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domenica 29 dicembre 2019

QUEL "MAZZETTO DI OMICIDI" CHE SOFRI ANCORA NON SPIEGA - CHI E’ IL MISTERIOSO "CONOSCENTE COMUNE" CHE MISE IN CONTATTO L’EX CAPO DI LOTTA CONTINUA CON IL DIRETTORE DEGLI AFFARI RISERVATI DEL VIMINALE FEDERICO UMBERTO D' AMATO, LO STESSO CHE MANOVRAVA LA "SQUADRA 54" NEI GIORNI DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA E DELLA MORTE DI PINELLI...



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Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano

ADRIANO SOFRIADRIANO SOFRI
Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato.

Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo - e in modo ufficiale - chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l' Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto.

strage di piazza fontana 6STRAGE DI PIAZZA FONTANA 6
Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l' Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage. Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto.

Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini.
adriano sofri foto di baccoADRIANO SOFRI FOTO DI BACCO

Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell' anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D' Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta.

strage di piazza fontana 5STRAGE DI PIAZZA FONTANA 5
Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l' assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base - dice - di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano "guidati" dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell' Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la "Squadra 54" guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi.

strage di piazza fontana 7STRAGE DI PIAZZA FONTANA 7
È una "novità" che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l' esistenza della "Squadra 54". Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D' Amato, che aveva uno stuolo di informatori ("Le trombe di Gerico"), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l' infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l' Alcatraz) e agente di Vasco Rossi.

giuseppe pinelliGIUSEPPE PINELLI
Proprio di D' Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto "conoscente comune" lo mise in contatto con l' anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere "un mazzetto d' omicidi", garantendogli impunità.

Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D' Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d' autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D' Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi "come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)".

Tobagi ricorda che fu messa "in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio", ma "nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D' Amato sorseggiava alcolici d' annata, Sofri bevesse, che so, chinotto".

federico umberto d'amatoFEDERICO UMBERTO D'AMATO
Al di là delle bevande, sarebbe bello che l' allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso "conoscente comune" e come sia stato possibile che D' Amato - lo stesso che manovrava la "Squadra 54" - gli abbia chiesto quel "mazzetto d' omicidi". Conclude Benedetta Tobagi: "L' ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia".

Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: "Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita".

venerdì 20 dicembre 2019

Se la maleducazione finanziaria è una scusa per attaccare le banche “L'ignoranza ha costi alti”, dice Annamaria Lusardi. E l’Italia è messa male

di David Allegranti

20 Dicembre 2019 alle 10:27 Se la maleducazione finanziaria è una scusa per attaccare le banche

Roma. Ogni volta che scoppia uno scandalo riguardante una banca, i complottisti fanno a gare di sciacallaggio per spiegare che è tutta colpa dei direttori di filiale che truffano i vecchietti. Di recente, c’è stato il caso di Giovanna Scialdone, insegnante di scienze motorie, che in un’intervista al Corriere della sera si è lamentata di aver investito nella Popolare di Bari 440 mila euro —300 mila in azioni e 140 mila in obbligazioni — “di cui consapevolmente solo 60 mila euro in azioni. Per il resto, tutto è successo a mia insaputa: il direttore della filiale ha avuto gioco facile con me che sono finanziariamente analfabeta”. Lasciamo stare, per ora, una questione spesso sottovalutata dai sedicenti truffati, cioè l’ingordigia di chi va in banca pensando che esistano rendimenti alti senza rischi. E concentriamoci sul problema che è a monte: la conoscenza finanziaria in Italia. Secondo i dati del S&P Global Financial Literacy Survey del 2014, solo il 37 per cento degli italiani ha una conoscenza dei concetti di base, percentuale che accomuna l’Italia ai paesi Brics più che ai paesi del G7.  Secondo un’indagine più recente di Banca d’Italia di inizio 2017, la percentuale degli italiani con un livello sufficiente di conoscenze finanziarie continua a essere di poco sopra il 30 per cento, contro una media del 48 per cento dei paesi del G20. Eppure, spiegail prof. Angelo Baglioni nell’ultimo rapporto sull’educazione finanziaria in Italia pubblicato a giugno dall’Osservatorio monetario dell’Università Cattolica e dell’Associazione per lo sviluppo degli studi di Banca e Borsa, “più elevate competenze finanziarie consentono di prendere decisioni più consapevoli, di proteggersi dagli effetti di una crisi come quella che ci ha investito dieci anni fa, di ridurre le diseguaglianze”.

Nel 2017 è nato un Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria, il cui compito è proprio di promuovere e coordinare le attività di educazione finanziaria in Italia.  La direttrice del comitato, l’economista Annamaria Lusardi, ha spiegato nel numero dell’Osservatorio di giugno quale siano i problemi dell’Italia:  “La bassa conoscenza finanziaria ha alti costi, che sono stati messi ancor più in evidenza dalle crisi finanziarie”. I dati, scrive Lusardi, “mettono anche in evidenza quali sono i gruppi più vulnerabili. In primo luogo le persone con basso reddito e poca istruzione formale. Ma vi sono fasce della popolazione per cui le basse competenze finanziarie sono meno scontate. Tutte le indagini registrano, per esempio, una minore conoscenza finanziaria delle donne. Le indagini restituiscono anche un quadro uniforme sulle competenze finanziarie molto basse degli anziani, mentre tra giovani il livello di competenze è più eterogeneo”.

