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lunedì 30 agosto 2021

La tavola nella storia. La religione del cibo

La tavola nella storia. La religione del cibo di Marino Niola L’uomo, si sa, è ciò che mangia. Ma quello che mangia dipende spesso dalla sua fede. Ecco perché è enfatizzata la condivisione alimentare 14 LUGLIO 2021 Sacrificare agli dèi significa principalmente dar loro da mangiare. A dirlo è il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Come dire che se l’uomo è ciò che mangia, Dio non è da meno. Perché in realtà, da che mondo è mondo, attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità. In questo senso il cibo, proprio in quanto carburante della storia, è anche la materia prima della religione. E le norme alimentari sono il fondamento di quelle morali, non la loro conseguenza. Ogni decalogo religioso, infatti, è un menu sottotraccia. Quel che è lecito e quel che è proibito, i tempi e le modalità della cottura, della produzione e del consumo, la convivialità, la comunione, lo scambio, le forme del sacrificio, le regole della macellazione animale e della produzione degli alimenti, hanno sempre un fondamento sacro. Nel senso che gli uomini attribuiscono al volere degli dèi norme, usi e consumi che in realtà loro stessi hanno creato. Ma che acquistano un’autorità indiscutibile, superiore, nel momento in cui vengono sacralizzati. Questo passaggio di mano, dagli umani ai divini, serve in principio a mettere un limite agli appetiti individuali, trasformando l’eccesso in peccato, per favorire una redistribuzione più vasta delle risorse alimentari. Ecco perché le religioni enfatizzano l’importanza della condivisione, della comunione alimentare. Che per i Cristiani ha il suo modello nell’Ultima Cena, quando Cristo offre all’umanità il dono-perdono del suo corpo, transustanziato in pane e in vino. Come se il cibo condiviso acquistasse un valore aggiunto, un plus spirituale, che nutre insieme l’anima e la carne. Ed è per questo che nell’Antico Testamento il profeta Amos, settecento anni prima di Cristo, tuona contro la grassezza. «Guai a voi, uomini pingui, ascoltate, vacche di Basan, che opprimete i poveri». Ci va giù duro anche Isaia, che colloca gli obesi tra i malvagi, perché la loro voracità oltrepassa i limiti del lecito e del giusto. Per una ragione analoga Dante sbatte i golosi all’Inferno. A ben guardare ad essere oggetto di tutti questi anatemi non è il sovrappeso in sé, ma l’egoismo di quelli che si pappano tutto, ingrassando a spese degli altri. E un Padre della Chiesa del calibro di Tertulliano afferma che una persona magra farà meno fatica ad entrare nel regno dei cieli che, notoriamente, ha una porta stretta. Traducendo in termini di peso e misura la parabola evangelica del cammello, che passa sfrecciando attraverso la cruna dell’ago, mentre il ricco Epulone, quello che secondo il Vangelo di Luca «tutti i giorni banchettava lautamente», si incastra tra gli stipiti celesti. Di fatto non siamo lontani da quel che dirà nel 1967 Papa Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio, «i ricchi sappiano almeno che i poveri sono alla loro porta e fanno la posta agli avanzi dei loro festini». Ma anche nel mondo mediterraneo politeista un filo