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domenica 20 gennaio 2019

I cattolici e la classe dirigente

Corriere della Sera
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OPINIONI

COMMENTO

Chi vuole avere in futuro élite politiche di valore deve ricostituire scuole - di ogni ordine e grado - di valore e reimpostare in chiave meritocratica il nostro sistema educativo

di Angelo Panebianco


Accade talvolta che una discussione pubblica sia molto più interessante per ciò che essa sottintende, per ciò che vi si scorge sottotraccia, che non per gli argomenti usati dai partecipanti. Tale è forse il dibattito che (nel centenario dell’«Appello al Paese» di Luigi Sturzo, il padre del popolarismo) sta animando alcuni settori della Chiesa e ambienti ad essa collegati. Esprime il desiderio o la speranza (non ancora un progetto) di vedere rinascere, qui in Italia, un partito dei cattolici. Se ne comprendono le ragioni. Da un lato, una generale insoddisfazione, che accomuna molti cattolici (ma non solo loro) , per la qualità della classe politica italiana nelle sue varie componenti. Dall’altro lato, il fatto che in Italia viga di nuovo il metodo elettorale proporzionale: nella lunga età dell’oro del (secondo) partito cattolico - la Democrazia cristiana - c’era, per l’appunto, la proporzionale. Perché non cogliere l’occasione? Sia detto col massimo rispetto possibile: la discussione mi pare poco sensata. La politica dell’identità cattolica è fuori tempo massimo. Non si tiene conto della secolarizzazione: come è possibile ipotizzare che a chiese poco frequentate e a seminari vuoti possano corrispondere urne elettorali traboccanti di voti cattolici? Davvero avrebbe senso dare vita a un partito dei cattolici del 4, del 5 o persino dell’8 per cento? Non sarebbe un modo, abbastanza autolesionista, di fare «pesare» ufficialmente, pubblicamente, la propria (ormai scarsa) forza politica? Si tenga per giunta conto del fatto che il tramonto della politica dell’identità cattolica qualche vantaggio ai cattolici lo ha comunque dato. Oggi un leader politico capace può attirare il consenso di cattolici e di non cattolici indifferentemente. Solo la sua qualità e le sue proposte contano. Il fatto che, eventualmente, egli sia un cattolico, di sicuro non impedirà a elettori non credenti di apprezzarlo e di sostenerlo.

Ciò premesso, il dibattito sul partito cattolico è interessante per ciò che sottintende. Vi ha accennato Ernesto Galli della Loggia (Corriere, 18 gennaio) nella sua ricostruzione sul ruolo politico dei cattolici italiani. Il «sottinteso», il sottotraccia, riguarda il modo di formazione delle classi politiche in Italia. Con tutta evidenza, la scomparsa dei partiti politici storici dei primi anni novanta, ha fatto scomparire anche sedi e canali mediante i quali venivano «allevati», educati, i futuri politici. È da quel buco nero che sono schizzati fuori i tantissimi dilettanti allo sbaraglio che affollano la vita pubblica italiana, persino in posizioni apicali. C’è per lo meno un barlume di razionalità (ossia, se ne capiscono le ragioni), nel fatto che qualcuno abbia pensato: se non ci sono più i partiti storici a formare le classi politiche, perché non rivolgersi alle istituzioni ecclesiali? Con le loro tradizioni e la loro antica sapienza non mantengono forse una capacità di formazione di classi dirigenti che non è presente in altri luoghi? A parte il fatto che anche quelle istituzioni e le loro antiche capacità sembrano essersi alquanto deteriorate negli ultimi tempi, resta che, pur essendo comprensibile, questo ragionamento è fallace. Se quella strada venisse davvero percorsa verrebbero danneggiate in un colpo solo la democrazia italiana (colpita nella sua laicità) e la Chiesa (trascinata per i capelli dentro lotte partigiane).


Però l’esigenza che sta sottotraccia in quel dibattito permane. Come formare classi politiche di qualità? Poiché i partiti, così come (nel bene e nel male) li abbiamo conosciuti, non sono più ricostituibili nell’epoca dei social, che si può fare? Una strada (forse l’unica possibile, almeno sulla carta) ci sarebbe. Premetto che ci sono due pesanti controindicazioni. La prima è che gli eventuali buoni risultati potrebbero venir fuori solo nel medio-lungo termine. La seconda è che non sarà una strada praticabile fin quando le cosidette élite continueranno a fare spallucce, a voltarsi dall’altra parte, o a sbadigliare (come hanno sempre fatto), quando qualcuno solleva l’argomento.

Chi vuole avere in futuro élite politiche di valore deve ricostituire scuole, di ogni ordine e grado, di valore, deve reimpostare in chiave rigorosamente meritocratica il nostro sistema educativo. Attenzione, non si tratta di cadere nell’ingenuità di credere che ciò di per sé possa formare classi politiche capaci (questo è un pregiudizio intellettualistico che non appartiene a chi scrive). No, avere scuole di qualità comporta la formazione di una massa critica di «pubblico attento», indisponibile a perdonare ai politici strafalcioni e fesserie. Un folto pubblico attento, prodotto di scuole di qualità, non avrebbe mai permesso a politici di poco valore, ad esempio, di incoraggiare i no vax e altre correnti irrazionali (che cosa è successo e perché agli ulivi pugliesi attaccati dalla Xylella?) che rendono la vita quotidiana irrespirabile. La selezione di classi politiche migliori può essere solo un sottoprodotto: il frutto della affermazione di un pubblico (minoritario ma comunque consistente) composto da persone rese esigenti grazie a un sistema di istruzione di qualità. In tanti si strappano i capelli oggi perché la vita pubblica è affollata da mediocri. Ma se costoro non capiscono quanto abbia pesato e quanto pesi il deterioramento del sistema educativo, allora ciò significa che anch’essi sono dei mediocri. Non importa, francamente, se sono cattolici o non lo sono.

19 gennaio 2019 (modifica il 19 gennaio 2019 | 22:16)

mercoledì 16 gennaio 2019

La solitudine del neoliberista

ANTEPRIMA
Il saggio di Alberto Mingardi

Un’arringa controcorrente sfida i pregiudizi diffusi contro l’economia di mercato: il libro (Marsilio) prende di mira la nuova retorica sovranista e i fautori dell’intervento statale
  di FERRUCCIO DE BORTOLI

Alberto Mingardi non ci sta. Come il più indomito dei salmoni risale la corrente contraria al neoliberismo. Argomenta, polemizza, smonta luoghi comuni e false rappresentazioni. Ma è, purtroppo, in questo momento, un gladiatore solitario. Nel suo La verità, vi prego, sul neoliberismo (Marsilio), il direttore dell’Istituto Bruno Leoni si mostra convinto che le politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati siano state una rarità. Una fioca luce accesa solo da due giganti del Novecento come Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Altro che eccesso da «ordoliberismo», termine tornato di moda perché usato fino alla noia dalla propaganda populista e nazionalista. Anche contro l’Unione Europea a «trazione tedesca». «Ordo» era la rivista degli sfortunati paladini della concorrenza nella Germania degli anni Trenta. La Germania peraltro è stata autenticamente liberale, secondo l’autore, solo negli anni di Erhard.


