a fare ciò che serve" 29 MAGGIO 2021 ROMA - «Ho la sensazione, anzi è più che una sensazione, che siamo alla vigilia di un nuovo boom economico. Il rimbalzo, come tasso di crescita del Pil, sarà più vicino al 5 che al 4% previsto. E forse persino qualcosa più del 5% . Il nostro compito, come governo ma vorrei dire come Paese, è allora quello di non sprecare questa occasione unica e irripetibile, accompagnandola con le riforme». C’è la firma di Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, nell’ultimo decreto Semplificazioni. Quello che, come si dice ora, dovrà “mettere a terra” le opere previste nel Pnrr. E la prossima settimana sempre Brunetta firmerà un altro decreto, sul reclutamento nella Pa, per assumere quelle centinaia di tecnici e specialisti che dovranno poi attuare il piano. Il boom che prevede non è frutto del Pnrr, dato che ancora non si è visto un euro. Da cosa dipende? «Anzitutto dal clima che si sta creando. Il Pnrr ancora non c’è, i primi 25 miliardi dovrebbero arrivare tra agosto e settembre, ma ci sono già stati il Next Generation Ue, il momento Hamilton dell’Europa, con la decisione storica di fare debito comune, e ovviamente l’effetto Draghi, con un governo di unità nazionale guidato dalla personalità più credibile che l’Italia potesse mettere in campo. Tutto questo, insieme al successo del piano vaccinale del generale Figliuolo, sta producendo un clima molto, molto positivo. Stiamo vedendo all’opera gli “spiriti animali” della nostra Italia». In fondo il Pnrr l’aveva scritto il governo Conte, cosa avete fatto di diverso? «Chi ci ha preceduto aveva previsto un piano con circa 200 miliardi di solo finanziamento europeo da spendere e una sola pagina di riforme. Noi abbiamo portato quei miliardi a 235, aggiungendovi più di 30 miliardi di risorse nazionali, ma le pagine di riforme sono quaranta». Il Pnrr per lei cos’è? Il solito libro dei sogni o stavolta c’è la possibilità di realizzare le riforme che l’Italia aspetta da trent’anni? «Molto semplice. Il Pnrr non è altro che un contratto che l’Italia stipula con tutti gli altri Stati europei che accettano di indebitarsi sui mercati per darci, a condizioni vantaggiose, i soldi che ci servono. Tanti soldi, sia a fondo perduto sia come prestiti. A un’unica condizione: che facciamo le riforme nei tempi giusti, fornendo puntualmente i Sal, gli stati di avanzamento dei lavori». Abbiamo sempre messo un sacco di soldi su investimenti che sono poi rimasti sulla carta, perché stavolta dovremmo farcela? «È vero, il nostro punto debole è sempre stata la macchina pubblica. La nostra manifattura privata funziona, anzi è leader in Europa. Per dirla con Nenni, quella che manca è la stanza dei bottoni. Adesso, anche se ti impegni a triplicare gli investimenti, tutti sanno che non ce la farai a spenderli». Tutto risolto con il decreto semplificazioni? «È un trittico di interventi: governance del Pnrr, semplificazioni e reclutamento della nuova Pa con concorsi veloci, digitali e trasparenti con al centro il merito. Per tornare alla metafora di Nenni, non c’è solo da mettere i bottoni nella stanza del governo, ma bisogna anche connettere i fili. Altrimenti tu premi il tasto ma non accade nulla. Adesso è un caos, non solo non sappiamo se un investimento è fermo, non riusciamo neppure a capire perché si è fermato. In questa anarchia proliferano le lobby. E l’Italia muore». Dicono che Draghi stia accumulando troppo potere. La regia non è troppo verticale? «Troppo potere? Semmai troppo poco! La verticalizzazione delle decisioni è un fatto di democrazia, è un principio fondamentale di trasparenza sapere chi c’è dentro la stanza dei bottoni, ovviamente con il Parlamento che controlla. Stiamo connettendo un’Italia colpevolmente disconnessa, dove ci sono centinaia di gruppi di interesse che da questa disconnessione hanno alimentato le loro rendite di posizione. Con la verticalizzazione delle decisioni non ci saranno più in agguato i Ghino di Tacco che bloccano tutto». E quali sono questi fili che state connettendo? «Abbiamo previsto il silenzio assenso generalizzato e i poteri sostitutivi. Se qualcuno non fa quello che ci si aspetta interviene il governo al posto del dirigente inerte. È una rivoluzione gentile, ma ferma». Quel dirigente che fine fa? «Nel decreto che approviamo la prossima settimana prevediamo un “Piano unico” che consentirà anche di monitorare in maniera più efficace la performance dei funzionari, con inevitabili sanzioni. Ma la cosa importante è questa: una volta che la decisione è stata presa, non può essere più fermata». Non vede un pericolo? Dopotutto siamo il Paese degli scempi edilizi. Dovrebbe essere sempre possibile esprimere un dissenso rispetto a una grande opera che impatta su una comunità. Sarà solo deregulation? «Le rigiro la domanda. Tutti gli scempi sono stati forse evitati dagli eccessi di autorizzazioni e dai controlli plurimi che ci sono ora? O non sarà piuttosto che gli ecomostri e l’abusivismo edilizio hanno potuto proliferare proprio grazie alla mancanza di trasparenza e alla troppa burocrazia che ha paralizzato lo Stato? Noi non togliamo una virgola ai controlli, ma riduciamo i tempi e diamo certezze agli operatori». Conte è stato crocifisso perché voleva assumere 300 tecnici per il Pnrr, voi ne assumete 350. È così? «Solo 350? No, saranno migliaia. Dobbiamo spendere oltre 230 miliardi in soli cinque anni, come pensa che si possa fare? Abbiamo trovato compagini ministeriali che, a livello tecnico e di funzionari, sono state desertificate da anni di blocco del turn over. Se vogliamo far ripartire il Paese dobbiamo ricominciare a fare assunzioni. Quelle temporanee, finalizzate al Piano nazionale, e quelle per rivitalizzare strutturalmente i ruoli dell’Amministrazione. Perché puoi anche assumere a tempo un super ingegnere, scegliendo il meglio sul mercato, ma poi ti serve anche il tecnico di qualità del comune che ci sappia interloquire alla pari». Siamo messi così male? «No, non siamo per fortuna all’anno zero. Anzi, le anticipo una cosa. In questo Paese siamo pieni di esempi di successo nel pubblico. Con il ministro Colao vorremmo fare subito una cosa, un’operazione “quick win”, una vittoria facile e veloce. Per citare la rivoluzione cinese, prenderemo i cento fiori, le cento esperienze di di successo che abbiamo trovato e le faremo diventare casi esemplari per tutto il Paese. Se una cosa funziona in Lombardia o in Puglia, perché non farla funzionare anche in tutte le altre regioni?». Nelle ultime settimane si sono messi in moto profondi cambiamenti politici. Tutti i partiti sono scossi dall’esperienza della partecipazione al governo Draghi. Un elettore del 2023 cosa troverà sulla scheda elettorale? «Se il governo Draghi avrà successo, come credo, nulla sarà come prima. Sia il centrodestra che il centrosinistra dovranno cambiare pelle. Al banchetto dell’ipocrisia hanno partecipato tutti, tutti hanno coperto i loro opportunismi con le ideologie e i conservatorismi. Tutti, anche i corpi intermedi». Vede il sovranismo al tramonto? «Penso proprio di sì. Io all’europeismo di Salvini ci credo. All’epoca suggerii alla Lega di votare Von der Leyen, ma Salvini fece una scelta diversa. Stavolta il suo sì all’Europa mi sembra irreversibile. Ma i sommovimenti sono repentini e trasversali, se la sarebbe mai immaginata la lettera garantista di Di Maio sul caso Uggetti? È la bellezza eversiva di questo momento, può accadere di tutto. È il momento Italia».

sabato 29 maggio 2021

Addio alla marca da bollo: ecco quando

Il nuovo ilGiornale.it Addio alla marca da bollo: ecco quando 29 Maggio 2021 - 11:04 La marca da bollo sui certificati anagrafici digitali sarà abolito. Ecco tutte le novità: che cosa cambia Addio alla marca da bollo se si richiedono i certificati digitali. È questa una delle novità più importanti del decreto Semplificazioni 2021 che ieri ha ottenuto il via libera del Consiglio dei ministri. Il provvedimento, costituito di 68 articoli, contiene anche le norme sul sistema di coordinamento, gestione, attuazione, monitoraggio e controllo del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’approvazione era una delle condizioni poste dall’Ue per lo sblocco dei finanziamenti all’Italia. La marca da bollo sui certificati anagrafici digitali, dallo stato di famiglia al certificato di nascita o di residenza, quindi sarà abolito. Per tutti gli atti scaricati attraverso l’Anagrafe tributaria della popolazione residente non si pagheranno più imposte come il bollo da 16 euro o i diritti di segreteria. Nel testo del decreto si precisa che i certificati digitali saranno «in ogni caso, senza oneri per il richiedente». Inoltre arriva la delega per l’accesso a Spid, l’identità digitale dei cittadini, da parte di chi ha difficoltà con le nuove tecnologie. Qualche euro di risparmio per coloro che necessitano di tali documenti. L’apposizione della marca da bollo è lo strumento attraverso il quale il soggetto che ne è obbligato assolve al pagamento dell’imposta di bollo e sostituisce l’applicazione dell’Iva, nel caso in cui quest’ultima non sia esigibile. È un contrassegno simile ad un francobollo che può essere applicato su ricevute, quietanze e fatture al fine di assolvere all’obbligo di pagamento dell’imposta di bollo. L’onere di pagare tale imposta dipende dall’importo del documento contabile e dall’assoggettamento o meno dell’operazione effettuata al pagamento dell’Iva. La marca da bollo può avere un valore economico differente a seconda dell’ammontare dell’imposta di bollo che deve essere pagata. Per quanto riguarda le ricevute e le fatture, essa deve avere un valore economico di 2 euro. Facile il modo di acquistare una marca da bollo:basta recarsi presso un venditore di valori bollati oppure pagarla in maniera telematica. Con riferimento alle fatture elettroniche, l’imposta di bollo deve essere assolta tramite versamento della relativa somma con modello F24. Sulle fatture o sulle ricevute fiscali la marca da bollo deve essere apposta da parte del soggetto che emette il documento fiscale stesso nel momento in cui la fattura o la ricevuta viene spedita o consegnata al cliente. Attenzione, però. Perché non è sempre necessario apporre la marca da bollo da 2 euro su fatture, ricevute o quietanze. La legge stabilisce che tale onere deve essere assolto solo se l’importo del documento è superiore a euro 77,47 e non viene addebitata l’Iva.

Forza Italia e il naufragio della zattera berlusconiana: se la monarchia aziendale fa bancarotta

di Filippo Ceccarelli La Zattera della medusa di Théodore Géricoult Dietro le odierne vicissitudini di Fi e il provvisorio lancio di Coraggio Italia c'è una triste vicenda, personale e pubblica, che si è ripetuta infinite volte nella storia del potere 28 MAGGIO 2021 2 MINUTI DI LETTURA Si salvi chi può. La dissoluzione delle forze politiche della cosiddetta Seconda Repubblica è uno spettacolo abbastanza indecoroso, quanto può esserlo la Zattera della Medusa nella celebre pittura di Géricault, però anche parecchio istruttivo. Per tenerla alta: ciò che sta accadendo in questi giorni a Forza Italia dimostra come, a un certo punto, la monarchia carismatica aziendale fa bancarotta, o tilt, o crack, o crash, o game over. Si può aggiungere che quando si dice che la democrazia è il meno peggio dei sistemi si intende che senza - senza statuto, senza congressi, senza voti, senza ricambio - il disastro non solo è pressoché inevitabile, ma si accompagna al più sgangherato fuggi fuggi. In un tempo lontano e comunque in un modo che più distratto e sbrigativo non poteva essere, Silvio Berlusconi venne acclamato presidente "a vita", come dire un re. Adesso il sovrano è molto malato. Il tema è drammaturgico per eccellenza, ma nella pratica lui un giorno c'è, un giorno non c'è e intanto tutti - nelle famiglie, nelle aziende, in Parlamento, all'interno delle tribù periferiche, nel cerchio magico di turno e anche nei partiti alleati - insomma tutti pensano al "dopo" e intanto si danno da fare per oggi pomeriggio e domani mattina, altroché. Il potere è sempre una roba piuttosto crudele, specie nel momento in cui mostra l'inevitabilità del tradimento; ma in Italia quest'ultimo offre spesso un tratto vistoso, buffo e straniante, nel senso anche di sfrontatello, per cui l'altro giorno i naufraghi berlusconiani, riunitisi nello studio di un notaio, hanno battezzato la loro nuova creatura "Coraggio Italia". Più del programma, sarà interessante leggere l'immancabile Carta dei Valori dei "coraggiosi", che nel fantastico post-politichese vanno ad aggiungersi ai non dimenticati "responsabili" di Antonio Razzi e Domenico Scilipoti. Tra i padri fondatori c'è quel Giovanni Toti scelto nel vivaio Mediaset e imposto come leader politico in pochi giorni non s'è mai capito bene per quale ragione e su indicazione di chi. Il grande pubblico lo avvistò nel gennaio 2014, al momento della plateale investitura, in candide vesti al fianco di Berlusconi sul balcone della Beauty farm "Paradiso". Però poi si è saputo muovere benino, pure troppo, meglio o peggio di tanti e tante. Del resto qualche anno prima un'altra coraggiosa, Michaela Biancofiore, si distinse per aver portato in radio il suo cagnolino, Puggy, che accompagnò con spontanei guaiti l'esecuzione di "Meno male che Silvio c'è". Ma attenzione. In tali faccende Berlusconi è mai stato uno sprovveduto. Prova ne sia la battuta (2012): "Per trovare qualcuno fedele ho dovuto comprare un cane". Per poi compiacersene qualche tempo dopo: "Tutto quello che tocco diventa famoso, guardate Dudù e Toti" (che non dovette esserne così contento). In realtà, si può dire che Re Silvio, come da schema ancien règime, ha passato un quarto di secolo a creare, promettere, illudere e scartare una nutritissima serie di potenziali "successori". Angelo Codignoni, Domenico Mennitti, CesarePreviti, Claudio Scajola, Sandro Bondi e altri di cui si è quasi perso il ricordo tipo Antonione. A un certo punto parve incapricciarsi per una donna, così misteriosa che tutte cominciarono a guardarsi male. Quindi partì l'opzione dinastica, Barbara, Marina; poi ci fu la mezza tentazione di Verdini e la pensatona del povero Alfano, però quasi subito dichiarato manchevole di carismatico quid; e in tal modo si arriva a Toti, punto terminale di un sistema di selezione ormai stabilmente cortigiano, nel senso che tra Palazzo Grazioli e villa San Martino si entrava nelle grazie e si cadeva in disgrazia secondo i parametri di un vorticoso e impietoso usa e getta. Il caso di Tajani può ritenersi fuori tempo massimo. Come ovvio, nessuno dei prescelti osò mai dire - alcuni forse neppure lo pensarono - che Berlusconi si comportava in quel modo per abitudine, smania, noia, capriccio, o per sentirsi vivo. Dietro le odierne vicissitudini di Forza Italia e il provvisorio lancio di Coraggio Italia c'è dunque una triste vicenda - personale, per quanto anche pubblica - che si è ripetuta infinite volte nella storia del potere. Non si dirà che tutto questo fa abbastanza pena, ma solo perché c'è gente che sta molto peggio.