doppio lega tavola e religione. In Grecia e a Roma il consumo dei cibi che costituiscono la base della tabella nutrizionale – cereali, carne e vino – è legato agli dèi e ai pasti sacrificali. Gli animali vengono immolati secondo un rituale specifico che in greco si chiama thusia, officiato da un sacerdote-macellaio, il mageiros. Pelle, grasso e ossa vengono gettate sul fuoco che arde sull’altare per offrirle agli immortali, che si nutrono di aromi e di effluvi. Mentre spalle e cosciotti vengono divorati dai cittadini. Che socializzano la tavola con i più poveri attraverso istituzioni sacre come le “cene di Ecate”, la dea della notte, dove i cibi del sacrificio, pagati dai benestanti, vengono rigorosamente consumati dai nullatenenti. In effetti proprio da questi banchetti sacri nasce quella che noi chiamiamo la sfera pubblica, koinon, contrapposta alla sfera privata, idion, una distinzione che alimenta ancora oggi il nostro pensiero politico. In altre parole, la democrazia ateniese è nata a tavola, ma una tavola con vista sull’Olimpo. E a Roma accade qualcosa di simile. Addirittura, secondo un grande storico delle religioni come John Scheid, buona parte del nostro attuale lessico politico deriva proprio dalla terminologia dei banchetti sacrificali romani. Per esempio, la parola «partecipazione», che per noi è il mantra della cittadinanza, viene da "pars capere", letteralmente "prendersi una parte del pasto sacrificale". E "princeps", da cui il nostro "principe", deriva da "primus capere", cioè "colui che viene servito per primo". Insomma, il sacrificio serve a ristabilire un equilibrio con il dio consacrandogli un cibo. Ma, al tempo stesso, determina l’identità di un popolo, attraverso la condivisione delle abitudini alimentari, influenzando il gusto, la sensibilità, le relazioni sociali, le differenze di genere. Secondo Pitagora, primo sponsor del vegetarianesimo, una donna che voglia essere irreprensibile, pia, in una parola «perfetta», dovrebbe prediligere le lattughe, perché anestetizzano il desiderio di cui le ragazze sarebbero ricche per natura. Lasciando perdere le carni che invece eccitano i sensi e l’anima. Chissà che l’attuale preferenza femminile per le insalatone, oltre che con ragioni di educazione e di linea, non abbia a che fare con quest’eco religiosa remota. Una eco che non ha mai smesso di abitare il nostro immaginario, gastronomico e non solo. Perché etica e dietetica, bilancia e coscienza, salute e salvezza vanno spesso di pari passo. E nel dilagare contemporaneo di diete fondate sulla privazione, sull’astinenza da questo o quell’alimento, su un intransigente ascetismo laico, riaffiora l’ombra lunga della precettistica religiosa. E di ideali religiosi come l’askesis, cioè la purezza, da cui deriva la parola ascesi. Che consiste nel praticare uno stile di vita temperante, rinunciante, misurato, non violento. Oggi diremmo politicamente corretto. Ovviamente a tavola è lecito fare come si crede. Rimpinzarsi o astenersi, premiarsi o punirsi. Ma è utile sapere che il nostro credo nutrizionale ha quasi sempre alle spalle un credo religioso. In fondo, credenti o non credenti, volenti o nolenti, ogni volta che ci mettiamo a tavola cerchiamo di mangiare come Dio comanda.