Esce in libreria il 17 gennaio  il libro di Alberto Mingardi «La verità, vi prego, sul neoliberismo. Il poco che c’è, il tanto che manca», edito da Marsilio (pagine 398, euro 20)
Esce in libreria il 17 gennaio il libro di Alberto Mingardi «La verità, vi prego, sul neoliberismo. Il poco che c’è, il tanto che manca», edito da Marsilio (pagine 398, euro 20)
«Non c’è disastro, dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova — scrive Mingardi, che è anche docente di Storia del pensiero politico — che non sia colpa del neoliberismo». Si comincia con le accuse alla Mont Pelerin Society — il club privato liberale cui aderirono, tra gli altri, Wilhelm Röpke e Milton Friedman — di essere il «puparo» del Cile di Pinochet. E si finisce con l’ultima crisi finanziaria frutto della insana deregulation bancaria e dell’eccesso di globalizzazione. Un fenomeno, quest’ultimo, assai complesso, non spiegabile solo con l’abolizione del Glass-Steagall Act e la conseguente troppa libertà lasciata alle banche d’affari. «La crisi venne dall’immobiliare e dalla proliferazione delle ipoteche a rischio». In sintesi, possiamo dire che se la libertà di mercato è usata male, non è una ragione per toglierla del tutto. È l’occasione per regolarla meglio.

Secondo Mingardi «la pietra angolare della leggenda nera del neoliberismo» è riassumibile in un assunto, assai popolare. «I neoliberisti si sono impadroniti del potere, gli elettori hanno subìto un lavaggio del cervello ad opera dell’intellettuale collettivo neoliberista. Tutto ciò ha offerto una visione distorta del rapporto tra Stato e mercato». In realtà di Stato ce n’è ancora tanto e di mercato relativamente poco. La globalizzazione, spiega l’autore, non è come molti pensano un fenomeno recente, degli ultimi trent’anni, da quando è caduto il Muro di Berlino. «Negli Anni Novanta dell’Ottocento erano rimasti solo due Paesi a richiedere un passaporto a chi si presentava alla loro frontiera: la Russia e l’Impero ottomano». Mingardi si chiede quanto neoliberismo ci sia nella globalizzazione. Non tanto. Spiega le virtù della divisione internazionale del lavoro e del ricardiano vantaggio comparato che porta alla specializzazione e all’efficienza. Calcola i costi, indiretti e invisibili, del protezionismo, il cui dividendo politico è alto solo nel breve periodo. Nega che le politiche neoliberiste, quando mai siano state veramente perseguite, abbiano prodotto un indebolimento dello Stato sociale. In media nei Paesi Ocse la spesa sociale è cresciuta dal 16 per cento, rispetto al Pil (Prodotto interno lordo), del 1990 al 21 per cento del 2016.

La concorrenza rimane una chimera. L’Italia avrebbe l’obbligo, dal 2009, di produrre ogni anno una legge sulla concorrenza. L’ha fatta una volta sola il governo Renzi. E dopo 895 giorni è uscito dal Parlamento un mostro giuridico. «In un Paese come il nostro — scrive l’autore — nel quale gli stessi legislatori ignorano quante siano di preciso le leggi, parlare di neoliberismo o di eccesso di deregolamentazione è persino ridicolo». Un Paese più diseguale. Secondo Mingardi, soprattutto maledettamente immobile. Ricurvo su se stesso.

Anche l’euro è colpa o merito del neoliberismo? La moneta unica non piaceva a Milton Friedman. È stata una creatura dei poteri statali. Con un grande merito, nell’analisi liberale: l’indipendenza della banca centrale. La sovranità monetaria degli Stati, nell’opinione dell’economista spagnolo Jesús Huerta de Soto, è «la possibilità di manipolare la propria moneta per metterla al servizio delle necessità politiche». E i cambi fissi costringono i governi a «dire la verità ai cittadini». Se avessimo ancora la lira — che nei dieci anni precedenti all’euro perse la metà del proprio valore sul dollaro — oggi, con quel ritmo di svalutazione, un iPhone ci costerebbe tre volte di più. E così la benzina, i viaggi aerei. Ma la nostalgia, tratto irrazionale di questa fase della politica, ingigantisce i presunti vantaggi del passato e cancella il ricordo di miserie, malattie, guerre. Il ritorno alla tribù non nasconde solo il desiderio di vivere in un luogo sicuro. C’è il fastidio della complessità, che comporta sacrificio, studio, impegno.

Sorprende che un economista raffinato come Mingardi ricorra a uno chef dai modi spicci, come Antonino Cannavacciuolo, per spiegare il «calcolo economico» di Ludwig von Mises. Ma l’esempio è efficace. Nella «cucina da incubo», Cannavacciuolo riporta cuochi e gestori alle logiche del prezzo e della convenienza del consumatore. In Italia ci sono 200 mila ristoranti, il 45 per cento delle attività non sopravvive tre anni. Forse un po’ lungo è il «corpo a corpo» dell’autore con Mariana Mazzucato che difende il ruolo dello Stato in economia. È semplicistico dire che solo grazie al finanziamento pubblico è stato inventato Internet, frutto della ricerca di grandi centri universitari, pubblici e privati. O l’iPhone. Forse lo si può sostenere per il sistema Gps e per l’effetto civile di alcune spese militari, ma una innovazione è sempre la conseguenza di un ambiente aperto, dello spirito di iniziativa dei singoli, dello scambio di saperi, del confronto continuo. Mingardi cita un bellissimo discorso di Obama che ai suoi occhi è stato troppo socialista per essere un grande presidente degli Stati Uniti. «Se avete avuto successo è perché qualcuno prima o poi vi ha aiutato. In un certo momento della vita c’è stato un grande insegnante». Magari venuto da fuori, immigrato. Grazie a una società aperta. Ci sono solide ragioni economiche nel regolare al meglio l’immigrazione «e non solo per pagare le pensioni future», afferma Mingardi. «Gli esseri umani sono sempre una ricchezza». Insomma, quel poco di liberismo che c’è, è in sintesi il pensiero finale dell’autore, «ha prodotto ricchezza e opportunità». E nel tornare indietro abbiamo molto da perdere. Ma purtroppo non ce ne accorgiamo. Per ora.