Scissioni M5S, la galassia delle sigle post Movimento: 15 partiti (fallimentari) in 8 anni

di Matteo Pucciarelli Nella sua breve storia il Movimento stabilisce il record del più alto numero di soggetti politici nati in seguito a scismi. L'ultima in ordine di arrivo è la nuova formazione di Morra e Lezzi 25 MAGGIO 2021 Il nuovo "soggetto politico" che a breve verrà lanciato dagli ex 5 Stelle capitanati da Nicola Morra e Barbara Lezzi (anche se "non ci saranno cani pastore", promette lui) sarà l'ultimo di una lunga serie. Nella pur relativamente breve storia del M5S, infatti, le scissioni con annesse fondazioni di "soggetti politici" - partiti, liste elettorali, movimenti, gruppi parlamentari - sono state così numerose che in confronto i ritmi di proliferazione di sigle ex Dc o post-comuniste sono roba da dilettanti. Il primissimo che tentò di sgretolare il monolite di Beppe Grillo, all'epoca formazione extraparlamentare in ascesa, fu Valentino Tavolazzi. Originario di Ferrara, attivista degli albori poi cacciato dal comico perché voleva strutturare il M5S - a conti fatti aveva visto giusto, ma allora però anche solo pensarlo era suprema eresia - assieme ad altri ad inizio 2013 fondò Democrazia in movimento, contro la "deriva verticistica" del fondatore e per attuare davvero la democrazia diretta. Non fu esperimento di successo. E questa è la cosa che accomuna questi esperimenti: falliscono tutti. Extra ecclesiam nulla salus, per ora, vale anche per i 5 Stelle. Le piccole chiese scismatiche denunciano di volta in volta le contraddizioni, i limiti, i repentini cambiamenti di linea, i cedimenti al sistema. Ogni volta la denuncia si accompagna a una bella dose di sdegno, come se la scoperta fosse recente e opera degli stessi neo-dissociati. Ma non per questo elettori ed attivisti delusi virano sui nuovi custodi dell'ortodossia, che poi spesso erano i più accesi fustigatori dei dubbiosi del Movimento quando però i dubbiosi e gli scontenti erano gli altri. Un altro emiliano della prima ora, cacciato pure lui con ignominia, cioè Federico Pizzarotti, è l'unico riuscito a metà a non finire in un cono d'ombra: si ricandidò sindaco di Parma senza l'appoggio del M5S e fu comunque rieletto, ma l'esperienza di Italia in Comune (alle Politiche del 2018 andò col centrosinistra) è finita in un binario morto: zero eletti, proprio quando invece il Movimento fece registrare il suo record storico. Che dire invece di Alternativa Libera? Il M5S era entrato in Parlamento da poco meno di due anni, il famoso principio dell'"uno vale uno" veniva predicato bene e razzolato male, le espulsioni erano spesso arbitrarie e allora una decina di eletti quindi mollarono coordinati, tra loro c'era Massimo Artini, deputato fiorentino e informatico che lavorava ad una piattaforma online davvero senza padroni. Anche in quel caso finì in una bolla di sapone, casi personali a parte, vedi ad esempio Walter Rizzetto, transitato poi in Fratelli d'Italia e riuscito a farsi rieleggere tre anni fa. Anche i nomi dati alle nuove formazioni meritano un capitolo a parte. Sempre prima legislatura, i Gap, che ricordavano la gloriosa formazione partigiana, stava invece per Gruppi di azione popolari; un animatore era Adriano Zaccagnini, poi passato in Sel, poi sostenne il governo Renzi, poi aderì a Mdp, poi a Campo progressista, nel 2018 disse di sostenere Potere al popolo e alla fine ha bazzicato le sardine. Dopo i Gap, un burocratico e senza slanci Italia Lavori in Corso e un criptico Movimento X. In questa legislatura: un codicistico R2020 (sta per Resistenza, sono gli antivaccinisti di Sara Cunial e Davide Barillari) un classicissimo Centro-popolari italiani (Emilio Carelli), un anglofono Italexit (Gianluigi Paragone, irriducibile no euro), un ambientalista Eco (l'ex ministro Lorenzo Fioramonti), oltre a un ritorno a echi passati con L'Alternativa c'è, i contrari al governo Draghi di Pino Cabras. Dopodiché vanno aggiunte le scissioni sui territori. Marika Cassimatis nel 2017 vinse le 'comunarie' a Genova ma non piaceva a Grillo e soprattutto alla sua fedelissima e plenipotenziaria in Liguria Alice Salvatore, quindi clamorosamente annullò quel voto online: Cassimatis andò alle elezioni da sola, prima alle comunali e poi alle regionali di due anni dopo, raccogliendo cifre da prefisso telefonico (1,08 per cento e poi 0,18 per cento). Ma pure la stessa Salvatore alla fine epurò se stessa e corse di nuovo da presidente per le regionali in Liguria, con la lista Buonsenso: 0,89 per cento. In Piemonte invece la no Tav Francesca Frediani e il collega consigliere regionale Giorgio Bertola hanno formato il Movimento 4 Ottobre, in onore del giorno di fondazione dei 5 Stelle. Sicuramente il dopo Draghi sembra il momento più complicato della storia del M5S. Gli addii stavolta sono di prim'ordine - vedi Alessandro Di Battista - e oltretutto c'è la piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio che, da architrave, si sta trasformando in concorrente del Movimento. Ma il motto latino resta comunque lì a far da monito, fuori dalla casa madre il rischio di dissolvenza è altissimo.

venerdì 28 maggio 2021

Massimo D’Alema: «Io, l’antipatico d’Italia. Forse è stata colpa mia»