domenica 29 agosto 2021

Da spread a business e ceo, le 15 parole inglesi più usate (e abusate) in economia

di Diana Cavalcoli29 agosto 2021 1/17 Anglicismi ed economia A riaccendere il dibattito sui “prestiti linguistici” ci aveva pensato anche il premier Mario Draghi che in conferenza stampa qualche mese fa si era chiesto: «Ma perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi?». Il riferimento era a smart working e baby sitter. Il tema degli anglicismi, tecnicamente locuzioni o costrutti della lingua inglese importati in forma originale o adattati, accende intensi dibattiti da anni. Da una parte ci sono i difensori della lingua italiana dall’altra chi non si scompone di fronte ai termini presi in prestito soprattutto dall’inglese che si è imposto nel Bel Paese come seconda lingua a partire dagli anni Settanta. Ecco alcune delle parole arrivate da oltremanica e usate (o abusate) nel linguaggio economico e finanziario di oggi. Business Business è una delle parole più abusate nel linguaggio economico. A livello generale indica l’affare e quindi l’attività economica: il termine, di origine inglese, viene spesso associato ad altre parole costituendo espressioni molto utilizzate come business unit o core business, rispettivamente una certa divisione aziendale e l’attività caratteristica di un’azienda. Ceo e manager Nelle aziende italiane è sempre più comune chiamare l’amministratore delegato «Ceo». Un’abbreviazione di Chief executive officer che sembra essere molto più popolare del termine corrispettivo italiano. Non va meglio ai dirigenti che ormai vengono chiamati manager. Termine che deriva come ricorda la Treccani da manage ovvero«maneggiare (cavalli), amministrare, governare». Spread Ogni giorno quotidiani e telegiornali parlano di spread. L’origine del termine è inglese e indica la differenza di rendimento tra due titoli dello stesso tipo di cui uno viene considerato un titolo di riferimento. Lo spread non è altro che la misura del rischio di insolvenza collegato a un titolo di Stato. In italiano potrebbe essere tradotto con divario, scarto, forbice. Skill mismatch Quando si parla di mercato del lavoro in Italia skill mismatch è uno dei termini più comuni. Indica la discrepanza tra la domanda di competenze professionali e l’offerta di competenze di chi cerca un’occupazione. In estrema sintesi, le aziende cercano x sul mercato e trovano invece y. Bail in Bail in, letteralmente «salvataggio dall’interno» è un esempio perfetto di termine inglese ormai entrato nel linguaggio economico tanto che non viene più tradotto. «Un italianissimo ‘autosalvataggio’ — ricorda Michele Cortelazzo sul sito della Treccani — avrebbe spiegato meglio a Parlamento e cittadini cosa accade di brutto ai clienti di un istituto di credito prossimo al fallimento». Assessment e Hr Il termine assessment viene utilizzato in diversi contesti aziendali. Si va dall’ambito delle risorse umane, ormai chiamate anche in Italia Hr dall’inglese human resources, per indicare la valutazione dei candidati fino alla reportistica legata a progetti ed attività da portare a termine all’interno di un’organizzazione. Potrebbe essere tradotto con valutazione o accertamento. Best practice Con il terminebest practice si indicano le opzioni o scelte migliori da intraprendere. Si tratta di modelli di comportamento di riferimento. Molte organizzazioni ad esempio incoraggiano i dipendenti a seguire una serie di “best practices” descritte nel manuale aziendale oppure a prendere come modello le azioni virtuose di un concorrente. Spesso chiamato competitor dall’inglese. Benchmark Con benchmark si indica la prestazione di un certo titolo finanziario o di un fondo di investimento ma anche a livello generale un elemento di riferimento sulla base del quale si basa una comparazione. Il termine viene usato soprattutto nel lessico degli analisti finanziari. Default Con default nel linguaggio finanziario si indica la condizione di insolvenza di una banca o di un paese nei confronti di obbligazioni o debiti. Il termine è di origine inglese e potrebbe essere tradotto con inadempienza. Ci si riferisce all’incapacità tecnica del rispetto delle clausole contrattuali previste da un determinato regolamento finanziario. Rating Il rating nel linguaggio finanziario è una valutazione, effettuata da agenzie specializzate come Moody’s o Standard & Poor’s, della qualità e dell’indice di affidabilità dei titoli emessi da una società o da un’impresa e della sua solidità finanziaria. Il termine è talmente usato da non avere una traduzione in italiano al più si potrebbe usare «valutazione di affidabilità». Asset Nel linguaggio economico un asset è una qualunque voce attiva di un bilancio, quali beni di proprietà, liquidità e crediti. L’utilizzo del termine è ampio e potrebbe essere sostituito in italiano da un più generico beni. Trading Con trading si fa riferimento all’attività di compravendita di titoli azionari alla base dei sistemi borsistici odierni. Il termine è di derivazione anglosassone è si è imposto a tal punto da aver scalzato l’italianissimo scambio o commercio. Basta pensare che anche in italia di parla di insider trading per designare il delitto di abuso di informazioni privilegiate. Venture capital e startup In economia con venture capital, letteralmente «capitale a rischio», si fa riferimento ai fondi investiti a lungo termine in imprese caratterizzate da un elevato grado di rischio, come nel caso di nuove imprese che intendono produrre e offrire beni o servizi di tipo innovativo. L’esempio tipico sono le startup, altro termine inglese. Briffare e schedulare Ci sono poi parole derivate dall’inglese che sono state ‘storpiate’ e adattate all’italiano. È il caso di briffare per informare o skillare per dire formare. Senza dimenticare schedulare che deriva dal verbo to schedule ovvero calendarizzare in inglese.