La presentazione
Il libro di Alberto Mingardi sarà presentato a Roma il 21 gennaio (ore 17.30) alla libreria Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi. Con l’autore intervengono Emma Bonino, Mara Carfagna, Angelo Panebianco. Modera Silvia Sciorilli Borrelli. Invece a Milano l’incontro si terrà il 31 gennaio (ore 18) alla Libreria Mondadori di piazza Duomo con Paolo Del Debbio e Massimo Gramellini. Modera Sergio Scalpelli.

15 gennaio 2019 (modifica il 15 gennaio 2019 | 21:29)

domenica 13 gennaio 2019

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti"

CULTURE
06/08/2013 15:11 CEST | Aggiornato 18/08/2018 18:16 CEST

Andrea Purgatori, L'Huffington Post

HUFFINGTON POST
"L'Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi". Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un'idea precisa del malessere del suo popolo. Un'idea drammatica. Con una premessa: "Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio".

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell'Italia, professor Andreoli?

"Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei "masochismo nascosto". Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell'esibizionismo".

Mi faccia capire questa storia della maschera.

"Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi...".

Esibizionisti.

"Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che, generalmente, l'esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l'impotenza".

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

"Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall'esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c'è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c'è niente".

Secondo sintomo.

"L'individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato...".

Cattivo.

"Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire "cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?", scatta l'io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo... individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All'amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato".

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

"La recita".

La recita?

"Aaaahhh, proprio così... noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l'italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l'attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?".

Che fanno gli inglesi?

"Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale".

Torniamo ai sintomi, professore.

"No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un'unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c'è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede...".

Con la fede non si scherza.

"Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c'è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E' una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l'altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c'è il miracolo".

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

"Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l'Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa".

E allora?

"Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l'unica considerazione è che il manicomio è l'Italia. E l'unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto".

Scherza o dice sul serio?

"Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell'ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E' come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo".

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

"Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l'uomo... attaccato nel vuoto al suo filo di ragno".

E lei, perché non se ne va?

"Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me".

Grazie della seduta, professore.

"Prego".

giovedì 10 gennaio 2019

A QUALCUNO PIACE VALDO - CHI SONO I VALDESI, CHE SALVANO LA FACCIA DEL GOVERNO PRENDENDOSI I 10 MIGRANTI DI SEA WATCH E SEA EYE ''SENZA ONERI PER LO STATO''

LA STORIA, DA PIETRO VALDO (1170) ALLE PERSECUZIONI, FINO A OGGI: LE DIFFERENZE COI CATTOLICI E  COME VIVONO LA LORO RELIGIONE
Giulia Mengolini per www.lettera43.it

Usare i valdesi per salvare la faccia al governo Lega-Movimento 5 stelle. Nel vertice notturno tra il 9 e il 10 gennaio 2019 il premier Giuseppe Conte e il ministro dell'Interno Matteo Salvini hanno trovato un compromesso politico sulla pelle di 10 migranti da accogliere dopo lo sbarco della Sea Watch e della Sea Eye a Malta affidandoli ufficialmente non all'Italia, ma alla Chiesa valdese, senza dunque «oneri per lo Stato».

Ma chi sono i valdesi? Erano già balzati agli onori della cronaca nel 2015. Quando papa Francesco si rese protagonista di un'apertura storica, diventando il primo pontefice a visitare un tempio valdese. Bergoglio, a Torino, chiese anche scusa ai valdesi per quanto fatto contro di loro dai cattolici. «Da parte della Chiesa cattolica», disse, «vi chiedo perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi. In nome del Signore Gesù Cristo, perdonateci!». Ma qual è la storia dei valdesi?

1. ORIGINI: IL FONDATORE È VALDO, LAICO SCOMUNICATO

Il fondatore della chiesa evangelica valdese è Pietro Valdo, un ricco mercante di Lione che verso il 1170-75, in seguito a una profonda crisi spirituale, cambiò radicalmente vita dando i suoi beni ai poveri e mettendosi a predicare l'Evangelo al popolo. Rifiutandosi di obbedire al vescovo di Lione Guichard e alle altre autorità ecclesiastiche della città che gli imponevano, in quanto laico, di non predicare al pubblico, fu scomunicato assieme a coloro che presto si unirono a lui, per seguire il suo esempio e il suo ideale di vita cristiana. 

Quello che lo distinse da Francesco d'Assisi fu che egli non fondò un ordine monastico, ma continuò a vivere in mezzo alla gente da semplice laico, leggendo e predicando il contenuto di alcuni libri della Bibbia che egli si fece tradurre in lingua volgare. Il vescovo della città gli proibì di predicare, perché egli era laico, ma Valdo, disobbedendo, continuò a farlo. Nonostante la scomunica e le persecuzioni, questo movimento si diffuse non solo in Francia, ma anche in tante altre parti d'Europa e anche in Italia, specialmente in Lombardia, dove fu chiamato dai "Poveri Lombardi".

2. PERSECUZIONI: IL 17 FEBBRAIO GIORNO DELLA MEMORIA

Nel 1532 i valdesi aderirono alla Riforma protestante. In seguito a sanguinose persecuzioni, dal XVI secolo sopravvissero nelle valli del Piemonte finché, ottenuti i diritti civili il 17 febbraio 1848, si diffusero in tutta Italia. Fra tutte le date della propria storia la comunità valdese ha scelto come momento significativo di memoria proprio il 17 febbraio, giorno del 1948 in cui Carlo Alberto pose fine a secoli di discriminazione riconoscendo ai suoi sudditi valdesi i diritti civili e politici.

3. DIFFUSIONE E NUMERI: 45 MILA TRA ITALIA E SUD AMERICA

Sparse su tutto il territorio nazionale, le comunità valdesi rappresentano una minoranza evangelica significativa. Gli appartenenti alle loro Chiese sono oggi in Italia e in Sud America circa 45 mila, ripartiti geograficamente in tre gruppi. Il primo è quello che risiede nelle Valli del Piemonte occidentale, a Ovest di Pinerolo, dove le chiese hanno vissuto isolate fino al 1848.

In Piemonte se ne contano 41 (120 in tutta Italia) di cui 18 nelle Valli Valdesi: e hanno il loro centro a Torre Pellice, in provincia di Torino. Ma i valdesi sono disseminati in tutta la Penisola: una presenza importante a Torino, Firenze e Roma. Il terzo nucleo è invece costituito dalle chiese sudamericane organizzate nella Iglesia Evangelica Valdese del Rio de la Plata.

4. DIFFERENZE COI CATTOLICI: NIENTE PREGHIERE AI SANTI

La Chiesa valdese e la Chiesa cattolica, essendo entrambe cristiane, hanno molti punti in comune, come la fede in un unico Dio, nello Spirito Santo e nella stessa Bibbia (Antico e Nuovo Testamento). Tuttavia tra le due Chiese ci sono differenze notevoli. Quelle principali riguardano la stessa Bibbia, non solo per il suo contenuto e l'interpretazione di alcuni passi, ma specialmente per il posto che occupa nelle rispettive Chiese.