7 Sette Corriere della Sera SU 7 - L’INTERVISTA Massimo D’Alema: «Io, l’antipatico d’Italia. Forse è stata colpa mia» Il comunismo, la presidenza del Consiglio, le scarpe costose («me le avevano regalate, un cane le ha morsicate e mi sono arrabbiato»), la barca e poi i vigneti. Adesso la polemica su quei 5.000 euro netti al mese pagati dalla Fondazione: «In 50 anni di politica ho provato tanti dispiaceri» di Tommaso Labate Massimo D'Alema: «Io, l'antipatico d'Italia. Forse è stata colpa mia»Massimo D’Alema, 72 anni, nella sua azienda La Madeleine, a Narni (Terni), che si estende su 7 ettari, con vitigni di Cabernet francese e di Pinot nero (foto Agf)shadow Questa intervista di Tommaso Labate a Massimo D’Alema sarà pubblicata nel numero 22 di «7», con il quale il magazine del Corriere della Sera si presenta in edicola — venerdì 28 maggio — in una veste grafica totalmente rinnovata e con nuove inchieste, servizi e rubriche (cliccando qui potete leggere l’editoriale di Barbara Stefanelli). La anticipiamo per i lettori di Corriere.it, dandovi appuntamento per scoprire il nuovo 7 in edicola domani. Buona lettura «Forse è stata colpa mia», dice a un certo punto Massimo D’Alema quando l’intervista arriva al tasto più dolente, e cioè a quella grande distanza tra il come D’Alema dice di essere e il come lo vedono gli altri, tra l’immagine riflessa allo specchio e quel gigantesco percepito di una parte dell’opinione pubblica che in mille momenti del suo mezzo secolo in politica – presidente della Federazione dei Giovani Comunisti, direttore dell’Unità, segretario e poi presidente dei Democratici di Sinistra, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri – l’ha messo su un banco degli imputati o chiamato in correità. Le ultime, di chiamate in correità, arrivano a riguardare persino presunti interessi in traffici di ventilatori cinesi durante pandemia («Ho tutto documentato, legga qui: i ventilatori funzionavano e il nostro governo li ha pagati anche poco») e la retribuzione da presidente della Fondazione dei socialisti europei («Sono vittima di un attacco meschino»). Scompare anche il «forse» della prima frase, quando l’intervista è finita. «È stata colpa mia. O anche mia. Non mi sono mai preoccupato troppo della mia popolarità e in questo ho sbagliato. L’aver lasciato che venisse veicolata un’immagine così sbagliata della mia persona, arricchita spesso da menzogne, è stata una colpa. Snobismo, noncuranza, in certi casi sottovalutazione. Sono colpe». Non ci si arriva subito, a quest’ammissione. La prima chiave che scardina la barriera che D’Alema mette tra sé e il taccuino del giornalista è José Mourinho. Il prossimo allenatore della sua squadra del cuore. «SONO CONTENTO CHE MOURINHO VENGA ALLA ROMA: SERVONO UN CARATTERE FORTE E UNA PERSONALITÀ SPICCATA. I COMBATTENTI POSSONO VINCERE E PERDERE, GLI IGNAVI NO» È felice dell’arrivo di Mourinho? «Sono contento. Per due ragioni. La prima è che per un ambiente come quello della Roma servono un carattere forte e una personalità spiccata. Mourinho le ha entrambe. Come le avevano, in modo diverso, anche Nils Liedholm e Fabio Capello, che infatti hanno vinto lo scudetto. La seconda è che questa proprietà americana (i Friedkin, ndr) ha dimostrato di voler puntare in alto. Non era scontato». Di Mourinho i detrattori dicono le stesse cose che i suoi detrattori dicono di lei. La prima: è antipatico. «Capita a volte che siano i “fresconi” a definire antipatici quelli più intelligenti». La seconda: è una vecchia gloria che da un certo punto in poi ha collezionato solo sconfitte. «I combattenti possono vincere o perdere. Solo gli ignavi non perdono mai». (continua a leggere dopo le foto) D’Alema giovanissimo nel 1972, al Palazzo dello Sport di Roma. E qui sotto, in campo con Veltroni, che indossa la maglia blu (foto Gentile e Palma/A3/Contrasto)D’Alema giovanissimo nel 1972, al Palazzo dello Sport di Roma. E qui sotto, in campo con Veltroni, che indossa la maglia blu (foto Gentile e Palma/A3/Contrasto) Massimo D’Alema: «Io, l’antipatico d’Italia. Forse è stata colpa mia» La storia di questi cinquemila euro netti al mese per un lavoro in esclusiva che svolgeva da presidente della Fondazione dei socialisti europei, contestati dall’attuale vertice, l’ha fatta imbufalire. «Si sbaglia. Non sono arrabbiato. Sono dispiaciuto e amareggiato da questa iniziativa folle. La meschinità umana non provoca arrabbiature. Provoca amarezza e dispiaceri. Sa, le ho provate tante volte queste sensazioni. Faccio politica da cinquant’anni: se anche solo il dieci percento delle accuse che mi hanno rivolto si fosse rivelato fondato, a quest’ora sarei all’ergastolo. Secondo una vecchia barzelletta che si raccontava in Unione Sovietica, uno che non ha fatto nulla merita una pena di massimo cinque anni. A me è andata anche meglio che al tipo della barzelletta: non solo sono incensurato ma ho anche vinto tantissime cause per diffamazione». Guardandosi indietro, qual è stata la scelta che le ha messo più paura? «La guerra». L’intervento in Kosovo? «Sì, scelta fatta da presidente del Consiglio. L’ho vissuta con grande angoscia, anche personale. Di quelle angosce che ti impediscono di prendere sonno la notte. Sono stato pieno di dubbi, fino al giorno prima». Si è mai pentito? «Dopo? Mai. Quella guerra pose fine a dieci anni di guerra civile nella ex Jugoslavia, fu la pietra su un genocidio, su atrocità indicibili. Quella guerra fu la fine di una guerra, non l’inizio». «MI CAPITA DI PIANGERE, NON SAPREI DIRE QUANTE VOLTE IN QUESTI ANNI. MA NON VORREI CHE NESSUNO AVESSE L’IDEA CHE LO FACCIO PIÙ VOLTE DI QUANTO ACCADE REALMENTE» Si è mai chiesto il perché della sua antipatia, diciamo così, percepita? «Diciamo che ci ho messo del mio. Di fronte a una battuta sarcastica non ho mai resistito. E la gente non ama particolarmente l’essere oggetto di battute. Va anche precisato che tanti di quelli che pensavano fossi antipatico, conoscendomi personalmente, hanno poi cambiato idea. Non tutti. Ma tanti». Le capita di piangere? «Sì. Non spesso. Però mi capita. Ora non saprei quantificarle il numero di volte che è successo negli ultimi anni ma è capitato. Con l’avanzare dell’età succede più di frequente. Ma questo credo che lei possa immaginarlo, è abbastanza comune». Certo che sì. «Forse però ho sbagliato a dirlo. Non vorrei che si facesse l’idea che piango più volte di quelle che in realtà piango davvero». (continua a leggere dopo le foto) Massimo D’Alema con Silvio Berlusconi nel 2000. Sotto, con la moglie Linda Giuva, che stringe la mano a Hillary Clinton, nel 2001 (foto Antonio Scattolon/Contrasto)Massimo D’Alema con Silvio Berlusconi nel 2000. Sotto, con la moglie Linda Giuva, che stringe la mano a Hillary Clinton, nel 2001 (foto Antonio Scattolon/Contrasto) Massimo D’Alema: «Io, l’antipatico d’Italia. Forse è stata colpa mia» Ci sono politici che non trattengono le lacrime. Se lo ricorda Berlusconi di fronte ai profughi albanesi, no? «Le racconto questa cosa. Alla fine degli Anni Novanta, c’erano due bambine che erano state rapite dal loro padre naturale, portate a Tripoli e poi sottratte di nuovo alle loro mamme, che avevano avviato una disperata e coraggiosa campagna per riaverle. Le due donne avevano ottenuto l’affidamento ma non avevano il permesso per tornare in Italia. Una storia drammatica». E poi? «Durante una visita di Stato in Libia chiedo a Gheddafi di liberarle e di consentire che tornassero con me. Può immaginare quanti miei colleghi sarebbero scesi dalla scaletta dell’aereo tenendo per mano le due bambine di fronte a fotografi e telecamere. Sono quelli che normalmente i giornali considerano simpatici». E invece che cosa successe? «Una delle due donne però non voleva essere ripresa: feci atterrare l’aereo a un lato della pista e arrivare una macchina con i vetri oscurati che prelevò le donne e le figlie senza che venissero viste dai fotografi. Io scesi da solo. È sempre stata una questione di pudore. Pudore per i miei sentimenti, certo; ma anche per quelli degli altri. Mi sono preoccupato più di questo che non della mia popolarità». D’Alema a passeggio con i suoi due cani, Lulù e Penelope (foto Scattolon/Contrasto)D’Alema a passeggio con i suoi due cani, Lulù e Penelope (foto Scattolon/Contrasto) Per le bambine liberate non la ricorda nessuno. Per le scarpe fatte a mano che valevano milioni di lire sì. «Guardi queste scarpe (D’Alema mostra le scarpe con un marchio molto visibile, ndr). Questo è il tipo di scarpe che uso, belle comode. Costeranno, che ne so, centocinquanta/duecento euro? Mia figlia lavora presso l’azienda che le produce, le ho prese col suo sconto dipendenti ». La storia di quelle artigianali che indossava negli Anni Novanta le è rimasta appiccicata come un chewing-gum. Le gente se la ricorda ancora. L’ex comunista con le scarpe fatte a mano. «Me le aveva regalate un artigiano calabrese, di tasca mia non le avrei mai comprate. Una sera vado a cena a casa di Alfredo Reichlin e il suo cane, decisamente malmostoso, le mordeva. Dissi ad alta voce a Reichlin di richiamare all’ordine il cane perché stava mordendo scarpe “che costano un sacco di soldi”. E qualcuno dei presenti lo raccontò ai giornalisti. La mia, però, non era la vanteria di quello che spende tantissimi soldi in scarpe artigianali. Era semmai il grido di dolore di un poveraccio, che di fronte a quel cane correva il rischio di rovinare l’unico paio di scarpe di valore che possedeva. Che poi fu l’esatto contrario di come venne percepita la faccenda». Le rinfacciano di aver accusato Bettino Craxi di essersi arricchito con la politica. «Frase mai detta e mai pensata. Quando Craxi ricevette il primo avviso di garanzia fui l’unico suo avversario a rispondere, a precisa domanda di un giornalista, che non si doveva dimettere per quello. L’ho combattuto politicamente ma non ho mai partecipato al linciaggio moralistico-giudiziario. E le garantisco che, nel 1993, non era un pensiero che andava molto di moda». Le capita di sentire Berlusconi? «Mai. L’ultima volta è stato nel 2015, prima dell’elezione del presidente della Repubblica. Mi chiese se pensassi che quella di Giuliano Amato era una buona scelta e io risposi che lo era». «AVER ACCETTATO DI FARE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DOPO CHE BERTINOTTI AVEVA FATTO CADERE IL GOVERNO PRODI È STATO UN ERRORE. NON SO SE PER IL PAESE, PER ME SÌ» Vi date del tu? «No, del lei. Ma lui mi chiama col nome di battesimo. Tipo “guardi, Massimo”. Nel Pci succedeva il contrario. Ci si dava del tu ma chiamandosi per cognome». Ci racconti un “guardi, Massimo” riservato. «Nel 2006 fui il primo candidato al Quirinale del centrosinistra. Berlusconi mi telefonò per dirmi che Forza Italia non poteva sostenermi perché per il loro elettorato ero considerato l’avversario numero uno. Gli chiesi scherzando di ripeterlo in pubblico, visto che per una certa stampa ero l’uomo dell’inciucio. Fu molto cortese. Dopo aver parlato con lui, chiamai Fassino e decidemmo di convincere Giorgio Napolitano a candidarsi ». La cosa che non rifarebbe? «La prima che mi viene in mente è l’aver accettato di fare il presidente del Consiglio dopo che Bertinotti aveva fatto cadere il governo Prodi. A conti fatti fu un errore. Non so se per il Paese, per me personalmente sì. Io spingevo perché nascesse un governo Ciampi ma non c’erano le condizioni. Avrei dovuto insistere di più». Si è dimesso dopo aver perso le Regionali un anno e mezzo dopo. Un azzardo. «La sera di quelle elezioni sono andato a letto a mezzanotte, dopo i primi risultati Dissi a mia moglie “vado a dormire perché domani devo andare al Quirinale a dimettermi”. Dormii benissimo». D’Alema sulla sua barca a vela Ikarus durante una vacanza D’Alema sulla sua barca a vela Ikarus durante una vacanza Ha rinunciato alla barca a vela per produrre vino. Pentito? «Sono una persona tutto sommato normale, anche se guadagno bene. Quando voglio andare in barca, adesso, la affitto». Strano che di lei non si sappia nemmeno la musica che ascolta. «Soprattutto classica. Un’eredità di mio papà, che aveva studiato fagotto al Conservatorio. E poi certo, i cantautori italiani. Mia moglie in questi giorni è disperata per la morte di Franco Battiato, che piaceva anche a me. Con Dalla mi è capitato di avere anche lunghe conversazioni, persona di un’intelligenza raffinata, amico e ammiratore di Bettino Craxi. Ho sempre apprezzato tanto De Gregori, che ho frequentato per parecchio tempo, e pure Venditti. Ma il cantautore che ho sempre sentito più affine alla mia personalità l’ho visto dal vivo solo di sfuggita». Chi è? «Paolo Conte».

"Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino Churchill e la Thatcher"