sabato 28 agosto 2021

Perché la razza non esiste

di Marino Niola È il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita 03 AGOSTO 2021 Al mondo non ci sono che due razze, quella di chi ha e quella di chi non ha. Sono parole che Cervantes nel Don Chisciotte, mette in bocca alla nonna di Sancho Panza per riassumere i fondamentali della condizione umana. Siamo nel 1605, al tempo delle colonizzazioni e delle scoperte geografiche, e fra le persone veramente intelligenti il concetto di razza è già obsoleto, un vecchio arnese del pensiero. Buono solo per chi vuol farne un uso contundente. Ieri come oggi. Una “parola malata”, l’ha definita il direttore di questo giornale nel suo editoriale del 30 luglio scorso, proponendo opportunamente di cancellarla dal lessico delle istituzioni. Anche per neutralizzare la tossicità allo stato inerziale che si trova al fondo di questo vocabolo maledetto. Perfino quando viene usato con le migliori intenzioni, come nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Dove il termine viene impugnato dai Padri Costituenti come antidoto esplicito contro quella viralità, quella infezione che aveva ammalato le coscienze al tempo delle leggi razziali. O, meglio, razziste. Come una zavorra della storia, una patologia del linguaggio in grado di resistere agli anticorpi della civiltà e della conoscenza. Che siano le evidenze della ragione. O che siano le certe dimostrazioni della scienza. Che ha un bell’affannarsi a scodellare prove che la razza non spiega un bel niente delle differenze tra gli uomini. Che i nostri comportamenti non sono un prodotto di madre natura ma di madre cultura. Perché gusti e tendenze, passioni e vocazioni, consuetudini e attitudini, eredità e identità sono il risultato dell’ambiente in cui viviamo, dell’educazione che riceviamo, delle influenze che subiamo, delle esperienze che facciamo. E di quello che ciascuno di noi sceglie di essere. Etichettare e trattare gli altri come inferiori, peggiori, traditori, malfattori e “meno umani” di noi, è un atteggiamento che si ripete. Al quale il francese Joseph Arthur Gobineau, nel 1853 offre una sponda teorica pubblicando il Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, vera bibbia del razzismo. Che applica ai popoli e alle società un termine in precedenza usato solo per le razze animali. La “parola malata” infatti deriva dal francese medievale haraz, riferito agli allevamenti degli stalloni da riproduzione. Un’etimologia “bestiale”, che applicata agli umani finisce per produrre una de-umanizzazione della persona. In realtà la questione di fondo resta l’enorme sproporzione tra l’assoluta inconsistenza scientifica della nozione di razza e la sua straordinaria capacità di resistenza storica e politica. A denunciare per primo questa sproporzione è stato Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di sempre. Che nel 1952, a pochi anni dall’orrore della Shoah, scrive su invito dell’Unesco Razza e storia, un illuminato discorso sugli usi ed abusi della parola razza. E torna sull’argomento nel 1971, sempre su incarico dell’Unesco, con un testo, tradotto immediatamente in italiano da L’Espresso col titolo Il colore delle idee. Dove il grande studioso smonta, uno dopo l’altro, i falsi sillogismi razziali, fondandosi sui risultati delle ricerche scientifiche, unanimi nell’affermare che la razza non esiste. È la cultura invece che determina quel che chiamiamo erroneamente razza e non il contrario. Insomma, è il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita. Li fonde, li confonde, li trasfonde. Lo prova il fatto che il 99% del nostro Dna è comune a tutti gli altri individui del pianeta. E quell’1% è quel che distingue me da mio fratello. E anche me da Beyoncé. E, per venire a noi, quello che ci fa italiani — lingua, tradizioni, costumi, valori, gusti — non si eredita dai geni, ma si acquisisce vivendo con altre persone che tramandano questo patrimonio immateriale. Peraltro, in continuo cambiamento per effetto di scambi, prestiti, ibridazioni, migrazioni, contatti. In sostanza, la razza non esiste sul piano scientifico, ma purtroppo resiste come mito, soprattutto come mito politico. Un motivo in più per cancellarla dal vocabolario del marketing, delle statistiche, delle leggi. E anche dalla Costituzione. Perché è un lemma infetto, una tara inemendabile, un primordiale algoritmo dell’esclusione. Che sposta ogni volta la soglia della differenza per trasformarla in disuguaglianza, individuando continuamente nuovi bersagli. Ebrei o armeni, meridionali o immigrati e via all’infinito. Con l’effetto devastante di sdoganare atteggiamenti inqualificabili. Che adesso una politica che ha perso il senso del pudore difende e diffonde, come l’ennesima mutazione di un virus antico. La variante delta della barbarie. ------- L’iniziativa Un editoriale per dire basta Lo scorso 30 luglio il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha chiesto di bandire la parola “razza” da ogni testo europeo, compreso l’articolo 3 della nostra Costituzione. La redazione aveva infatti rinvenuto tale termine in un regolamento della Ue. Dopo l’articolo di Molinari sono intervenuti Chiara Valerio, Linda Laura Sabbadini, Umberto Gentiloni, Corrado Augias.