Per la Chiesa valdese, e per le altre Chiese evangeliche, in base al principio sola Scriptura affermato dalla Riforma, la Bibbia è la sola norma per la fede e la vita dei credenti; mentre per la Chiesa cattolica accanto alla Bibbia si pone, come avente pari autorità, la tradizione orale, ed entrambe (Bibbia e tradizione) devono essere accolte solo secondo l'interpretazione considerata infallibile del magistero papale. Inoltre, per i valdesi, come per tutti gli altri evangelici, Gesù è la sola via per andare al Padre, unico mediatore fra Dio e gli uomini. La loro chiesa esclude quindi le preghiere e gli atti devozionali rivolti alla Madonna e ai santi.

5. SIMBOLI E TEMI ETICI: CONTRARI AL CROCIFISSO

Come tutti i cristiani, i valdesi usano avere nei loro locali di culto il simbolo della croce, ma sono contrari all'esposizione del crocifisso per ragione teologica: dopo essere stato crocifisso, Gesù è resuscitato. L'immagine che i suoi apostoli ci hanno lasciato non è quella del suo corpo in croce, ma quella delle sue apparizioni dopo essere risorto. La chiesa valdese si schiera con la laicità dello Stato. Favorisce il dibattito su temi etici come l'aborto, l'eutanasia, il testamento biologico. Per quanto riguarda l'omosessualità, la chiesa valdese è attivamente impegnata nella lotta all'omofobia e nel supporto della comunità Lgbt.


 

domenica 6 gennaio 2019

La routine giornaliera ci spiega perché non si può stare senza Europa

Noi e l’Unione. Quanto il sistema di regolazione europea ha inciso sulla qualità della vita (e non ce ne accorgiamo)

di Dario Bevilacqua ed Edoardo Chiti su "ilfoglio.it"

6 Gennaio 2019 alle 06:00

Ogni mattina, appena alzati, Mario e Giovanna, due trentenni sposati di fresco che vivono e lavorano in una piccola provincia italiana, preparano il caffè. Proviene dall’America latina, così ha subìto un primo controllo da parte del “posto di controllo frontaliero di primo ingresso nell’Unione europea”, che serve a valutare i rischi per l’uomo, gli animali o le piante, i rischi per l’ambiente in caso di ogm, la presentazione dei prodotti in modo da scongiurare che i consumatori possano fraintenderne le caratteristiche o la provenienza.

Prima di recarsi al lavoro, Giovanna si ferma in farmacia ad acquistare un medicinale per suo padre. Si tratta di un medicinale innovativo, autorizzato dalla Commissione europea sulla base di una valutazione sulla sua qualità e sicurezza compiuta dall’Agenzia europea per i medicinali. Giovanna pensa che suo padre possa trarne giovamento, come ha detto il medico. E’ preoccupata che possa avere degli effetti indesiderati. Ma il medico le ha spiegato che il Comitato europeo per la valutazione dei rischi nell’ambito della farmacovigilanza monitora la sicurezza di tutti i farmaci che sono disponibili sul mercato europeo per tutto il corso della loro vita. Tutti gli effetti indesiderati sospetti segnalati dai pazienti e dagli operatori sanitari sono inseriti in Eudra Vigilance, il sistema informativo dell’Unione gestito dall’Agenzia europea per i medicinali, che raccoglie e analizza le segnalazioni di presunti effetti.

Più tardi, Mario esce dal lavoro per un breve pranzo con i colleghi. Non hanno molto tempo, ma è un piccolo piacere al quale non vogliono rinunciare. Mario ordina una fetta di carne, alimentata con mangimi che hanno ricevuto un’autorizzazione dalla Commissione europea, in seguito a una serie di verifiche e controlli complessi e dettagliati, che coinvolgono l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, composta da esperti incaricati di valutare e segnalare i rischi di tutti i prodotti destinati all’alimentazione umana e animale.

La giornata di Mario e Giovanna è molto simile a quella di ciascuno di noi. E mostra una cosa molto semplice. Se non ci fosse l’Unione europea, non avremmo le discipline che garantiscono la qualità delle nostre vite. La ‘regolazione sociale’ è un’importante componente dell’attività legislativa e amministrativa dell’Unione. Si è sviluppata a partire dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, in connessione con la costruzione del mercato interno europeo. Ed è divenuta, nel corso del tempo, un elemento che ci accompagna in ogni momento della nostra vita quotidiana.

Essa approfondisce il funzionamento del mercato, introducendo politiche a favore di consumatori, utenti e cittadini. Vi rientrano, tra l’altro: l’attuale sicurezza alimentare, senza la quale la qualità dei cibi di cui ci nutriamo sarebbe più bassa; la disciplina dei prodotti cosmetici, volta a stabilire standard rigorosi senza tuttavia sacrificare l’innovazione tecnologica; la disciplina dei prodotti farmaceutici, che garantisce che i medicinali che acquistiamo siano sicuri ed efficaci; la disciplina relativa ai giocattoli per bambini, le cui caratteristiche debbono essere tali da ridurre al minimo i rischi per la salute di chi ne fa uso; la tutela della salute, esemplificata dalla normativa sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni; la tutela ambientale, la cui azione si iscrive oggi nel progetto complessivo di costruzione di una Energy Union, funzionale a ridurre le emissioni di carbonio, garantire la sicurezza e l’efficienza energetica, sviluppare le infrastrutture e completare il mercato interno dell’energia.

A queste discipline, che rappresentano il cuore della regolazione sociale, se ne aggiungono altre che perseguono lo stesso scopo ma in modo indiretto: è il caso, ad esempio, della disciplina sul benessere degli animali, che include le normative relative ai mangimi per gli animali, della disciplina del marchio europeo, delle norme tecniche che governano la produzione di prodotti industriali.

Non si tratta, poi, di discipline fisse e rigide. Al contrario, sono soggette a un continuo aggiornamento. Questo coinvolge sia il legislatore europeo, guidato dall’iniziativa della Commissione, sia l’insieme delle amministrazioni nazionali e sovranazionali che, insieme, partecipano al processo regolatorio. Le innovazioni tecnologiche sono solo uno dei fattori che spingono l’Unione a una costante revisione delle discipline esistenti. In materia di tutela del consumatore, ad esempio, la Commissione ha avviato, nell’ultimo anno e mezzo, varie iniziative volte a contrastare le pratiche illegali online e a rispondere alle trasformazioni che la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico producono sul settore finanziario.

La sera, quando gustano una polenta con gli amici, Mario e Giovanna avviano una discussione sull’Europa. Ernesto, un po’ più vecchio di loro, sostiene che l’Europa ha fallito e gli inglesi lo hanno capito molto bene. Ha saputo garantire la pace, ma non ha mantenuto la promessa di prosperità. Alice, sua moglie, ha un’idea diversa: l’Europa è in crisi, ma è una crisi di crescita e dobbiamo avere fiducia nel futuro.