POLITICA 28/05/2021 09:45 CEST "Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino Churchill e la Thatcher" Il politologo Campi sulle difficoltà del centrodestra a trovare candidati: “C’è un problema enorme di classe dirigente" By Pietro Salvatori “Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher”. Alessandro Campi insegna Storia delle dottrine politiche a Perugia, da sempre attento osservatore della destra. Di fronte alla difficoltà della coalizione Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia a esprimere candidature di livello nelle grandi città ha pochi dubbi: “C’è un problema enorme di classe dirigente: erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi”. Fatica il modello di reclutamento di nomi di sintesi pescati all’esterno: “I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire?”. E allora “non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla”. Il punto è che “se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica”. Professor Campi, partiamo dalle candidature a Roma e a Milano. Il centrodestra è partito da Bertolaso e Albertini, due punte di diamante di quell’area politica, ma di vent’anni fa. L’usato sicuro non funziona più nemmeno per l’acquisto di una vettura, figuriamoci nella politica divenuta ormai spettacolarizzata e prêt-à-porter. Oggi ti danno una vettura fiammante da pagare comodamente a rate e quando ti sei stancato puoi prenderne un’altra anch’essa nuova. E come i consumatori vogliono sempre nuovi modelli, così gli elettori vogliono anch’essi facce sempre nuove, salvo poi stancarsene rapidamente. La difficoltà è evidente. I nomi rispolverati dai partiti, penso a Roma, sono quelli di Gasparri e Storace, anche questi espressione di una destra che guarda a quello che era piuttosto a quel che dovrebbe diventare. Alla fine qualcuno o qualcuna bisogna pur candidare. E se non si trova nessun esterno, non restano che gli interni, spesso politici di lungo corso o vecchi marpioni sempre a galla. Ma meglio loro, alla fine, che lo sconosciuto della porta accanto: incompetente e magari anche disonesto. Che ne pensa dei cosiddetti civici? Racca a Milano, Michetti a Roma. Mi sembra si stia definitivamente sgonfiando il mito della società civile come riserva dei migliori e dei più competenti che si mettono al servizio della cosa pubblica per senso del dovere. Una stagione finita che ha come ultimo esponente Beppe Sala a Milano. I civici di cui si parla oggi sembrano le terze o quarte fila della società civile. Per carità, persone rispettabilissime, ma possibile che Milano e Roma non abbiano altro da offrire? La verità è che quelli che possiedono una posizione socialmente solida e un loro prestigio intrinseco di sporcarsi con questa politica non hanno nessuna voglia. La borghesia media e grande che riteneva quasi un onore, oltre che un dovere sociale, essere coinvolta direttamente nella guida della civitas oggi se ne sta a casa o in ufficio: osserva, critica e si fa gli affari propri. L’impegno pubblico-partitico lo lascia ai parvenu o a quelli che non hanno niente da perdere. Le faccio un’osservazione. Questo tipo di profilo civico è molto ricercato (anche se con insuccesso) da Pd e M5s, una coalizione in embrione, che ha bisogno ad oggi di piccoli papi stranieri per trovare una sintesi. Il centrodestra, pur con le stradi differenti prese con Draghi, non dovrebbe avere un bagaglio di storia e rapporti che dovrebbe rendere tutto più facile? In effetti anche il M5S e il Pd pare abbiano difficoltà a trovare figure di esterni che possano, nel loro caso, fare da collante di un’alleanza che stenta peraltro a nascere. A Napoli in realtà sembrerebbe fatto l’accordo sul nome dell’ex ministro Manfredi, ma ancora una volta alle condizioni non del Pd ma del M5s. Tra l’altro, diciamolo una volta per tutte: se si guarda fuori dai partiti non è per favorire la partecipazione o per aprirsi alle istanze dal basso (questa è fuffa retorica), ma perché ci si rende conto di non avere nelle proprie fila personalità spendibili o politicamente vincenti. Il mito della società civile è nato in Italia dal fallimento della politica. Veniamo al punto: c’è un problema di classe dirigente? Enorme. E parte dai livelli più bassi: la scuola nei suoi diversi gradi sino all’Università, che per definizione dovrebbe essere il luogo dove si formano i gruppi dirigenti di un Paese (e dove si inculca la consapevolezza di farne parte). Quanto alla politica, erano i partiti organizzati e di massa che selezionavano, all’interno dei propri ranghi, le figure da destinare a ruoli di rappresentanza e governo. Una volta c’erano anche le grandi aziende del parastato a funzionare da scuole quadri: penso all’Eni. Ma tutti questi meccanismi sono entrati in crisi. Oggi è rimasta, come palestra di formazione per i ruoli direttivi politico-amministrativi, l’alta burocrazia ministeriale. Ovvero la Banca d’Italia, che non a caso è la riserva alla quale negli ultimi vent’anni si è continuamente attinto per supplire il deficit di competenze della politica. Vediamo anche i volti nuovi che hanno acquisito un certo peso negli ultimi tempi. Un esempio su tutti: Massimiliano Fedriga, quarantenne, apprezzamenti bipartisan, fresco presidente della conferenza delle Regioni. Ma anche lui è cresciuto con la generazione di Bossi. Quelli bravi, per così dire, hanno sempre alle spalle una solida formazione politica in senso tradizionale. Gli altri vanno e vengono e spesso fanno solo danni. In questo vede differenze tra Fratelli d’Italia e Lega? Sono in modo diverso partiti all’antica: un capo, un gruppo dirigente, quadri e militanti, una discreta presenza sul territorio, una cultura politica di riferimento, linee di comando chiare. Anche il Pd ha quest’impostazione di massima: ma negli ultimi anni gli scontri interni tra cacicchi e capi-corrente lo hanno molto indebolito, come si vede nel rapporto tra centro e periferia. I suoi governatori sul territorio – Bonaccini, De Luca, Emiliano – vanno praticamente per conto proprio, rispondono solo a se stessi. Però Salvini e Meloni hanno due storie toste da questo punto di vista. Il primo s’è preso il Carroccio e l’ha trasformato in un partito nazionale tirandolo su dal 3/4% sul quale viaggiava. La seconda ha rotto con il centrodestra in cui è cresciuta fondando un partito che all’inizio in molti ritenevano residuale. La loro storia e i loro successi non dovrebbero aver insegnato qualcosa? Insegnano che il professionismo politico vince sul dilettantismo. Ma insegnano anche che oggi si sale facilmente nei consensi e altrettanto facilmente si scende. I trionfi elettori sono spesso effimeri o di breve durata, come ben sanno Renzi e appunto Salvini. La Meloni, a sua volta, è avvisata. C’è poi anche Forza Italia, che forse è un caso ancora diverso. Però anche lì il nuovo che avanza si fatica a vederlo. Forza Italia in questo momento è alle prese con lo spettro del dopo-Berlusconi. Lunga vita al Cavaliere, ovviamente, ma il partito-padronale è giunto alla fine della sua storia e chi si chiede giustamente se possa sopravvivere a chi l’ha fondato e mai ha voluto pensare ad un suo possibile successore. In Forza Italia c’è da aspettarsi un rompete le righe verso tutte le direzioni. A meno che non emerga un federatore sufficientemente forte e credibile in grado di salvare il salvabile di quell’esperienza. Se dovessi fare un nome, direi Mara Carfagna. Se si parte dall’era Berlusconi e si passa a Salvini e Meloni, i partiti di centrodestra hanno sempre una forte connotazione leaderistica. È il capo che comanda, decide incarichi e agenda, ma è anche il capo che sposta voti e crea opinione. Un’altra destra in Italia non è possibile? La mistica del capo è culturalmente e psicologicamente connaturata alla destra per ragioni storiche. Ma non ne farei un residuo del gerarchismo fascista duro a morire, come talvolta si pensa. Il leaderismo è la cifra di tutte le grandi democrazie contemporanee. Il problema è semmai come si esercita questo ruolo e come si arriva ai ruoli di vertice. Per chiamata dall’alto e per selezione dal basso? C’è poi un problema legato al linguaggio e ai programmi. Il rischio è di limitarsi alla propaganda e alla comunicazione tralasciando l’agenda politica in senso stretto, cioè le cose da fare e la cultura di governo. Sulla questione se un’altra destra è possibile, direi che conviene arrendersi all’evidenza: abbiamo a destra quel che l’Italia odierna riesce ad esprimere (ma lo stesso può dirsi della sinistra). Abbiamo Salvini e Meloni: non puoi sperare che diventino o siano Churchill e la Thatcher. In qualche modo ci aveva provato Fini, andò male. Malissimo, direi, anche a causa degli errori grossolani da lui stesso commessi: un eccesso d’indolenza e di politicismo, l’eccessiva personalizzazione dello scontro con Berlusconi, la brutta storia (comunque la si voglia giudicare) della casa di Montecarlo, ecc. Aggiungo che Fini non era un capo in grado di fare e disfare a proprio piacimento: all’interno di An la sua è sempre stata una leadership di compromesso. Era un classico primus inter pares, essendo questi ultimi i cosiddetti ‘colonnelli’ con cui egli ha sempre dovuto mediare e venire a patti. Quando ha provato a fare il leader sul serio, rompendo col Popolo delle Libertà e facendosi un suo partitino, non a caso lo hanno rimasto solo. Se ricorda il film, concluda lei la frase…. Questa tendenza di cui stiamo parlando è la stessa anche nel resto dell’Europa? La destra europea conservatrice – quel che ne restava – si è ovunque radicalizzata, nello stile e nel linguaggio, anche per contrastare la sfida ad essa portata dal nazionalismo populista. Guardiamo alla parabola dei repubblicani negli Stati Uniti, ai tories britannici, alla Francia dove la Le Pen si è sostanzialmente mangiata i gollisti, ecc. Ci sono invece modelli a cui guardare? La ricerca di modelli stranieri, oltre ad essere indice di provincialismo, non serve a nulla nella misura in cui non sono imitabili e replicabili. La politica nel mondo globalizzato è ancora nazionale quando alla sua ispirazione e ai fattori socio-culturali che la nutrono. In tempi recenti la destra italiana ha guardato al conservatorismo sociale di David Cameron e al nazional-conservatorismo di Sarkozy, ma guardi che brutta fine che hanno fatto entrambi. Ma anche con l’imitazione di Trump e del trumpismo non sembra andata benissimo. Concludiamo tornando alle città. Al di là della questione in sé, anche la fatica a trovare disponibilità tra le personalità della società civile è indicativa di una poca attrattività al di fuori dello zoccolo duro o del perimetro del partito. C’entra qualcosa con quello che stiamo dicendo? La poca attrattività della carica di primo cittadino, anche in grandi e prestigiose città come Roma, Milano, Napoli dipende da molti fattori. Innanzitutto, le casse dei municipi, piccoli e grandi, sono vuote da anni e adesso più di prima. Ti assumi grandi responsabilità per poi scoprire che non hai una lira da spendere, semmai bilanci in dissesto da ripianare. C’è poi quella che chiamerei la ‘sindrome Marino’ con cui fare i conti: chi ha un suo autonomo prestigio sociale o un suo rispettabile status professionale perché dovrebbe vedersi distrutta l’immagine e la carriera solo perché hai sbagliato la firma su un atto amministrativo o perché un giornale che non ti ama ha deciso di prenderti come bersaglio? Tra magistratura troppo facilmente inquirente, utenti social impazziti e stampa che alla cronaca preferisce lo scandalismo, oramai fanno politica a livello locale solo quelli che non avendo nulla da perdere hanno tutto da guadagnare, almeno in termini di pubblicità, anche se li si mette sotto inchiesta o li si copre d’insulti. Insomma, fare il sindaco è un mestiere che al momento non conviene.

giovedì 27 maggio 2021

"I MAGISTRATI ITALIANI SONO UBRIACHI DI POTERE"

26 MAG 2021 20:00 "I MAGISTRATI ITALIANI SONO UBRIACHI DI POTERE" - UN LIBRO RACCOGLIE I DISPACCI DEI DIPLOMATICI AMERICANI DURANTE TANGENTOPOLI E SVELA LO SCONCERTO PER GLI ABUSI GIUDIZIARI - I DUBBI CHE LE INDAGINI SU BERLUSCONI RISPONDESSERO A "SCOPI DI NATURA POLITICA", LO STATUS DI "QUASI SANTITÀ" DELLE TOGHE, QUEL "VULNUS DELLA DEMOCRAZIA" E UNA PROFEZIA: "CI VORRANNO DIVERSI ANNI PRIMA CHE SI STABILISCA UN NUOVO EQUILIBRIO TRA I POTERI DELLO STATO"... - IL LIBRO LA SECONDA REPUBBLICA Lo strano caso dei magistrati italiani: da eroi della rivoluzione a funzionari ebbri del dissesto della politica e «ubriachi di potere». C'è un documento di quindici paginette, oggi desecretato dagli archivi del Dipartimento di Stato americano, attraverso il quale la Storia riscrive completamente il rapporto tra il governo Usa e gli anni di manette e palingenesi della Tangentopoli italiana. Il documento, inedito, è presente nel contributo del craxiano Andrea Spiri inserito nel saggio collettaneo La seconda Repubblica. Origini e aporie dell'Italia bipolare (Rubettino, a cura di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e dello Spiri stesso); ed è solo uno delle centinaia di rapporti, pareri, dispacci che l'ambasciata e il consolato Usa inviavano periodicamente a Washington in quegli anni infiammati. Ogni documento contrassegnato dalla dicitura «from U.S. Consulate General Milan to Secretary of State» cadenza la fitta corrispondenza e fotografa quei giorni turbolenti, tra il 1992 e il '94 con titoli legati alla cronaca: Milan scandal - Further arrests, further; Public Administration and corruption- Factors leading to the success of the Investigations; The Party System's voracious appetite; What are the Implications of Craxi's demise?; Former Eni President's Suicide. Possible political and judicial Effects, ecc… Tutta la documentazione disegna due strategie d'approccio americano alla seconda repubblica. La prima è di completo sostegno ai giudici di Mani Pulite. «Il feudo craxiano si sgretola», avverte il console Usa Peter Semler in un dispaccio trasmesso il 4 maggio del '92 al segretario di Stato James Baker, dando conto dell'arresto di Mario Chiesa a cui seguono tutti gli altri, nello scoperchiarsi di un grande sistema corruttivo «inimmaginabile per un paese del G7»; pure se «Much more is yet to come», il meglio - per i diplomatici - deve ancora venire ancora venire. E qui i magistrati sono identificati come impavidi eroi del west: il Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli «fa in modo che le indagini siano condotte nel rigoroso rispetto della legge», Di Pietro «ha un talento nello sviluppare rapporti eccezionali con le persone che interroga»; e «i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole». CAMBIO DI ROTTA Ad un tratto, però, cambia la strategia di approccio. Tra la primavera e l'estate del '93, qualcosa di rompe. Alla Casa Bianca s'insedia Bill Clinton che manda in Italia un raffinato ambasciatore di lungo corso, Reginald Bartholomew. Il quale si ritrova immerso in uno scenario inedito, tra gli ultimi fuochi di Dc, Psi, Psdi e Pli; con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci; il Pds di Occhetto in ascesa e Berlusconi pronto a scendere in campo. E qua, il sospetto della ripetuta «violazione dei diritti di difesa un pericolo per la democrazia», il nuovo ambasciatore ce l'ha, riportando ai superiori la frase, appunto «magistrati ubriachi di potere». E la stima nell'operato dei pm italiani s'incrina assai col suicidio a San Vittore dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari. Scrive Spiri: «I diplomatici americani iniziano quindi a dare conto con sempre maggiore frequenza delle opinioni di fonti anonime che "accusano la magistratura di voler riempire il vuoto di potere creato dal collasso dei partiti e dalla delegittimazione del Parlamento", e raccolgono al contempo duri giudizi sull'"abuso della carcerazione preventiva" e sul "mancato rispetto dei princìpi del garantismo"». Ad impressionare è soprattutto il famigerato avviso di garanzia recapitato al premier Berlusconi a Napoli. Commenta Bartholomew: «In passato non siamo riusciti a raccogliere sufficienti elementi di prova che confermassero l'accusa rivolta ai giudici di agire per fini politici, ma in questo frangente, in concomitanza con l'avviso a comparire recapitato al presidente Berlusconi mentre presiedeva a Napoli un vertice internazionale sulla criminalità organizzata, cresce fra i cittadini la preoccupazione che l'operato dei magistrati risponda a scopi di natura politica». Il diplomatico è infatti il primo ad accorgersi del vuoto di potere politico che si va colmando, a cominciare dal blocco del decreto Consolo, attraverso le azioni di molti magistrati. E smantella il sistema di rapporti istituzionali del predecessore Peter Secchia che aveva consentito al Consolato di Milano di gestire legami diretti col pool Mani Pulite; «d'ora in poi tutto ciò con me cessò», avrebbe detto Bartholomew in un'intervista all'allora corrispondente Usa della Stampa Maurizio Molinari. VULNUS DEMOCRATICO «Molti di essi (i magistrati, ndr), impegnati nelle indagini di Tangentopoli e nella lotta alla mafia, hanno acquisito uno status di quasi santità che li ha sottratti alla possibilità di critica da parte della classe politica», afferma sempre Bartholomew nel dispaccio The "Clean Hands" Magistrates: A Stocktaking constatando prima di altri un insolito vulnus della democrazia. «Ci vorranno probabilmente diversi anni prima che si stabilisca un nuovo equilibrio tra i poteri dello Stato e che i rappresentanti eletti riacquistino più forza». E, dopo quasi trent'anni, morto Bartholomew, alla vigilia di una tanto decantata riforma della giustizia, be', siamo ancora qui.