venerdì 27 agosto 2021

Quel gesto di fiducia dei rabbini verso il Papa

di Alberto Melloni (ansa) Perché hanno chiesto conto a Francesco di alcune sue frasi sulla Torah 26 AGOSTO 2021 Per cogliere il senso dell'appello rivolto al Papa da figure autorevoli del rabbinato contestando una sua catechesi sulla lettera ai Galati, bisogna fare qualche passo indietro. "Ogni conclusione dispregiativa sia ripudiata". Rabbini chiedono al Papa chiarimenti su sue frasi sulla Torah di Paolo Rodari 26 Agosto 2021 Indietro fino all'alba del regime di cristianità, quando una minoranza interna al giudaismo diventò religione dell'impero. Indietro fino al tempo in cui la crociata insegnò a uccidere gli ebrei. Indietro fino alle teologie che bruciavano i Talmud per costringere gli ebrei a essere ciò che si immaginava fossero. Indietro fino ai tempi di Jules Isaac, il grande storico francese scampato per caso nel 1943 alla deportazione ad Auschwitz della intera famiglia: intellettuale coraggioso del dialogo a cui si devono le amicizie ebraico-cristiane e i "punti" di Seelisberg che nel 1947 ponevano il problema del rapporto fra la pratica genocidaria della Shoah e la predicazione cristiana del disprezzo antiebraico. Non ci si poteva liberare da quel nodo baloccandosi con la ovvia differenza fra il razzismo "biologico" dei fascismi e l'antisemitismo "teologico" dei cristiani. Infatti il problema non era la loro diversità: ma il sommarsi dei rispettivi disvalori. E fu anche grazie al coraggio con cui Giovanni XXIII assunse i punti di Seelisberg che il concilio, nel 1965, sarebbe giunto alla deplorazione solenne dell'antisemitismo "di chiunque e di qualunque tempo". Quell'atto ha permesso molte cose: la cassazione del "perfidis" dal Messale, la sconfessione della accusa di deicidio e del sangue - su fino al discorso di Wojty?a a Magonza, nel 1980: in cui il Papa riprese il dettato neotestamentario sull'eternità dell'alleanza fra Dio e Israele, di cui il dono della Torah, scritta e orale è pegno e via. Una svolta epocale: che tuttavia lasciava prevedere che la massa inerziale di secoli di antisemitismo cattolico, avrebbe permesso a pregiudizi antichi e facilonerie solo apparentemente innocue di ripresentarsi: per tradizionalismo, per ignoranza, per superficialità. Ed era prevedibile che contro di esse non sarebbe bastato né il dialogo degli insipidi né la vigilanza degli spigolosi: serviva una vigilanza dialogica, esigente. Quella che c'è fra persone che si fidano. È questa fiducia che ha segnato il rapporto fra il rabbinato e papa Francesco davanti a letture sbagliate del Nuovo Testamento. Si pensi alle espressioni contro i farisei: frasi che sono diventate la matrice della cantilena che oppone il cristianesimo "religione dell'amore" al giudaismo "religione del taglione": marker che segnala un analfabetismo religioso patente e un antisemitismo latente. Si pensi alla predicazione di Paolo di Tarso, la cui teologia della grazia alle genti, decontestualizzata, è diventata leva per sostituirsi alla elezione. Su questi punti il rabbinato ha fatto con Francesco ciò che non si sarebbe fidato a fare con nessun altro Papa: esplicitare le proprie ansietà e spiegare, nel caso della catechesi agostana sui Galati letta dal Papa, che presentare l'anteriorità della alleanza rispetto al dono della Legge significa suggerire l'obsolescenza della osservanza della Torah ed evocare teologie della sostituzione che non è difficile nemmeno oggi saldare ad altre culture dell'odio. Eccesso di suscettibilità rabbinica? Pretesa smodata? No, se mai il contrario. È la prova che l'ebraismo confida che il Papa capisca: un titolo concesso a pochi. È la fiducia che nel viaggio in Ungheria e Slovacchia - luoghi densi di discriminazioni antiche e moderne che sovente agitano empie la croce come un feticcio - il Papa chiederà perdono dell'antisemitismo di ieri e di oggi e saprà rispondere a quell'appello che non può restare inascoltato perché tocca una delle cicatrici più tragiche della storia ebraica e cristiana.