Giovanna non ha un’idea chiara e si limita ad ascoltare. Nel frattempo, serve ai suoi ospiti una buona polenta. Il mais con cui è fatta non è stato geneticamente modificato, perché l’Unione europea valuta le possibili conseguenze – per l’ambiente, per la salute e per l’agricoltura – di piante e cibi ottenuti con nuove tecnologie. Pertanto, prevede standard molto elevati di sicurezza e consente sempre agli stati, in nome del principio di precauzione, di vietare piante o cibi potenzialmente pericolosi. Inoltre, il gorgonzola che ha usato per condire la polenta è stato prodotto secondo la ricetta tradizionale e usando solo ingredienti del territorio, giacché l’Unione europea riconosce e protegge le Denominazioni di origine protetta di tutti e in tutti i paesi dell’Unione. Infine, il vino francese con cui accompagnano la cena e i mandarini spagnoli con cui la concludono sono stati acquistati a basso prezzo grazie alla libertà degli scambi commerciali all’interno dell’Unione e presentano garanzie di sicurezza e qualità elevate perché devono conformarsi agli standard stabiliti dal diritto alimentare europeo che sono particolarmente esigenti.

Ha ancora senso parlare di destra e sinistra?

Quel che resta (niente) di due categorie politiche dopo la globalizzazione. Appunti non congressuali
Chi c’è andato più vicino, finora, è stato Giuliano da Empoli. Che in un’intervista a Steve Bannon pubblicata sul Foglio il 1 ottobre scorso si è spinto fino a dire “il cleavage principale oggi è questo, apertura versus chiusura, e non cancella ma rende certo molto meno rilevante il vecchio schema destra/sinistra”.
In questo articolo si proverà dapprima ad argomentare i motivi per cui le attuali categorie politiche sono state spazzate via dagli eventi occorsi nel pianeta dell’ultimo quarto di secolo. In secondo luogo si argomenterà che il superamento delle stesse è ancor più marcato ed evidente nel caso italiano. Infine, con la cautela del caso, si proporrà al lettore qualche riflessione su quale linea di demarcazione possa in futuro sostituire quella esistente nella definizione delle offerte politiche del tempo in cui viviamo.
La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato di natura hobbesiano, la destra tende ad accettare il disordine e l’instabilità
Alle elezioni politiche del 2018 più del 70 per cento dei votanti ha premiato forze politiche che rifiutano la diarchia “destra sinistra”
La tesi del superamento della dualità “destra/sinistra” circola da tempo nel dibattito politico. Ma o è sussurrata (per paura di essere tacciati come bestemmiatori nel tempio) o è usata in chiave strumentale per auto proclamarsi diversi rispetto al quadro politico esistente (il “non siamo né di destra né di sinistra” è stato sventolato sia dalla Lega a inizio anni Novanta che dal M5s venti anni dopo, ma anche da Mario Monti nelle elezioni nel 2013).
Una seria riflessione sull’attualità delle categorie “destra” e “sinistra” da parte della classe politica non è, quindi, mai realmente stata fatta. Un po’ per la sacralità del tema, un po’ per istinto di sopravvivenza da parte di partiti (e del relativo personale politico) che su quella distinzione hanno costituito tratti indentitari e rassicuranti molto difficili da mettere in discussione. E un po’ per la vischiosità a prendere atto degli enormi mutamenti occorsi in questo “piccolo Pianeta” (cit. John Kennedy) da un quarto di secolo a questa parte.
Come noto ai più, le denominazioni “Destra” e Sinistra” nascono dalla disposizione casuale dei banchi in cui si sedettero conservatori e rivoluzionari alla riunione degli Stati Generali in Francia nel maggio 1789, durante la Rivoluzione Francese. I primi tendevano alla conservazione dello status-quo feudale; i secondi al sovvertimento di tale ordine. Da allora, per analogia, “destra” ha indicato una posizione politica tesa al mantenimento dello status quo sociale che accetta le disuguaglianze in esso insite, ponendo maggiore accento su libertà e sviluppo e “sinistra” una tensione verso una modifica di esso in direzione di una maggiore uguaglianza (Bobbio 1994). Al contrario di quello che si crede, tuttavia, la distinzione Bobbiana “diseguaglianza/uguaglianza”, sebbene prevalente, non è l’unico criterio adottato per definire “destra” e “sinistra”. Secondo Gianni Vattimo (1996) l’identità della sinistra consiste in una riduzione della violenza, intesa non solo come utilizzo di mezzi coercitivi ma persino come esaltazione della competizione e della concorrenza. Carlo Galli (2010) individua invece la distinzione nella modalità di risposta al disordine pre politico. La sinistra tende ad agire su quello che somiglia allo stato di natura hobbesiano per riportare al centro l’individuo, con le sue necessità, quale portatore di ordine nel caos. La destra, secondo Galli, tende invece ad accettare il disordine e l’instabilità connesso allo status quo pre politico e cercarne, invece, le opportunità.
Contrariamente a quanto si crede, dunque, la definizione di cosa sia “destra” e cosa sia “sinistra” è da qualche anno estremamente dibattuto nel pensiero politico e filosofico. In questa sede, a chi scrive non interessa contribuire a quel tipo di dibattito (non ne avrebbe in ogni caso le credenziali e le capacità). Interessa, piuttosto, domandarsi se queste categorie politiche siano ancora adatte a riassumere in modo accurato – e rispondente alla realtà – lo spettro delle posizioni politiche che agiscono sulla realtà stessa con l’aspirazione di modificarla.
Le categorie politiche, infatti, non sono esogene. Non sono state consegnate da Dio a Mosè sul Monte Sinai agli albori della civiltà, e destinate a durare in eterno. Esse sono, invero, lo specchio del tempo in cui viviamo. Nascono da esso e si nutrono di esso. E in esso trovano – o non trovano più – ragion d’essere.
La distinzione tra destra e sinistra, come abbiamo visto, nasce in uno snodo cruciale della Storia. Quello in cui dal punto di vista politico debutta progressivamente su larga scala la democrazia rappresentativa strutturata sullo Stato nazionale, in sostituzione delle monarchie assolute o degli imperi; dal punto di vista sociale il regime feudale lascia il posto alla società articolata per classi sociali; dal punto di vista economico i secoli di sviluppo basato sull’agricoltura lasciano spazio alla rivoluzione industriale. Da quel momento sono passati quasi due secoli e mezzo. Che non sono certo sono stati omogenei, da tutti i punti i vista; ma che – pur attraverso temporanee deviazioni di breve periodo – hanno conservato i tratti di cui sopra: il primato indiscusso della democrazia rappresentativa, la centralità dello Stato nazionale, una riconoscibilità delle classi sociali e uno sviluppo economico saldamente basato sull’industria.