mercoledì 26 maggio 2021

Il pensiero binario

di Marco Bentivogli su "repubblica.it" Isabella Conti, candidata alle primarie del centrosinistra a Bologna C'è una crescente polarizzazione binaria su ogni argomento e sono sempre più tollerate solo e unicamente due posizioni: favorevoli o contrari 26 MAGGIO 2021 3 MINUTI DI LETTURA I sistemi elettronici sono in grado di riconoscere due stati fisici: acceso o spento, la tensione di un conduttore elettrico (alta o bassa), passaggio o assenza di tensione elettrica, vero o falso. Per questo alla base del linguaggio vi è il sistema binario. Questa informazione è detta binaria (Bit) e viene rappresentata da sequenze di 0 e 1 assegnate ai due stati del dispositivo (on-off, etc.). Nelle capacità cognitive del cervello degli esseri umani, anch'esso non esente da impulsi elettrici, le possibilità di percezione e valutazione sono molto più complesse di sequenze di 0 e 1. Ascoltando il discorso pubblico italiano è evidente che queste potenzialità umane sembrano essere sempre più sottoutilizzate. Basti notare la crescente polarizzazione binaria su ogni argomento. Sono sempre più tollerate solo e unicamente due posizioni: favorevoli o contrari ma soprattutto se non condividi anche integralmente una posizione sei assimilato automaticamente alla parte più retrograda e stereotipata dello schieramento avverso. Lo schema è arcinoto. Se dico preferisco il mango alle arance, la risposta del troll è: "Sicché tu odi le arance? Non hai nemmeno menzionato ananas, banane e pompelmi". Gli esempi sono innumerevoli: si parte da chi critica le posizioni di Salvini e Meloni sui migranti, automaticamente si rientra in quelli "che vogliono trasformare l'Italia in un campo profughi". Ma anche chi dice "una regolamentazione e una condivisione continentale degli sforzi" finisce automaticamente in "sei un razzista, xenofobo". Recentemente vi sono state posizioni di grandi sostenitori delle battaglie per i diritti che hanno evidenziato alcuni punti in cui migliorare il ddl Zan, subito bollati con "stai con Salvini", mentre dall'altro lato i QAnon italiani dicevano cose, non pubblicabili, sui sostenitori dello stesso ddl. È più forte ancora la banalizzazione di cose passate: "quello ha votato il Jobs act o la legge Fornero", porta a condanne senza scampo da parte di persone che non hanno mai letto né l'uno né l'altro provvedimento. Se non sostieni tutto quello che fa il Pd, automaticamente aiuti "l'avanzata delle destre". Ma anche, se fai qualche osservazione sull'operato di qualche ministro, "aiuti Conte o Meloni". Ho detto "giusto alzare la tassa di successione ma la dote è un bonus mal cresciuto", risposta: "stai coi ricchi". E infine: "il blocco dei licenziamenti rinvia il problema, guadagnare tempo e non far nulla lo rende più esplosivo", per il generatore automatico di polarizzazione binaria è diventato "sei con Confindustria", col collettivo Ztl in piedi sugli spalti a gridare "siete servi dei padroni". Insomma: o stai con Hamas o con Netanyahu? È vero che in Italia l'opportunismo ci ha sempre insegnato a stare nel mezzo, a non schierarci, o tutt'al più a farlo verso i vincenti. Ma l'alternativa non può essere la resa a questi cervelli in bianco e nero. A cosa servono la binarizzazione del pensiero e la polarizzazione delle posizioni? A tenere a galla gruppi dirigenti che sanno solo schierarsi senza approfondire e capire e a fare altrettanto con gli italiani. Un Paese sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini ha ancora bisogno di questa riduzione brutale delle idee? Non sempre le posizioni intermedie sono le migliori e spesso bisogna saper dire in modo secco: sì o no. Senza aggiungere altro che non siano solidi argomenti a supporto. La binarizzazione del pensiero è la sua negazione. Qualcuno pensa che sia una conseguenza dei social media e delle nuove forme di comunicazione. La cosa assurda è che il nuovo mondo che si sta disvelando è sempre più complesso grazie anche al digitale e ridurre tutto a pro e contro ci allontana sempre più dal descrivere, spiegare e vivere la nuova realtà. Va benissimo per gli influencer che spesso utilizzano algoritmi per scegliere i temi che accrescano il loro traffico di like, condivisioni e soprattutto soldi. Ma ha senso con una politica adulta? Le bandierine identitarie spesso sono le peggiori nemiche delle istanze che sostengono. "O con noi o contro di noi" preserva la politica da qualsiasi possibilità libera di giudizio sulle scelte che si compiono. Si custodiscono le mediocrità e le proposte deboli, si aiuta il "fanatismo contingente". Pensiamo all'accusa a Isabella Conti - la potenziale candidata sindaca di Bologna - di essere stata "renziana". In un partito in cui tutti sono stati rispettivamente veltroniani, bersaniani, renziani, zingarettiani, lettiani. È ovunque un buon termometro di fedeltà cieca quando "Il miglior segretario? L'attuale! E il peggiore? Quello prima!". La "fedeltà necessaria" quella sì è binaria perché è cieca. Giuseppe De Rita lo dice con nettezza: "siamo di fronte al declino della politica perché i gruppi dirigenti non ce l'hanno fatta di fronte alle sfide culturali della complessità". In un momento, peraltro, in cui la politica dovrebbe educare le persone alla complessità ed esserne, ancor prima, interprete. Tutto ciò ci mostra, da ogni angolo, il default, la bancarotta culturale dei gruppi dirigenti, in un momento in cui sarebbe fondamentale un surplus di discernimento, di cultura, in grado di aiutarci a ritrovare il senso di tutti i cambiamenti che stiamo vivendo. Sì o no?

martedì 25 maggio 2021

Certificato vaccinale, come funziona il Covid pass europeo e come ci farà tornare a viaggiare

di Chiara Sottocorona25 mag 2021 Turisti, albergatori e compagnie aeree lo aspettano con impazienza. Ma ci vorrà ancora un mese perché tutti i Paesi possano adeguarsi. L’Eu Digital Covid Certificate, nuovo nome del Green pass europeo, entrerà in vigore dal primo luglio. Intanto l’Italia ha già superato i test tecnici. Sarà tra i primi dieci Paesi, assicurano a Bruxelles, pronti a rilasciare il certificato che permetterà a chi è vaccinato, testato negativo o confermato guarito dal Covid 19, di viaggiare nell’area Schengen evitando le quarantene. La corsa ai certificati digitali nazionali si era fatta serrata tra aprile e maggio, generando confusione. Ogni Paese voleva creare il proprio «lasciapassare» per rilanciare turismo, festival, congressi o raduni sportivi. Da Israele alla Francia Ad aprire la strada è stata Israele che da fine febbraio ha introdotto il Green Pass per i vaccinati, seguita dalla Danimarca con il CoronaPas lanciato a Pasqua e dall’Estonia, a fine aprile con il VaccineGuard. Dal 22 aprile la Francia ha iniziato a testare il « pass sanitaire » caricabile sull’applicazione nazionale Tous antiCovid (usata da 15 milioni di cittadini). Mentre da noi le Regioni hanno introdotto il Certificato Verde, valido per gli spostamenti sul territorio nazionale e per gli eventi. Troppi pass, troppa confusione. LA CERTIFICAZIONE VERDE Covid pass, quando scade? Per chi fa AstraZeneca dura quasi un anno di Massimiliano Jattoni Dall’Asén I criteri Ue La condizione per tornare davvero a muoversi in tutto il Continente è di avere un sistema « unificato e sicuro, a prova di contraffazioni e non discriminatorio, che garantisca l’interoperabilità tra i diversi paesi e il rispetto della privacy ». Sono i criteri fissati dalla Commissione Europea che ha deciso l’introduzione dell’Eu Digital Covid Certificate, il pass unico, gratuito e accessibile a tutti gli europei, già approvato dal Parlamento europeo il 29 aprile. Al 20 maggio il ministero della Salute stava mettendo a punto, con Sogei e le Regioni, la piattaforma nazionale per il rilascio. Le tecnologie e la privacy Le tecnologie chiave sono due: il Qr code nel quale è registrato il certificato da caricare sullo smartphone (in versione cartacea per chi non ha un telefonino adatto) e la firma digitale, rilasciata dall’autorità nazionale, che attesta la validità della vaccinazione o del test. Perché ogni Paese possa produrre test sicuri e a basso costo la Commissione ha stanziato 100 milioni di euro. Le persone potranno tornare a varcare i confini, ma i dati sanitari dovranno restare conservati e protetti nel Paese d’origine. Non ci sarà un data-base europeo. Il Qr code, leggibile automaticamente ai varchi di frontiera o degli aereoporti, contiene solo il codice identificativo della vaccinazione o del test negativo. I soli dati personali indicati sono il nome e la data di nascita. Il gateway e la validità Il sistema unificato di gateway (l’infrastruttura di riconoscimento) permette la verifica delle firme digitali che autenticano il certificato. «Le firme digitali a chiave pubblica sono fornite da ogni Paese — dice Johannes Bahrke, portavoce della Commissione Ue per il Digitale —. Per il gateway sono state incaricate Sap e T-Systems, che hanno supportato i Paesi nello sviluppo del software e delle applicazioni. Stiamo eseguendo i test con ogni Paese». Oltre che nell’Ue, il pass sarà valido per ora in Svizzera, Norvegia e Islanda. Sono attesi accordi successivi con il Regno Unito (che registra i certificati vaccinali sull’app nazionale Nhs) e, forse, più tardi con gli Usa. Ma quali sistemi consentiranno di viaggiare nel resto del mondo? New York Ibm ha creato il Digital health pass: l’infrastruttura è su una blockchain che certifica le vaccinazioni e fornisce i codici di identificazione, l’utente li riceve in un wallet sullo smartphone. «I dati sanitari restano privati e criptati nell’app, ciascuno sceglie quando condividerli», dice Steve La Fleche, general manager Ibm Public and Federal Market. Da fine marzo il sistema è in uso nello Stato di New York, nome Excelsior Pass: l’app fa apparire il verde se ha il Qr code di chi è stato vaccinato ed è usata da 400 mila persone, secondo il New York Times. Ma finora la Casa Bianca non ha autorizzato un pass sanitario nazionale. Intanto una coalizione di oltre 200 istituzioni pubbliche e aziende private, la Vci, sta sviluppando la Smart Health Card, su una piattaforma internazionale che renda compatibili e verificabili ovunque i dati dei certificati vaccinali. Sostenitori: Microsoft e Oracle, la Mayo Clinic e Mitre Corporation. Restano due problemi: la durata dei pass,con l’emergere delle varianti, e la questione privacy: non si possono limitare i diritti distinguendo tra chi è vaccinato e chi no.

sabato 22 maggio 2021

Fisco, il manuale delle buone tasse

di Carlo Cottarelli Il presidente del Consiglio Mario Draghi (ansa) Servono tre caratteristiche: equità, neutralità e semplicità 22 MAGGIO 2021 3 MINUTI DI LETTURA Si torna a parlare della riforma del fisco. Un giorno Gordon Brown, allora Cancelliere dello Scacchiere (cioè ministro delle Finanze) del Regno Unito mi disse una cosa che non mi sono mai scordato: "Non c'è nulla di più politico delle tasse: si sono combattute guerre civili sulla questione delle tasse". È vero. Le tasse sono la quintessenza della politica perché incidono direttamente sulla distribuzione del reddito tra cittadini: si toglie a qualcuno per dare ad altri. E, allora, potrà un governo così eterogeneo come quello attuale realizzare quella riforma della nostra tassazione che sarebbe così necessaria nel nostro Paese? Credo di no. A meno che... Ma partiamo dall'inizio, dalle caratteristiche che un buon sistema fiscale dovrebbe avere. Un buon fisco deve avere tre caratteristiche. Primo deve essere equo, sia in senso orizzontale (a parità di reddito, le tasse devono essere uguali), sia in senso verticale (chi ha un reddito più alto deve pagare di più). Secondo, non deve avere effetti indesiderati sulla produzione e sui consumi: deve essere "neutrale" a meno di motivi particolari. Terzo, deve essere semplice. Il nostro fisco è molto lontano da queste caratteristiche per effetto di una stratificazione di norme introdotte, dopo la grande riforma del 1973-74, per soddisfare le più disparate esigenze di breve periodo, al di fuori di una chiara logica. Riguardo all'equità orizzontale, un problema fondamentale è quello dell'evasione fiscale: secondo le stime della commissione guidata in passato dall'ora ministro Giovannini, l'evasione è di circa il 3 per cento per il reddito da lavoro dipendente, del 66 per cento per il lavoro autonomo e quello d'impresa. Ma non è il solo problema: fino a circa 50.000 euro, per effetto di benefici differenziati, a parità di reddito dichiarato la tassazione è diversa tra lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati. Uniformare il peso effettivo delle tasse tra diversi tipi di contribuenti è una questione del tutto politica: tradizionalmente il centrosinistra è più vicino ai lavoratori dipendenti; il centrodestra a quelli autonomi. Riguardo all'equità verticale, le cose sono ugualmente complicate. Credo che tutti siano d'accordo sul fatto che l'attuale sistema comporti un salto troppo forte nell'aliquota marginale tra il secondo e il terzo scaglione (dal 27 al 38 per cento). Ma, quanto al resto, si va da un centrodestra che propone la flat tax (con una minore redistribuzione rispetto all'attuale), a un centrosinistra che vorrebbe (almeno in alcune sue componenti) una maggiore progressività. Riguardo alla "neutralità" del fisco e alla sua semplicità, il nostro sistema contiene una pletora di trattamenti volti a favorire questa o quella attività che si è voluto promuovere senza una logica precisa. Per questo sussidiamo i consumi tanto di energia sporca quanto di quella pulita. Per questo, il nostro codice fiscale comporta una miriade di deduzioni e detrazioni, le cosiddette spese fiscali con cui si sono scontrate, senza risultati, varie generazioni di esperti e commissari. Rispetto agli altri Paesi, tassiamo poco le case (non tassiamo, per la prima casa, né il valore della stessa, né il suo reddito imputabile, cosa che si faceva una volta), ma tassiamo tanto il lavoro. Tassiamo poco la ricchezza ereditata, ma tassiamo più degli altri Paesi il reddito prodotto. Abbiamo una marea di micro tasse, una ventina delle quali potrebbe essere eliminata al costo di soli 700 milioni. Rimuovere tutte queste distorsioni, vuol dire andare a colpire una marea di interessi costituiti a beneficio di altri. E come si può riconciliare la protezione di attività o gruppi che stanno a cuore al centrodestra con la protezione di chi sta a cuore al centrosinistra? Credo quindi che una riforma ampia della tassazione richieda un mandato elettorale. Certo, aggiustamenti possono esserci (ho citato sopra la riduzione del salto tra il secondo e terzo scaglione Irpef), ma non potranno che essere limitati. A meno che... Si potrebbe fare tutti contenti, o quasi, con una soluzione drastica: finanziare in deficit e per importi elevati la riforma fiscale. Insomma, perché dover scegliere se detassare gli autonomi o i dipendenti quando si possono detassare entrambi i gruppi? Certo, con un debito pubblico che viaggia verso il 160 per cento del Pil ci dovremmo preoccupare, ma i tassi di interesse sono ancora bassi. E poi, sono certo dirà qualcuno, tagliando le tasse l'economia riparte e il taglio delle tasse si ripaga da solo. Non sono d'accordo. L'aumento del debito pubblico è stato necessario l'anno scorso e quest'anno, ma non possiamo pensare di andare avanti a finanziare in deficit qualunque riforma ci venga in mente. I tagli di tasse non si autofinanziano, a meno di partire da livelli di pressione fiscale media di circa il 70 per cento, il punto in cui la maggior parte degli economisti ritiene si collochi il massimo della cosiddetta "curva di Laffer" (noi siamo al 42 per cento). No, io credo che le tasse in Italia vadano tagliate, ma per tagliarle occorre trovare finanziamenti, riducendo gli sprechi nella spesa (non ora, per carità, non è il momento, ma il momento verrà) e riducendo l'evasione fiscale. In conclusione, la riforma fiscale (a parte cose minori) non si farà prima delle prossime elezioni. O, se si farà, sarà in deficit, cioè pagheranno le generazioni future.