giovedì 26 agosto 2021

Il Consiglio di Stato boccia gli ambientalisti: "Le cave di marmo non danneggiano l'ambiente" esultano le aziende

25 AGOSTO 2021 Il Consiglio di Stato ha rigettato un appello di associazioni ambientaliste contro le cave di marmo sulle Alpi Apuane rispetto a quanto stabilito dal Pit (Piano paesaggistico) della Regione Toscana. Il Consiglio di Stato ha rigettato integralmente l'appello per infondatezza. Le cave erano rappresentate in giudizio da Henraux spa, società con sede a Querceta (Lucca) che festeggia i 200 anni di storia e che - rendendo noto l'esito dell'appello - parla di "sentenza storica che restituisce con assolutezza il valore fondamentale e incontrastabile delle cave di marmo per il sostegno economico alla popolazione locale, che pone l'accento sull'importanza della filiera corta e che dichiara in modo netto e preciso come le cave di marmo non creino alcun danno ambientale". Henraux spa, assistita dall'avvocato Cristiana Carcelli, ha difeso, da sola, sia nel primo grado davanti al Tar Toscana che nel secondo grado innanzi al Consiglio di Stato, in sede cautelare e nel merito, "l'intero comparto delle cave di marmo di fronte all'ennesimo attacco delle associazioni ambientaliste che interpretano normative delicate e complesse in maniera distorta" ottenendo il "rigetto integrale dell'appello per totale infondatezza e condanna alle spese in solido per le associazioni appellanti" che avevano impugnato la delibera regionale di integrazione del Pit, laddove consente l'apertura di nuove cave, la riattivazione di cave dismesse e l'ampliamento di cave esistenti nei bacini estrattivi siti nel perimetro del Parco regionale delle Alpi Apuane e in particolare nelle cosiddette 'aree contigue di cava'. In buona sostanza, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha puntualizzato in modo chiaro e netto quanto sempre affermato da Henraux, cioè che "le aree contigue di cava non sono 'area protettà e che non vi è una lesione dei valori di tutela del paesaggio, dell'ambiente e della salute". "Le 'aree contigue di cavà - si legge nella sentenza - non sono funditus parte del Parco stesso, pur se geograficamente collocate entro il relativo perimetro (analogamente, per vero, è previsto per i centri urbani insistenti all'interno del perimetro del Parco): la l.r. n. 65 del 1997, con cui a suo tempo fu istituito l'Ente Parco, ha infatti escluso le 'aree contigue di cavà dall'area naturale protetta". La sentenza sottolinea inoltre come il Parco delle Alpi Apuane "sia ente preposto al perseguimento del miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali mediante la tutela dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali e la realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema" e considera anche che "le attività di escavazione sono tradizionali della zona e qui svolte da secoli hanno creato un autonomo rilievo culturale ed identitario, che ne rende logica la protezione e la considerazione normativa". "Henraux è una storica azienda che non solo svolge la sua attività nel più scrupoloso rispetto delle normative vigenti, ma che ha da tempo adottato iniziative e pratiche volte a migliorare la sostenibilità e l'impatto ambientale dell'attività estrattiva - dichiara Paolo Carli, presidente di Henraux spa, insieme al cda - Questa sentenza è un atto di giustizia vero e profondo nei confronti del territorio e della sua storia. È un risarcimento morale per tutti coloro che ogni giorno impiegano le proprie energie e le proprie risorse per migliorare le condizioni economiche e sociali della comunità. In maniera incontrovertibile questa è una definitiva pronuncia che dà ragione all'industria, a questa industria che ha una profonda e antica ragione d'essere e di rappresentare orgogliosamente in tutto il mondo la bellezza e unicità del Made in Italy". La sentenza del Consiglio di Stato "salva un settore d'eccellenza e rimarca che il lavoro e lo sviluppo non confliggono con la tutela dell'ambiente", commenta Erica Mazzetti, membro della Commissione Ambiente della Camera. "La sentenza - afferma - sottolinea l'importanza delle cave per le comunità locali e quanto esse siano parte integrante del territorio, non entità esterne venute per depredarlo a discapito della collettività come certe distorsioni vorrebbero far credere. Altro punto spesso omesso dai cosiddetti paladini dell'ambiente che invece merita evidenziare: le aziende che hanno tentato di colpire hanno compiuto molti sforzi per migliorare le proprie produzioni rendendole ancor meno impattanti". La sentenza è, secondo Mazzetti, "un bel colpo a quell'ambientalismo spicciolo e ideologico di cui purtroppo le aziende, che in questo caso si sono dovute difendere, e i cittadini pagano le conseguenze".