E’ opinione di chi scrive che tale assetto sia stato permanentemente archiviato da un Grande Shock che si è dispiegato gradualmente nell’ultimo quarto di secolo. Tale shock è comunemente identificato come “globalizzazione”, ma a ben vedere è persino qualcosa di più. Il dimensionamento globale delle dinamiche economiche è sicuramente l’aspetto più rilevante: dall’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso, infatti, la dimensione dei mercati - dei capitali, dei beni e servizi e financo del lavoro (con l’esplodere senza precedenti delle dinamiche migratorie) è diventata pienamente globale. Si argomenta spesso che questa non è stata la prima ondata di globalizzazione che il mondo abbia vissuto: a cavallo tra il XIX e il XX secolo, come noto, vi è stata una similare espansione globale dei commerci. Quella globalizzazione, che ebbe un brusco stop con lo scoppio di ben due guerre mondiali e la conseguente divisione del mondo in blocchi, fu tuttavia caratterizzata da una sostanziale asimmetria: poche grandi potenze sfruttavano - traendo beneficio dalle innovazioni tecnologiche nel settore dei trasporti - i flussi commerciali da e per i propri possedimenti coloniali, che non avevano autonomia soggettività di sviluppo e si limitavano ad essere fornitori di input e, in molti casi, mercati di sbocco degli output. La globalizzazione di un secolo dopo, invece, ha un assetto molto più paritario: i paesi emergenti o ex-emergenti (Cina, India, Brasile, Turchia, Sudafrica) non sono affatto possedimenti coloniali sotto dittatura economica (e politica) dei paesi occidentali. Anzi, gli effetti di spiazzamento di lavoratori e imprese in Europa e Stati Uniti sono determinati proprio dal carattere pienamente paritario di questa globalizzazione, in cui sono i paesi sviluppati a essere mercati di sbocco dei paesi emergenti e in cui l’affermarsi delle catene globali del valore rompe - questo sì per la prima volta nella Storia - il carattere esclusivamente nazionale delle filiere produttive.
Il Grande Shock venticinquennale, quindi, è soprattutto basato sulla globalizzazione (e sulla sua prima crisi, quella del 2008-2009) ma anche su altri sconvolgimenti che mutano radicalmente l’assetto di lunghissimo periodo inaugurato con la Rivoluzione Francese e che sopra abbiamo descritto. Il primo – e di gran lunga più importante – tra questi è la Rivoluzione Digitale e l’avvento del web. Nonostante il dibattito prosegua da vent’anni, è forse ancora troppo presto per valutare scientificamente in chiave storico-economica se la Internet Revolution sia configurabile come un vero e proprio superamento della Rivoluzione Industriale (chi scrive è assolutamente convinto di sì, non solo perché catalizza in maniera decisiva il settore terziario ma anche e soprattutto perché modifica radicalmente la manifattura e tutto ciò che le gira intorno). Ma è innegabile che essa abbia radicalmente e definitivamente sconvolto le dimensioni dell’informazione, della comunicazione politica, della formazione del consenso. Il venir meno di ogni filtro, l’orizzontalizzazione completa dei circuiti di informazione, l’azzeramento dei tempi della comunicazione (rispetto al rallentamento dei tempi della formazione della decisione politica) ha radicalmente modificato il rapporto tra rappresentanti e rappresentati e ha inciso pesantemente sul funzionamento della democrazia rappresentativa. Sia l’elezione a presidente Usa di un candidato estraneo ai tradizionali canali di selezione dei due partiti, sia il referendum sulla Brexit hanno sancito l’affermarsi della disintermediazione politica nei due paesi anglosassoni campioni della teoria e della pratica della democrazia rappresentativa. Tale tendenza poi è avvalorata da diverse altre esperienze (Russia, Turchia, Polonia, Ungheria) in cui si assiste a torsione dei regimi democratici verso forme di rappresentanza politica che sempre con maggiore frequenza saltano il ruolo dei corpi intermedi e delle tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa per avocare un diretto legame tra popolo e leader. Fino ad arrivare alle posizioni esplicite del primo partito italiano, che parlano di superamento del Parlamento e di sperimentazione di forme di democrazia diretta basate, guarda caso, proprio sulle nuove tecnologie messe a disposizione dalla rivoluzione digitale. E, infine, gli ultimi due tratti caratteristici dell’èra post 1789 (riconoscibilità delle classi sociali e sviluppo economico basato sull’industria, poi divenuta produzione di massa nel corso del Novecento) sono da tempo stati archiviati. Non certo perché si sia raggiunto un superamento delle divisioni sociali, ma - molto più banalmente - perché esse corrono lungo linee di demarcazione completamente diverse da quelle di un tempo. Il tradizionale criterio di possesso dei mezzi di produzione appare fortemente indebolito a vantaggio di altri criteri: non solo produttori versus rentier, ma anche e soprattutto tra possessori di opportunità (o capabilities, per dirla con Amartya Sen) e coloro che invece ne sono privi, magari perché spiazzati dal nuovo assetto globale.
Ciascuno dei tratti caratterizzanti del mondo in cui nacquero e si svilupparono le categorie politiche “destra” e “sinistra” (democrazia rappresentativa, Stato nazionale, Rivoluzione industriale e riconoscibilità delle classi sociali sulla base del possesso dei mezzi di produzione) è stato profondamente modificato – o addirittura spazzato via – da un Grande Shock dispiegatosi nel mondo dalla caduta del Muro di Berlino (1989) fino al riassorbimento della prima grande crisi della globalizzazione (2013-2014). Ce n’è abbastanza, dunque, per quantomeno chiedersi con cognizione di causa se quelle categorie siano ancora attuali per descrivere le posizioni politiche che, nascendo dalla realtà, mirano a modificarla.
Nel caso italiano vi sono poi alcune specificità storico-politiche che supportano ancor di più la tesi della sopravvenuta irrilevanza delle categorie politiche per come le conosciamo. La maggior parte dei politologi concorda che una “destra” vera e propria, analoga a quella presente e spesso prevalente nei paesi occidentali, non sia in fondo mai esistita nella Prima Repubblica, quantomeno nelle dimensioni rilevanti (il Partito liberale italiano, per molti osservatori rientrante in tale categoria, non ha mai raggiunto vette di consenso significative). Né tale può essere considerato il Movimento sociale italiano, essendosi sempre esplicitamente (dapprima) e implicitamente (poi) richiamato all’esperienza della dittatura fascista o della Repubblica di Salò. Ben nota e analizzata è poi l’anomalia sul fronte opposto: la presenza del più grande partito comunista del mondo occidentale, che almeno fino a metà Anni Settanta si richiamava esplicitamente alla dittatura sovietica, ha compresso e snaturato il dispiegarsi di una vera forza socialdemocratica, le cui funzioni erano svolte dalla sinistra Dc e dal Partito Socialista (e, con un consenso molto minore, dal Psdi). La conventio ad excludendum ha poi fatto il resto: anche quando il Pci si è esplicitamente distaccato dai richiami rivoluzionari e ha cominciato ad approssimare una “sinistra” legittimata nel gioco democratico, l’assetto geopolitico deciso alla fine della Seconda guerra mondiale ne ha impedito l’accesso al governo (Aldo Moro ci ha rimesso la vita su questo) e ha determinato in ultima analisi l’impossibilità pratica di costituire una democrazia dell’alternanza nel primo mezzo secolo di storia repubblicana.