venerdì 21 maggio 2021

Effetti collaterali vaccino Covid: "Perché a me fa male e ad altri no?"

di Donatella Zorzetto Febbre, male al braccio, spossatezza: Fausto Baldanti spiega cosa c'è dietro ai sintomi che possono comparire dopo l'iniezione 20 MAGGIO 2021 4 MINUTI DI LETTURA La febbre può salire verso sera, accompagnata da un forte mal di testa, ossa rotte, spossatezza. Come fosse un'influenza, solo che non si tratta di quello. Gli effetti del vaccino anti-Covid arrivano all'improvviso, qualche ora dopo l'iniezione. In molti se li aspettano, tuttavia spiazzano lo stesso, perché "discriminano" la platea di vaccinati: alcuni stanno male, altri no. Alcuni nemmeno riescono a lavorare tanto duole il braccio dell'iniezione, altri neppure se ne accorgono. Ma perché succede? E cosa c'è nei vaccini anti-Covid in grado di scombussolare in questo modo il nostro organismo? E ancora: chi già è fragile, con patologie talvolta invalidanti, ha qualcosa da temere da questi vaccini di nuova generazione? Fausto Baldanti, responsabile del Laboratorio di Virologia Molecolare del San Matteo, tranquillizza: "Qualche effetto dopo il vaccino è normale". Professore ci spiega di quali sostanze stiamo parlando? "Una distinzione, prima di tutto. I vaccini sono di due tipi: il primo è quello a mRNA, mi riferisco a Pfizer e Moderna; il secondo, a vettore virale Adenovirus, è quello di AstraZeneca e Johnson&Johnson, Sputnik e il vaccino cinese. Nei primi sono contenute le molecole di RNA messaggero (mRNA) che presentano all'interno le indicazioni per costruire le proteine Spike del virus SARS-CoV-2. Nel vaccino, le molecole di mRNA sono inserite in una microscopica vescicola lipidica, una "bollicina", così da proteggerle da deperimento e dal rischio di distruzione da parte del sistema immunitario. In questo modo possono entrare nelle cellule. Una volta iniettato il vaccino, l'mRNA viene assorbito nel citoplasma delle cellule e avvia la sintesi delle proteine Spike. La loro presenza stimola la produzione, da parte del sistema immunitario, di anticorpi specifici". E il secondo tipo di vaccini? Qual è il meccanismo? "I vaccini a vettore virale Adenovirus sono nati contemporaneamente e sono basati su un concetto simile. Invece di avere il gene nella forma a RNA, ce l'hanno a DNA. Vaccinare con il DNA significa trasmettere alle cellule dell'ospite i geni che contengono le informazioni necessarie alla cellula per produrre antigeni della proteina spike del SARS-CoV-2. I geni vengono inseriti in laboratorio in un virus innocuo per l'uomo (vettore) che, una volta iniettato, porta i geni fino alla cellula. A quel punto la proteina virale Spike viene riconosciuta come estranea dal sistema immunitario che comincia quindi a produrre anticorpi". Vaccini Covid-19: perché è difficile studiare gli effetti collaterali di Priscilla Di Thiene 07 Aprile 2021 Quali reazioni provocano? "Stimolano il sistema immunitario in modo potente rispetto ai vaccini di vecchia concezione, come quello contro l'influenza. In passato, invece di produrre la proteina, la si forniva direttamente, provocando in questo modo una stimolazione solo anticorpale e non cellulomediata". A categorie diverse di vaccini corrispondono formulazioni diverse? "I vaccini a RNA hanno una formulazione che risente un po' più della temperatura, perché sono fatti di lipidi e hanno bisogno della catena del freddo. L'altra specie è più stabile nelle condizioni ambientali e non ha bisogno di queste precauzioni. Diciamo che la differenza sta nel packaging, ma gli effetti finali sono gli stessi". Covid. Come gestire l'ansia del "Che vaccino mi faranno?" di Massimo Cozza 13 Maggio 2021 Effetti mirati? "In generale i vaccini sono disegnati per stimolare il sistema immunitario: mi creo un'infezione che non c'è e così posso stimolare le reazioni legate alla risposta all'infezione, ad esempio la febbre. Ma, quando parliamo di nuovi vaccini anti-Covid, essendo potenti, questi eventi di stimolazione sono più forti". Tuttavia la regola generale, applicata a più persone, produce effetti non omogenei. C'è chi dopo l'assunzione del vaccino sta male e altri no. Perché? "Il fatto che questi fenomeni, collegati alla vaccinazione, siano più intensi rispetto ad altri, in realtà non sono la risposta. La vera risposta è da trovare nella quantità di anticorpi che i vaccini producono. I sintomi che si registrano dopo l'iniezione avvengono su base individuale, sono reazioni che gli individui possono o non possono avere come risposta alle infezioni". Seconda dose vaccino, ecco perché cambiare non è una buona idea di Elvira Naselli 13 Maggio 2021 Ma in pratica cosa succede al nostro organismo? "Accade che si metta in opera una difesa. Nel momento in cui, attraverso il vaccino, il nostro sistema immunitario è stimolato, produce antigene e anticorpi rilasciando citochine, che inducono la febbre. Ad alcuni succede, ad altri no. In alcune persone il vaccino stimola il sistema in modo ottimale, quindi senza febbre". E il male al braccio? "È dovuto all'iniezione, al fatto che si immetta qualche ml di liquido. Può esserci anche un mal di testa, pura sindrome parainfluenzale". Perché non accade a tutti? "La medicina è fatta di molte manifestazioni individuali differenti. Questo vale, ad esempio, anche per le patologie respiratorie. E pure il Covid fa differenze: solo in una minoranza si presenta in modo serio: soprattutto negli anziani, meno nei bambini". Vaccino Covid: il timore per i pazienti fragili di Giuseppe del Bello 15 Maggio 2021 Se dopo il vaccino non abbiamo sintomi cosa significa? "Non significa certo che non funzioni". Possono essere diverse le reazioni tra la prima e la seconda iniezione? "Di solito è la prima che dà effetti. Va detto però che alcune persone riferiscono di più sulla seconda e altre sulla prima. Diciamo che entrambe le dosi spossono dare origine a qualche fenomeno disagevole". La maggior parte dei vaccinati che reazioni presenta? "Secondo i dati riferiti dall'Aifa non ha reazoni avverse significative. Nemmeno lievi". Questo vale anche per le persone fragili? "Il problema può presentarsi per coloro che ricevono farmaci immunisoppressivi: riducono il sistema immunitario e il vaccino potrebbe avere una minore efficacia. Ma uno studio che abbiamo in corso dimostra che comunque in questi pazienti la risposta è buona, proprio perché i vaccini provocano la stimolazione anticorpale e cellulomediata. Questa è un'ottima notizia". E gli allergici? "Ci sono allergie che non vanno d'accordo con i vaccini, come lo shock anafilattico o manifestazioni allergiche ai vaccini precedenti. Per questo chi ha avuto fenomeni come questi lo deve dire al momento della somministrazione". Nel caso l'iniezione provochi effetti blandi cosa bisogna fare? "Febbre, mal di testa e malessere generale vanno trattati con terapie sintomatiche: tachipirina, ibuprofene, antipiretici. Di solito si risolvono in un giorno". Dobbiamo temere effetti gravi? "Sono documentati nell'ordine di un caso su un milione, parlo ad esempio di embolie e trombosi. Gli effetti di una certa severità, come una reazione allergica importante, sono una su 100mila. Invece, su cento persone che incontrano il Covid, 3 vanno incontro alla mortalità, quindi il tasso di letalità è il 3%". Quindi vale la pena vaccinarsi, sopportandone eventuali conseguenze a sorpresa. "Assolutamente. Perché la risposta anticorpale che genera il vaccino è estremamente elevata per tutti. Ci sono dati, ricavati dai nostri studi che dimostrano come, dopo la prima dose, si raggiungano già significativi livelli anticorpali. E dopo la seconda siamo schermati al 95%".

Draghi e il fisco, il rifiuto dell'austerità

di Francesco Guerrera Il presidente del Consiglio Mario Draghi (fotogramma) La sfida del premier sarà riformare le tasse per permettere all'Italia di riprendersi dalla pandemia e crescere senza le debolezze, le ingiustizie e le inefficienze del passato 21 MAGGIO 2021 Il mago della politica monetaria "straordinaria" dovrà fare un miracolo simile con il fisco. Mario Draghi è giustamente famoso per aver infranto le rigide regole delle banche centrali, sbaragliato l'intransigente ortodossia teutonica e salvato la zona euro da varie crisi finanziarie. La prossima sfida, questa volta in campo nazionale, non sarà da meno: riformare le tasse italiane per permettere al Paese di riprendersi dalla pandemia e continuare a crescere senza le debolezze, le ingiustizie e le inefficienze del passato. È un terreno politicamente minato perché tocca gli interessi costituiti di sindacati, imprese e libere professioni, i desideri non sempre puri dei grandi investitori stranieri e l'hobby italiano dell'evasione fiscale. Ma il momento è propizio, grazie alla rinascita economica del dopo-Covid, i miliardi del Recovery Fund e la competenza (e onestà) del governo attuale. I tassi ultra-bassi imposti dalla Banca centrale europea forniscono un ulteriore assist, allentando la pressione dei mercati sull'enorme debito pubblico italiano. I tre principi-chiave delle riforme non dovrebbero essere in discussione: stimolare la domanda interna, attrarre capitali esteri e supportare le aziende nostrane. La battaglia politica sarà sulle misure da adottare per raggiungere questi fini, come si è visto con il botta e risposta tra Enrico Letta e il premier sulla tassa di successione. Nel rispondere a Letta, Draghi ha già indicato la sua filosofia: no all'austerità. Stringere la cinghia, o non usare il fisco per spingere l'economia, fu uno degli errori più gravi del mondo occidentale dopo la crisi del 2008-2009 (e in Giappone da decenni). Draghi lo sa bene perché la latitanza dei governi costrinse la Bce a fare gli straordinari per tenere a galla la zona euro. Quando dice a Letta che "è il momento di dare i soldi ai cittadini, non di prenderli", il premier sposa l'idea che la domanda interna vada stimolata con spesa e fisco. Il Recovery Fund aiuterà con la prima, ma non sarà abbastanza senza la riforma delle imposte. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, il lavoratore italiano medio cede quasi la metà della busta paga al fisco, un dazio da record tra i Paesi dell'Ocse. Tagliare le tasse sul lavoro sembra una mossa obbligata ma sarà possibile solo con una riforma radicale del sistema pensionistico, i cui esorbitanti costi gravano sul bilancio statale e sul debito pubblico. Sul fronte delle imprese e dei capitali stranieri, purtroppo, la strada irlandese è impraticabile. L'idea, avanzata di tanto in tanto da populisti di destra e di sinistra, che si possa trasformare l'Italia in un paradiso fiscale per le aziende, come l'Irlanda ha fatto con i giganti della tecnologia, è bloccata da trattati internazionali, delicati equilibri europei e il bisogno di gettiti fiscali da parte del nostro Paese. Ma quando parlo con investitori e aziende internazionali, le lamentele non sono quasi mai sul livello delle tasse su capitale e impresa - che in Italia sono in linea con la media Ue - ma contro la complessità del sistema, la burocrazia kafkiana e la rigidità del mercato del lavoro. Sono problemi che possono essere affrontati con misure specifiche, come l'Allowance for Corporate Equity (Ace) - che aiuta le società finanziate dalle azioni pubbliche e private invece del debito - gli sgravi per start-up, e parametri più chiari per usufruire degli incentivi su ricerca e sviluppo. Ed è qui che la confluenza di spesa, politiche monetarie e fisco può creare un circolo virtuoso. Se la spesa pubblica passa da attività non produttive come le pensioni alle infrastrutture e ai servizi, l'occupazione aumenterà. Se le tasse sui salari calano, più gente entrerà nella forza-lavoro, pronta a essere assunta da aziende locali e capitali stranieri attratti da incentivi fiscali. Più fervore economico porterà a maggiore crescita e, a sua volta, introiti fiscali più alti e meno debito pubblico. Secondo l'Fmi, un pacchetto del genere potrebbe aggiungere lo 0,2% l'anno al Pil e ridurre il debito pubblico di circa il 13% nei prossimi dieci anni. Per ora è un sogno, offuscato dall'incubo del nostro sistema fiscale. Ma vista la congiuntura favorevole e il calibro intellettuale di chi è al potere, sarebbe un peccato non provare a trasformarlo in realtà.