giovedì 5 agosto 2021

Il contratto telefonico non corrisponde a quello via mail, disdetta da operatore

di Alesssandro Longo Problemi col tuo operatore? Fai la tua domanda all'esperto: esperto.telefonia@repubblica.it Ho richiesto l'attivazione di NeXXt Casa Fastweb (internet e chiamate) in promozione fino al 15/07/21, pubblicizzata sul sito a 22,95 euro per 12 mesi. Mi faccio contattare dal 146 che corrisponde a un loro Partner, l'agenzia H2COM che si occupa delle proposte commerciali. Al telefono chiedo tutte le informazioni preliminari a conferma dell'offerta pubblicizzata. Ricevo un sms con un link da confermare che corrisponde a una prima attivazione e a seguire una mail con il contratto e le condizioni di vendita. A questo punto scopro che mancano i "3 mesi di Discovery+" inclusi nell'offerta e che ci sono costi fissi una tantum di migrazione ad altro operatore. Chiamo più volte il 146 per chiedere spiegazioni, mi dicono che non possono fare più nulla, il contratto risulta chiuso e definitivo. Mi consigliano di contattare il servizio clienti. Peccato che i loro recapiti siano solo per chi è già cliente acquisito. Li devo contattare con un numero WhatsApp che mi costringe ad interagire con un risponditore automatico che va in loop senza avere la possibilità di parlare con un operatore. Dopo varie peripezie parlo con un operatore dell'assistenza clienti, il quale mi conferma che il contratto è attivo e non si possono fare modifiche se non recedendo dal contratto. È chiaro che c’è un illecito da parte dell'agente che ha chiamato. Le condizioni contrattuali dette al telefono devono corrispondere a quelle effettive in tutti i particolari, compresi costi iniziali, di attivazione ed eventuali servizi inclusi. Il contratto che si riceve via mail è un “supporto durevole” (come dice la normativa) copia della registrazione della telefonata dove l’operatore ha descritto tutte le condizioni dell’offerta. Il contratto è sottoscritto già al telefono, ma se c’è discordanza tra quanto detto e quanto scritto nel contratto certo non è valido. Ed è facile verificare grazie alla registrazione. Il diritto al ripensamento ci tutela, ma non è nato per difendere gli utenti da questi illeciti ma proprio per esercitare un “diritto a ripensarci” sulle condizioni contrattuali e sul servizio sottoscritto consapevolmente. L’utente non deve pagare nessun costo e verifichi eventuali addebiti dell’operatore, contestandoli con le ragioni di cui sopra. Questa vicenda è utile lezione a tutti gli utenti: ci ricorda di verificare il contratto che ci arriva via mail dopo una sottoscrizione telefonica. Per evitare queste incognite, comunque, è sempre meglio fare abbonamenti tutti online.