Il primato della democrazia rappresentativa è stato messo alla prova dal Grande choc chiamato “globalizzazione”
Il caso italiano e le specificità storico-politiche che supportano ancor di più che altrove la tesi della irrilevanza di destra e sinistra
Il crollo del Muro di Berlino e l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica non ha, contrariamente a quanto si pensa, determinato la definizione di un quadro competitivo tra (centro)destra e (centro)sinistra. La linea di demarcazione tra le offerte politiche era semplicemente tra “pro Berlusconiani” e “anti Berlusconiani”. E tra i primi, se escludiamo il generoso e subito abortito tentativo di alcuni intellettuali quali Antonio Martino e Giuliano Urbani nei primi mesi del 1994., non vi è mai stato nulla neanche l’ombra di una destra liberale. Così come nella “gioiosa macchina da guerra” occhettiana, o nell’Ulivo del 1996 e 2006, non vi erano i tratti di una moderna socialdemocrazia ma piuttosto il tentativo - neanche tanto mascherato - di sommare i tratti culturali e il personale politico della cultura comunista e di quella della sinistra democristiana. E così, proprio mentre nel mondo si dispiegava il Grande Shock, l’Italia ha impiegato un quarto di secolo a dividersi tra tifosi e avversari del Cavaliere e dei suoi tratti caratteriali, a provare inutilmente a trovare stabilità nell’assetto elettorale e istituzionale, e a cercare di traghettare quanto più ceto politico possibile dalla Prima ad ancor più fumosa Terza Repubblica. Questa – con la rilevantissima eccezione dell’ingresso nell’euro – è stata la cosiddetta Seconda Repubblica, poco altro. E non dovrebbe stupire che proprio in questo lasso di tempo l’Italia abbia riportato i peggiori risultati economici della sua storia.
Per quanto di nostro interesse in questa sede, possiamo solo rilevare che i 25 anni di “Seconda Repubblica” hanno ulteriormente slabbrato nell’elettorato il senso di appartenenza alle categorie politiche “destra” e “sinistra”. Lo dimostra il fatto che alle elezioni politiche del 2018 gli unici due partiti politici che facevano espressamente e continuamente riferimento a tali categorie per definire la propria identità hanno riportato un consenso elettorale minimo (3,4% Liberi e Uguali e 4,3% Fratelli d’Italia). Il resto, si era già abbondantemente mischiato. Già dal 2013, con le segreterie dei due quarantenni Renzi e Salvini , Pd e Lega (che il 4 marzo si sono divisi in modo pressoché paritario un consenso del 36%) avevano incluso nella propria carta d’identità tratti culturali tradizionalmente appartenenti a categorie politiche opposte a quelle in cui teoricamente si collocavano: il Pd con l’enfasi su riduzione della pressione fiscale e liberalizzazione del mercato del lavoro e del capitale, e la Lega con l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento della spesa pubblica e dell’intervento statale in economia.
La tesi di chi scrive è, dunque, che le categorie che hanno contrassegnato lo spazio dell’offerta politica dalla Rivoluzione Francese ad oggi (per come sono state tradizionalmente intesi) non siano più attuali a causa dei profondissimi sconvolgimenti avvenuti a cavallo del Millennio; tale usura è ancor più valida in Italia, dove non solo l’intera vita repubblicana ha visto una declinazione incompleta e strabica di “destra” e “sinistra”, ma dove forse prima che altrove è iniziata la definizione di un’offerta politica che superasse le tradizionali cristallizzazioni. Alle elezioni politiche del 2018 più del 70% dei votanti ha premiato forze politiche che o rifiutavano a priori la diarchia “destra/sinistra” (M5s) o l’avevano da tempo nei fatti superata nelle proprie policies (Pd e Lega).
La definizione delle nuove categorie politiche non è una questione nominalistica. Non si fa chiarezza se a “destra e sinistra” si sostituisce , per dire una sciocchezza, “alto e basso” senza specificare che cosa realmente significhino. Così come, a opinione di chi scrive, non è pienamente fattibile limitarsi ad un’operazione di re-branding cambiando il significato dei termini “destra” e “sinistra”ma mantenendoli in vita: un brand universale di 250 anni di età, semplicemente, non muta significato a comando.
E allora che fare? Siamo in molti a essere convinti che la nuova linea di demarcazione tra offerte politiche passi attraverso una faglia, certamente ancora in divenire, ma i cui tratti cominciano ad essere piuttosto chiari. Da una parte chi è convinto che la realizzazione dell’individuo abbia un carattere sostanzialmente dinamico: non può che passare attraverso una continua evoluzione dei propri comportamenti (dettata dalla necessità di adattamento ad un mondo in continuo movimento), l’ampliamento delle opportunità e la naturale tensione verso il coglierle, la dimensione sovranazionale (su cui strutturare le istituzioni della democrazia rappresentativa), il multilateralismo e la tutela dei diritti civili e della libertà economica. Per dirla con Giovanni Orsina, questa offerta politica mira a limitare il “narcisismo” dell’elettore tramite la sua piena inclusione nella società globalizzata e nelle sue dinamiche.
Dalla parte opposta vi è chi invece predilige una dimensione più statica e non-limitante rispetto ai desideri assoluti dell’individuo, indipendentemente dal contesto. Le parole d’ordine sono protezione dai cambiamenti (reali o percepiti), dimensione nazionale o sub-nazionale della rappresentanza, disintermediazione politica con legame diretto tra leader e popolo, richiamo a valori tradizionali. L’ampliamento delle opportunità è visto come una minaccia rispetto alla ricerca delle sicurezze del mondo pre-globale, e i limiti all’azione politica non sono predeterminati dalle condizioni di contesto ma unicamente dalla stessa volontà “narcisista” dell’elettore.
E’ questa la diade (o la bozza di essa) delle future categorie politiche? La verità è che nessuno può saperlo, per due motivi: primo, nessuno può dire se il Grande Shock (1989-2014) sia realmente finito e in secondo luogo il percorso di aggiustamento potrebbe essere più lungo di quanto già non sia stato. In fondo, come si è cercato di argomentare, negli ultimi venticinque anni non abbiamo assistito al crollo di questo o quel partito politico, ma di pilastri sociali, politici ed economici che perduravano da secoli.
In una fase quindi ancora necessariamente molto incerta, lapalissianamente, non vi sono certezze a cui aggrapparsi. Non vi sono porti sicuri nei quali tornare, non vi sono più parole d’ordine rassicuranti che forniscano l’illusoria speranza che in fondo tutto quello che sta succedendo al mondo è solo una nottata che deve passare. Esiste solo la necessità di guardare al mondo per quello che è diventato e definire prospettive nuove volte a realizzare la missione millenaria della politica: il governo efficace della cosa pubblica al fine di migliorare le condizioni di vita presenti e future delle generazioni che vivono questo tempo. E’ questo, e non meno che questo, il compito della generazione che è diventata adulta in questo secolo.
Luigi Marattin è capogruppo Pd in commissione Bilancio della Camera. Ex consigliere economico di Palazzo Chigi