giovedì 20 maggio 2021

Luigi Zanda: "La pista sovietica dietro la morte di Moro e gli attentati a Wojtyla e Berlinguer""

di Simonetta Fiori Aldo Moro sequestrato dalle Br Il senatore del Pd, già assistente di Cossiga, interviene sugli anni di piombo. “Il leader della Dc, il Papa e il segretario del Pci colpiti perché scomodi. La verità solo dagli archivi internazionali” "Quando il presidente Mattarella dice che sul terrorismo italiano ci sono "ombre, spazi oscuri, complicità non pienamente chiarite" esprime uno stato d'animo condiviso da moltissimi italiani. E allora è necessario domandarsi: dove dobbiamo guardare per arrivare a una verità più completa, che integri le acquisizioni giudiziarie e parlamentari?". Senatore del Partito Democratico, testimone di un pezzo importante della storia repubblicana, Luigi Zanda è stato portavoce e assistente politico di Francesco Cossiga tra il 1976 e l'80, prima al ministero dell'Interno poi alla presidenza del Consiglio. Nella stagione più cruenta delle Brigate Rosse e del sequestro Moro ha seguito la violenza terrorista da un osservatorio privilegiato. E ora interviene nel dibattito sul terrorismo scaturito dall'intervista di Maurizio Molinari al presidente Sergio Mattarella dopo l'arresto dei brigatisti latitanti a Parigi. Senatore Zanda, secondo lei dove bisogna cercare le verità che ancora non conosciamo? "Sono convinto che i grandi delitti politici di quegli anni abbiano a che fare con le gravi tensioni internazionali della guerra fredda. La verità completa potrebbe arrivare dall'apertura degli archivi delle diverse potenze che allora si occupavano del terrorismo internazionale. Stati Uniti e Unione Sovietica, certo. Ma anche Germania, Francia, Inghilterra, Israele". Quando parla di grandi delitti politici, oltre a Moro a chi si riferisce? "Non riesco a non collegare il sequestro e l'omicidio di Moro a due gravissimi attentati che, pur senza esiti mortali, erano stati progettati per uccidere. Penso ai colpi di pistola sparati contro papa Wojtyla, il 13 maggio del 1981, e all'attentato a Enrico Berlinguer in Bulgaria, il 3 ottobre del 1973: andava in macchina verso l'aeroporto quando all'improvviso sbucò sulla strada un camion carico di pietre. Solo per un caso il leader comunista si salvò: l'autista al suo fianco perse la vita. Allo stesso modo, solo per pochi millimetri una pallottola non avrebbe bucato l'aorta di Wojtyla. È evidente il tratto comune ai due attentati: una casualità imprevedibile che ha evitato la morte delle due vittime, la determinazione omicida dei responsabili e il collegamento con la Bulgaria". Secondo lei c'è una sola mano dietro la morte di Moro e gli attentati a Berlinguer e Wojtyla? "Una mano forse no, ma vedo un disegno di destabilizzazione che li unisce. I tre delitti avevano come bersaglio tre personalità che in modi molto diversi stavano comunicando al mondo un pensiero nuovo e dirompente rispetto a schemi consolidati, raccogliendo un desiderio molto forte di maggior democrazia per grandi masse popolari. E in questo modo urtavano gli equilibri della guerra fredda. Moro apriva ai comunisti in un paese della Nato. Berlinguer rompeva l'internazionalismo comunista, privilegiando la democrazia rispetto al comunismo realizzato. E papa Wojtyla stava minando la struttura dell'impero sovietico". Quindi lei fa un ragionamento geopolitico: tutti e tre erano mine vaganti rispetto all'ordine disegnato dalla guerra fredda. "Sì, ma a questo aggiungerei un altro elemento comune: sono tre delitti di grande criminalità politica, difficilmente attribuibili solo a singoli attentatori o a gruppi estremisti. Sembrano più riconducibili a un gigantesco disegno di caratura internazionale". Lei si è fatto un'idea di questo disegno? "Naturalmente la mia è solo un'ipotesi. Ma intuitivamente, sulla base dei fatti noti, la bilancia pende dalla parte dell'Unione Sovietica di cui era nota la spinta a destabilizzare l'Europa occidentale. Forse non è un caso che la Bulgaria, longa manus esecutiva dell'Urss, compaia ripetutamente anche nelle indagini sull'attentato al Papa. E per quel che riguarda il sequestro di Moro, richiami fattuali all'Urss e ai paesi satelliti ricorrono nella relazione finale dell'ultima commissione di inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Le Br facevano parte di un network che includeva la Raf tedesca, l'Ira irlandese, i terroristi palestinesi e probabilmente una parte degli indipendentisti baschi: questi movimenti erano in qualche modo vicini all'Urss. E da questa rete arrivava il rifornimento delle armi". Lei in questo modo esclude la pista della Cia che è riaffiorata di recente insieme alla rievocazione dell'incontro tra Moro e Henry Kissinger nel 1974 negli Usa: il leader democristiano ne uscì sconvolto. E la moglie Eleonora avrebbe riferito d'una minaccia del Segretario di Stato in caso di apertura ai comunisti. "Gli Stati Uniti avevano interesse a scoraggiare i rapporti con il Pci, di cui temevano il legame con Mosca. Ma non a destabilizzare l'Italia con un delitto di quella portata. E poi per gli Usa mancano quei collegamenti materiali che sono evidenti con l'Urss". Nei cinquantacinque giorni delle indagini su Moro, Cossiga ministro degli Interni chiamò a collaborare consulenti americani tra cui Steve Pieczenik, che disse la famosa frase: "Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro". "Non mi sembra verosimile che Pieczenik fosse al servizio di un piano criminale della Cia e poi abbia avuto l'ingenuità di rivelarlo pubblicamente. Durante il sequestro Moro, l'Italia chiese aiuto a tutte le potenze alleate. Ma di aiuto concreto a mia memoria ce ne fu poco. Mi sono anche domandato il perché, dal momento che l'Italia era un paese sotto osservazione. Probabilmente perché il terrorismo italiano di quegli anni era una realtà così magmatica da rendere rischioso occuparsene". Tra le zone d'ombra del sequestro Moro resta quel comitato di difesa messo in piedi da Cossiga e composto per larga maggioranza da uomini di Licio Gelli. Lei come lo spiega? "Non so dare una spiegazione. Era un comitato di assoluta inutilità, una superfetazione immaginata da Cossiga. Tutta la gestione del caso Moro venne fatta con la presenza stabile al Viminale del procuratore della Repubblica. E i vertici dei servizi segreti erano stati appena rinnovati dal Governo con il consenso di Aldo Moro e del comunista Ugo Pecchioli: erano scelte che allora si facevano insieme". Nella fase investigativa furono fatti molti errori, tanto da lasciar supporre che in realtà non si volesse trovare il prigioniero. "Non certo errori voluti per arrivare alla morte di Moro. Credo che, fin dal momento del sequestro, le Br avessero già deciso di ucciderlo. E questo risulta abbastanza evidente dalla scelta fatta dai terroristi di rendere pubblica la prima lettera di Moro, destinata proprio a Cossiga: la missiva era stata tenuta segreta anche su richiesta di Moro, il quale sapeva che solo nella segretezza si sarebbe potuta svolgere una vera trattativa. Dopo 4 o 5 giorni le Br pubblicarono la lettera, troncando di fatto sul nascere qualsiasi possibilità di trattare". Lei cosa ricorda di quel 16 marzo del 1978? "Appresi la notizia dell'attentato, ancora molto confusa, appena varcata la soglia del Viminale. Dopo un paio d'ore, verso le 11, mi mandò a chiamare Cossiga, che era già stato in via Fani e dal presidente del Consiglio. "Da questo momento dimenticati della mia vita politica, perché politicamente sono finito". Poi mi avrebbe affidato un documento da conservare in cassaforte. Era la lettera di dimissioni da ministro dell'Interno, ma su alcuni fogli a parte ne variò l'incipit: nel caso in cui Moro fosse stato ucciso, liberato, liberato ma ferito nello scontro finale". Lei come intese il gesto? "Cossiga voleva dimettersi subito, ma capiva di non poterlo fare. Così scrisse la bozza di una lettera che lo impegnava a farlo dopo". Negli anni successivi lei non ha mai avuti dubbi sul comportamento di Cossiga in quei mesi? "Può aver fatto errori, ma ha fatto tutto quel che poteva per liberare Moro. Sono testimone più di chiunque altro dei rapporti molto amichevoli, quasi affettuosi, che Cossiga intratteneva con Moro: più volte alla settimana la sera lo accompagnavo nello studio di via Savoia. Moro ne aveva colto perfettamente l'intelligenza e persino la suggestionabilità, come emerge anche dalle lettere scritte sotto sequestro: se oggi Cossiga fosse con me, mi darebbe ragione - scriveva Moro - ma siccome è con Berlinguer, dà ragione a lui". Come spiega il deragliamento successivo, le esternazioni del picconatore? "Con il bipolarismo violento di cui soffriva". Avete avuto modo di riparlare della vicenda Moro? "No. Lui era stato tra i sostenitori più convinti della linea della fermezza, ma non sono sicuro che nella parte finale della sua vita lo fosse ancora. Era preso dal rimorso di essere stato il responsabile della morte di Moro, lo tormentava l'idea che si sarebbe potuto salvare". Lei prima accennava a una mano superiore che potrebbe aver guidato l'assassinio del presidente della Dc e gli attentati al Papa e a Berlinguer. Nel caso di Moro, non pensa che vi siano ombre anche in apparati dello Stato complici? "Guardi, sugli apparati si possono fare ipotesi, ovviamente da provare. Ma non illudiamoci di poter sciogliere i nodi interni se non indaghiamo su chi può aver ispirato quei delitti. Né il lungo lavoro dei giudici né le tante inchieste parlamentari sono riuscite a chiarire le "zone oscure" che ancora restano. E dubito che a distanza di oltre quarant'anni qualcuno possa improvvisamente raccontare fatti nuovi. Né mi aspetto molto dalle testimonianze degli ex brigatisti latitanti ora catturati a Parigi. L'unica direzione in cui cercherei è quella degli archivi internazionali: solo là possiamo sperare di far luce sulle ombre che ci inquietano".

martedì 18 maggio 2021

“SE FACEVI NOTARE CHE L’ANOMALIA BERLUSCONI ERA A SUA VOLTA IL FRUTTO DI UN’ALTRA ANOMALIA, OSSIA LA DISTRUZIONE VIOLENTA, PER VIA GIUDIZIARIA, DI UN’INTERA CLASSE POLITICA (QUELLA DELLA PRIMA REPUBBLICA), TI DAVANO SUBITO DEL BERLUSCONIANO".