giovedì 3 gennaio 2019

Rivalutare Togliatti? No grazie

Una nuova biografia esalta l'autonomia del leader del Pci. Ma restò sempre un filosovietico

Giuseppe Bedeschi - Gio, 03/01/2019 - 08:34 su "ilgiornale.it"

La recente biografia di Togliatti, scritta da un giovane storico, Gianluca Fiocco (Togliatti, il realismo della politica. Una biografia, Carocci editore), è un libro singolare, la cui lettura suscita, a dir poco, perplessità.

A più di cinquant'anni dalla morte (1964) del leader comunista, e dopo il crollo per implosione dell'Urss, Fiocco ripropone infatti la figura del segretario del Pci a tutto tondo, definendolo «attuale ai nostri occhi, nel momento in cui l'Italia affronta una fase storica che sembra condannarla a una crescente marginalità».
In questo libro l'autore dà grande rilievo, naturalmente, alla cosiddetta svolta di Salerno, con la quale Togliatti, appena rientrato in Italia nel marzo 1944, sollecitò con forza la formazione di un governo di unità nazionale, in cui i comunisti avrebbero assunto le loro responsabilità, rinviando a un secondo tempo (una volta che il Paese fosse stato completamente liberato) la soluzione del problema istituzionale (monarchia o repubblica), attraverso il voto liberamente espresso dal popolo.

La svolta di Salerno (che Togliatti aveva concordato direttamente con Stalin in un colloquio avvenuto al Cremlino il 4 marzo) suscitò fortissime resistenze nel gruppo dirigente del Pci (e nella base comunista), ma Togliatti la impose con grande energia, e negli anni immediatamente successivi sviluppò una strategia politica assai diversa da quella seguita dai comunisti italiani in passato: una strategia basata su due concetti: «partito nuovo» e «democrazia progressiva». Partito nuovo significava che il Pci non doveva più essere, come in passato, un partito che si limitava a svolgere un ruolo di opposizione e di critica. Era stata questa, in sostanza, disse Togliatti, «la posizione di una associazione di propagandisti di un regime diverso e migliore». Ora il Pci doveva abbandonare questa sterile posizione, e doveva assumere responsabilità anche a livello governativo, accanto alle altre forze «conseguentemente democratiche». Esso doveva indicare soluzioni concrete e possibili in ogni momento, e avviare a soluzione i grandi problemi della società italiana. Togliatti proclamò senza esitazioni: «Oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia». Il Pci doveva battersi piuttosto per una «riforma industriale» (nazionalizzazione dei grandi complessi monopolistici) e per una riforma agraria. Bisognava altresì difendere la piccola borghesia operosa dell'industria e del commercio contro l'egoismo dei grandi gruppi economici. Queste riforme potevano e dovevano essere realizzate col «metodo democratico», cioè «lasciando che prevalesse la volontà della maggioranza del popolo», e «rispettando, ben inteso, tutti i diritti di critica di chi non è d'accordo».

Dunque, Togliatti sceglieva la strada (sono ancora sue parole) di «una repubblica organizzata sulla base di un sistema parlamentare rappresentativo», in cui tutte le riforme fossero realizzate col metodo democratico.
Senonché la linea politica di Togliatti non aveva, per la grande opinione pubblica, nessuna credibilità politica. Infatti il leader del Pci e il suo gruppo dirigente facevano ogni giorno (attraverso i loro discorsi e la loro stampa) una esaltazione delirante dell'Unione Sovietica, di Stalin, del mondo comunista, dove era stato abolito «lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo», dove era stata spazzata via la miseria, dove a tutti era stata data la possibilità di esprimere il meglio di sé, dove, insomma, era stata costruita una civiltà interamente nuova e superiore. E quando, nel 1948, i comunisti si impadronirono del potere in Cecoslovacchia con un colpo di stato, Togliatti e i dirigenti comunisti applaudirono. Come credere, allora, alla scelta democratica del Pci?

Del resto, anche dopo il XX Congresso del partito comunista sovietico, e dopo il rapporto segreto che vi tenne Krusciov (1956), in cui veniva denunciato il terrore instaurato da Stalin nell'Urss, Togliatti non rinunciò alla sua esaltazione del regime sovietico. Infatti, in una famosa intervista alla rivista Nuovi argomenti egli parlò sì di fenomeni di «degenerazione» nel sistema sovietico, ma aggiunse subito che «questa sovrapposizione era stata parziale ed aveva probabilmente avuto le più gravi manifestazioni alla sommità degli organi direttivi dello Stato e del partito», sicché non si poteva assolutamente dire che ne fosse conseguita «la distruzione di quei fondamentali lineamenti della società sovietica, da cui derivava il suo carattere democratico e socialista, e che rendevano questa società superiore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche». Infinitamente superiore!

Del resto, l'Unione Sovietica rimase sempre per Togliatti la stessa polare: così egli approvò toto corde lo schiacciamento della rivoluzione popolare ungherese effettuato dai carri armati sovietici (1956), e non ebbe alcuna esitazione ad approvare anche la messa a morte (1958) di Imre Nagy (che, primo ministro per pochi giorni, aveva riconosciuto la legittimità della rivolta popolare), voluta dai sovietici e da Kadar. («Nagy disse il leader del Pci in una trasmissione televisiva nel 1961 è stato condannato perché contro il suo paese aveva commesso dei delitti». Testuale!).
Quanto alla libertà di discussione all'interno del Pci togliattiano, basti ricordare il caso dei deputati comunisti Aldo Cucchi e Valdo Magnani, che espressero (nel 1951) alcune critiche alla linea generale del loro partito, che essi consideravano troppo condizionata dall'Unione Sovietica. Cucchi e Magnani furono subito espulsi dal Pci, poiché il primo mostrava «la figura spregevole del traditore, dell'uomo senza princìpi e senza carattere, del falso, del provocatore agente del nemico», e il secondo era «un volgare e spregevole strumento nelle mani delle forze reazionarie, appositamente infiltratosi nelle file del nostro partito». In una intervista a L'Unità, Togliatti aggiunse che «anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». Questa era la democrazia praticata dal leader del Pci!