17 MAG 2021 20:43 1. “SE FACEVI NOTARE CHE L’ANOMALIA BERLUSCONI ERA A SUA VOLTA IL FRUTTO DI UN’ALTRA ANOMALIA, OSSIA LA DISTRUZIONE VIOLENTA, PER VIA GIUDIZIARIA, DI UN’INTERA CLASSE POLITICA (QUELLA DELLA PRIMA REPUBBLICA), TI DAVANO SUBITO DEL BERLUSCONIANO". E OGGI FAR FINTA DI NIENTE “E’ SOLO UNA TRUFFA, UN IMBROGLIO. BASTA FAR FINTA DI DIMENTICARE" 2. DOPO DAGOSPIA, ANCHE IL POLITOLOGO PANEBIANCO SUL CORRIERE SPUTTANA LA FAVOLA DELLA “RIVOLUZIONE ITALIANA”, ORMAI ORFANA DEI SUOI GIUDICI-SEMIDEI E ABIURATA NEL SILENZIO DAI GIORNALI DEI POTERI MARCI CHE L’AVEVANO AUSPICATA (E FORAGGIATA) 3. DA MIELI A SANTORO, QUANDO IL BOIA DA NEMICO DIVENTA FINTO-AMICO – ALDO MORO SECONDO IL PCI DI VELTRONI: DA VIVO ERA ANTILOPE COBBLER, IL TANGENTARO; DA MORTO, DIVENTA UNO STATISTA LUNGIMIRANTE – IL RISCHIO DI UNA ITALIA MALATA DI ALZHEIMER “Se facevi notare che l’anomalia Berlusconi era a sua volta il frutto di un’altra anomalia, ossia la distruzione violenta, per via giudiziaria, di un’intera classe politica (quella della Prima Repubblica), ti davano subito del berlusconiano. C’era insomma un clima di evidente isteria”. A quasi trent’anni dalla tonnara di Tangentopoli, sul “Corriere della Sera” si può leggere, a firma di Angelo Panebianco, un editoriale che - questo sì fa davvero giustizia dopo averlo taciuto per anni ai suoi lettori -, su cosa è stata la “rivoluzione italiana” di cui il giornale manettaro dei Poteri marci è stato uno dei portabandiera. La rivoluzione fallita, che dai giornali sappiamo quando è iniziata ma non quando è stata chiusa. Una rivolta mancata, anche per il giudice Gherardo Colombo. Uno degli “eroi” di carta del pool di Mani pulite insieme a Davigo che ammette: “A 25 anni di Mani pulite, l’Italia è ancora più corrotta”. Bontà sua. IL RUOLO COMPLICE DEI MEDIA CODINI L’onesto politologo del “Mulino”, da lunghi anni stimato collaboratore del Corriere, sollecita, “per il bene del Paese”, di sciogliere i nodi del grande “imbroglio e della truffa” (animati dall’odio politico) - vittime prima Craxi e poi Berlusconi che “incarnavano il Male”. Ma l’oblio non può calare, voltandosi dall’altra parte, neppure sul ruolo parziale, disumano e di supplenza ai giudici - tutto in nome e per conto dei Poteri marci, ovviamente -, sulla parte in commedia avuto dai media nel linciaggio senza uno straccio di processo di una intera classe politica (e dirigenziale). IL TEOREMA DEL POOL: CREARE IL FATTO-REATO Come ciò sia potuto accadere grazie ai teoremi dei giudici di Mani pulite tenta di spiegarlo nel suo saggio “Il diritto penale totale” (il Mulino) il giurista Filippo Sgubbi. “Con il processo volto non ad accertare un fatto storico da ricondurre a una norma di legge, bensì a creare il fatto-reato”, osserva lo studioso. E ancora: ”Una giustizia che si avvale dell’apparato provvedimentale tipico dell’efficace decision making della magistratura per mirare a precisi scopi”. Quanto alla gogna che ha seguito i teoremi del pool, essa non ha precedenti in nessun Paese democratico. E nell’innalzare forche, in primis c’è il quotidiano dove Panebianco tiene cattedra. Cioè il “Corriere della Sera” diretto allora da Paolo Mieli. IL PENTIMENTO PELOSO DI MIELI Già, lo storico (senza storia), pentitosi (a babbo morto) di aver firmato l’appello contro il commissario Mario Calabresi assassinato dai terroristi rossi. Di ben altro dovrebbe cospargersi le ceneri sulla testa il nostro Paolino Mieli. ESPRESSO COLPO DI STATO Negli stessi Anni di Piombo, andrebbe riesaminato anche il ruolo di Mieli (ex Potere operaio) e della redazione dell’”Espresso” che ha combattuto degnamente tutte le sue battaglie sul fronte laico e di sinistra. Un ruolo, appunto, sul quale andrebbero sfoltite tutte le ombre che ancora permangono. Pur convinti che, alla fine, l’Espresso abbia operato correttamente su quel crinale pericoloso. IL CASO MORO E L’ESPRESSO Già. Qual è stato il limite considerato invalicabile tra prassi professionale corretta e una larga zona grigia - contiguità con l’Autonomia e il brigatismo rosso assai diffusa - da parte del settimanale di Caracciolo & Scalfari? E, soprattutto, se nel corso della trattativa sottobanco per la liberazione di Moro non si è andati oltre quel confine: dagli incontri al buio tra il socialista Signorile e Piperno nella redazione di via Po e in via del Babuino. Racconta Enzo Forcella in un volumetto edito dall’Espresso su trent’anni di terrorismo: “Tutto partì da una conversazione tra Signorile e il direttore Zanetti (contrario alla trattativa): “Non potresti mettermi in contatto con uno di quelli dell’Autonomia che ogni tanto intervistate? Zanetti girò la richiesta a Mario Scialoja, che seguiva per il settimanale il settore del terrorismo (…)”. D’AMATO, UNO “SPIONE” IN REDAZIONE A VIA PO L’incontro Signorile-Piperno-Scialoja si svolse nella casa di Zanetti: “Quasi subito – annota Forcella -, la conversazione scivolò su Moro. “Dimmi Piperno, hai un’entratura nelle Br?”, chiede Signorile. Piperno rispose di no, “comunque - aggiunse -, non dovrebbe essere impossibile far loro arrivare qualche messaggio basta mettere in moto un tam tam attraverso il quale il messaggio arriva dove deve arrivare…”. Senza mai mettere in discussione l’etica professionale dei suoi eccellenti redattori, rimane nell’ombra pure la presenza all’Espresso dell’editore Carlo Caracciolo di Federico Umberto D’Amato. Il capo dell’Ufficio affari riservati dal Viminale che dal 1977 al 1995 occupò, con lo pseudonimo Federico Godio, la rubrica di cucina. Si occupò di solo di mettere le stellette ai ristoranti? COME TI CUCINO IL “PIANO SOLO” Nel suo scrupoloso libro “La spia intoccabile” (Einaudi) dedicato al maestro del depistaggio, Giacomo Pacini si pone anche lui la domanda sul perché “Caracciolo ritenne di affidare incarichi di questo tipo proprio a D’Amato (che non era uno chef) non è dato sapere. Appare tuttavia legittimo chiedersi – aggiunge - se fu solo un caso che a far emergere lo scandalo Piano Solo (che portò alla delegittimazione del Sifar, con di fatto l’ascesa di D’Amato ai vertici degli apparati di sicurezza) fosse stato proprio quel settimanale”. E quale contributo ha dato il Re degli spioni nello scandalo Lockheed con la caccia all’Antilope Cobbler che sfiorò Aldo Moro e portò alle dimissioni del presidente della Repubblica, Giovanni Leone? Ah saperlo. WATERLOO VELTRONI SUL DELITTO MORO Dell’affaire Moro forse non ci libereremo mai se a truccare la verità sono i suoi stessi testimoni immemori. Il libricino di Walter Veltroni sul sequestro Moro attraverso alcuni testimoni, sembra più il tentativo di chiudere una finestra anziché spalancarla per far entrare aria fresca. Si tratta di un chiaro esempio, secondo il professor Panebianco, del nemico che diventa amico. Così, nel tentativo postumo di santificare il leader Dc delle “convergenze parallele”, il Letta-Letta di Urbano Cairo dimentica che in parlamento sia Moro sia Ugo La Malfa difesero i propri partiti dalle accuse sul finanziamento illecito ai partiti rivoltegli dai banchi dell’opposizione di sinistra. E davvero Moro pagò con la vita, come si narra non senza ragione e logica politica (magari complice la Cia) per la sua idea di portare i comunisti a governo dopo averlo messa alla berlina in parlamento? O, come sostengono i socialisti di fede craxiana, fu la linea della fermezza imposta dall’asse Dc-Pci a segnare la fine di Moro? IL PCI CONTRO MORO-COBLER Quel Pci di Berlinguer, va ricordato ancora, legato a doppio filo all’Urss guidata da Breznev con la sua ferrea dottrina anti atlantica, che un anno prima, appunto, aveva crocifisso Moro alle Camere per aver difeso (perdendo al momento della conta in aula) i ministri Gui e Tanassi dall’accusa di aver beneficiato di tangenti nello scandalo Lockheed. E Moro, accusato di essere Antilope Cobler da una fonte Usa, rivolto ai suoi avversari – quelli storici sì -, gridò: “Non ci faremo processare nelle piazze”. E se nel 1977 i giudici (già a conoscenza dei finanziamenti illegali ma resilienti) avessero raccolto il j’accuse di Berlinguer sulla “questione morale” che toccava i partiti, Aldo Moro sarebbero finito davanti a un tribunale un anno prima della sua uccisione. E se Veltroni andasse a sfogliare le collezioni del suo ex quotidiano, l’Unità, scoprirà che per il Pci Moro diventerà uno statista soltanto dopo il suo martirio nella prigione delle Br. L’ASSALTO AL QUIRINALE: DC-PCI SILURANO LEONE Tre date segnano in profondità il rapporto all’epoca a dir poco conflittuale tra lo statista Dc - che nel partito occupava il posto ritenuto quasi rappresentativo di presidente del Consiglio nazionale della Dc (come i suoi predecessori) -, e il Pci. Un anno marcato dallo scandalo Lockheed che alla fine vide - stavolta sì - la convergenza parallela (e perversa) tra Dc e Pci per far dimettere il capo dello Stato. Un’intentona supportata dalla violenta e martellante campagna dell’Espresso-Repubblica che punta dritto all’onorabilità dell’inquilino Quirinale. Ecco le date memorabili: 3 marzo 1978 la Corte costituzionale archivia le accuse contro Moro; 16 marzo 1978 sequestro Moro e uccisione della scorta da parte delle Br; 9 maggio 1978 ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani; 15 giugno 1978 dimissioni di Giovanni Leone. Sulla versione veltroniana del caso Moro, l’ex diccì Paolo Pomicino ha osservato su il Foglio: ”Affidare ai vinti la storia di questo Paese più che un errore è una tragica comicità”. BR E MANI PULITE LE AMNESIE DEI MEDIA Com’è accaduto per gli Anni di Piombo, anche sulla stagione di Mani pulite poco (o nulla) e con rare eccezioni, è stato esplorato sulla parte in commedia avuta dalla stampa in questi due passaggi controversi della nostra storia. Sugli anni del terrorismo basta ricordare, a titolo di esempio il diktat delle Rizzoli-P2, con la decisione del “Corriere” di non pubblicare i messaggi dei terroristi e il licenziamento di Giuliano Zincone dal “Lavoro” di Genova che non si piegò a quella scelta del gruppo. Avevano ragione Di Bella-Barbiellini Amidei o Zincone? E da chi arrivava l’ordine di togliere la parola alle Br? Senza evocare golpe e manine degli apparati deviati. Certe verità si ritrovano facilmente nelle stesse redazioni dei giornali. BORRELLI E MIELI AZZOPPANO SILVIO Due momenti della storia recente entro i quali Paolo Mieli (e non soltanto lui) avrebbe molto da spiegare per averla vissuta da testimone privilegiato con scaltrezza e capacità professionali. A proposito dell’Uomo Nero evocato da Panebianco e della sua demonizzazione, si potrebbe partire dall’avviso di garanzia al premier Berlusconi nel novembre 1994 alla vigilia di un convegno promosso a Napoli dall’Onu sulla criminalità organizzata. Una accusa grave di corruzione di finanzieri da cui il Cavaliere uscirà assolto nel 2001. UNO SCOOP-TRAPPOLA PER IL CAV DI ARCORE Chi passò al “Corriere” le carte del Cavaliere indagato? Quale era la fonte di quello scoop che provocò la caduta del governo e che oggi nessuno rivendica pur avendoci guadagnato i galloni d’inviato o di corrispondente all’estero. In America al cronista Mieli avrebbero dato il premio Pulitzer (o quantomeno un Premiolino meneghino) e un suo libro di memorie avrebbe scalato le classifiche in libreria. Ma in realtà il suo non era stato un nuovo Watergate per passare alla storia del giornalismo d’inchiesta, ma soltanto un Watercloset per nascondere le sue vergogne da cui tenersi poi lontano per le puzze che emanava. È stato il capo dello Stato dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro – magari via Gianni Agnelli -, che a dare ascolto al ministro dell’Interno Roberto Maroni sapeva da giorni dell’avviso? Oppure, come appare più credibile, Mieli e il giornale di via Solferino si sono resi complici (o partecipi) della “trappola” ordita dal pool di Mani pulite che - facendo uscire la notizia sul Corriere -, avrebbero conservato la competenza territoriale sul procedimento a carico di Berlusconi. Cioè a Milano e non a Roma. SE A RICORDARE È IL NEMICO-AMICO Dunque, come suggerisce Panebianco, “è meglio sforzarsi di ricordare” senza che sia “il nemico diventato amico”, riferendosi indirettamente all’ultima conversione di Michele (chi?) Santoro su Berlusconi. Un agit-prop dei media impegnato a recitare tutte le parti nel commedione tragico e cinico di quest’ultimo quarto di secolo. Con il boia che abbandona la garrota per raccogliere la testa del mozzato da esporre in tempi di pace e di rivoluzioni mancate. Un gran brutto spettacolo. Intanto, dopo otto anni la Corte europea dei diritti di Strasburgo chiede all’Italia se il Cavaliere abbia avuto un processo equo nel giudizio della Cassazione per frode fiscale che costò la sua decadenza dalla carica di senatore. Non è tempo di necrologi per l’Uomo nero Berlusconi al quale auguriamo resista-resista-resista alle intemperie della vita. L’ITALIA AMNESICA CHE CANCELLA I FATTI Ma siamo curiosi di leggere cosa sarà consegnato di lui dalla stampa dopo una lunga gogna mediatica. Nel suo “Giustizia politica”, il saggista Otto Kirchheimer, non a caso, dedica il suo lavoro proprio “alle vittime passate, presenti e future della giustizia politica”. Anche perché non vorremmo, come ammonisce lo storico Jean Tulard paventando una “nazione amnesica”, che “a forza di voler cancellare le macchie della storia, verrà un giorno in cui non sapremo più perché il ponte si chiama Austerlitz e il viale Jena”.