Un’indagine Ocse-Pisa del 2015  sul livello di conoscenze in tema di financial literacy tra gli studenti quindicenni di quindici paesi europei ed extra europei aiuta a capire qualcosa di più sui giovani. Anzitutto, che cosa si intende per literacy finanziaria? L’Ocse-Infe la definisce così: “Per literacy finanziaria si intende un insieme di conoscenze e cognizioni di concetti e rischi di carattere finanziario, unito alle abilità, alla motivazione e alla fiducia nei propri mezzi che consentono di utilizzare quelle stesse conoscenze e cognizioni per prendere decisioni efficaci in molteplici e diversi contesti di carattere finanziario, per migliorare il benessere degli individui e della società e per consentire una partecipazione consapevole alla vita economica”.  E’ stata proprio la direttrice Lusardi a guidare il gruppo all’Ocse che ha sviluppato questa misurazione.   In questo studio, spiegano Patrizia De Socio, responsabile delle Olimpiadi di economia e finanza, e Alvaro Fuk, dirigente tecnico al Miur e membro del comitato, “sono stati esaminati circa 3 mila studenti italiani di tutte le aree geografiche, (circa il 65 per cento del nord, il 35 per cento del centro-sud). Di questi circa il 46 per cento proveniente da licei, il 33 per cento da istituti tecnici, l’11 per cento da istituti professionali, il resto da centri di formazione professionale. Il risultato medio degli studenti italiani sui 43 quesiti è di 483 punti, leggermente inferiore alla media Ocse di 489, ma con un buon miglioramento di 17 punti rispetto alla rilevazione del 2012 nella quale il nostro paese era finito penultimo della lista”. A dimostrazione che l’educazione finanziaria debba passare necessariamente dalle scuole, coinvolgendo non solo gli studenti ma anche gli insegnanti. Anche loro, come suggeriva Giovanna Scialdone, hanno bisogno di avere conoscenze finanziarie.

giovedì 19 dicembre 2019

Guai a chi tocca Don Milani Impossibile criticarlo



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Guai a chi tocca Don Milani

Impossibile criticarlo; le sue posizioni ideologiche sono diventate una sorta di patrimonio civile. E servono per la battaglia politica

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Francesco Borgonovo
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processi di beatificazione della chiesa cattolica non sono certo famosi per velocità. In compenso, dalle nostre parti, la santificazione laica di alcuni religiosi è rapidissima, e una volta avvenuta di fatto è impossibile contestarla. Esempio di questa tendenza è il caso di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana. Nato a Firenze nel 1923 da una famiglia colta e piuttosto agiata (possedeva 24 poderi, oltre a opere d’arte e palazzi storici), suo padre era Albano Milani Comparetti, chimico e uomo di lettere. La madre era Alice Weiss, ebrea non praticante di enorme cultura e importanti amicizie (frequentò addirittura James Joyce). Don Lorenzo ce la mise tutta per farsi traditore della sua classe d’origine: dopo aver frequentato con scarsi risultati il liceo Berchet a Milano rifiutò l’università per dedicarsi alla pittura con Hans-Joachim Staude, di nuovo a Firenze. Poi decise di entrare in seminario e fu ordinato sacerdote nel 1947.
La sua santificazione laica inizia con la pubblicazione di un volume intitolato Esperienze pastorali, una sorta di trattato sociologico sui suoi parrocchiani di San Donato di Calenzano (Firenze), e si completa con la celeberrima Lettera a una professoressa, firmata assieme ai ragazzi della sua scuola di Barbiana, un paesino a 460 metri sul livello del mare, nel Mugello. La Lettera uscì nel 1967, quando già i fuochi della ribellione sessantottarda cominciavano ad ardere. Lungi dall’essere un nome «scomodo», grazie a quel libro don Milani è divenuto un santino venerato e celebrato da quel «potere» che lui pretendeva di contestare.
Le principali case editrici italiane ripubblicano con costanza i suoi scritti. Mondadori ha inserito la sua opera omnia nei prestigiosi Meridiani, nonostante di meriti letterari don Lorenzo non ne abbia poi molti. Di recente Feltrinelli ha dato alle stampe una graphic novel agiografica firmata da Alice Milani, una nipote di don Lorenzo, piuttosto retorica ma molto istruttiva, poiché mostra con chiarezza quali fossero le posizioni politiche e le idee del sacerdote toscano.
Persino la Chiesa cattolica, di questi tempi, è donmilaniana come non mai. Papa Francesco ha pubblicamente lodato il priore di Barbiana dipingendolo come figura eroica che «soffriva e combatteva» per donare «dignità» al suo gregge. Nel 2017, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito don Milani un «sacerdote lungimirante e un pedagogo innovativo».
Ecco, quella celebrativa è divenuta, negli anni, l’unica narrazione ammessa. Chiunque osi sfiorare il santo laico ne ricava attacchi e reprimende. Il primo fu senz’altro lo scrittore Sebastiano Vassalli, uomo di sinistra anomalo, molto critico nei confronti del Sessantotto, che visse da insegnante. Nel giugno del 1992, su Repubblica, uscì un suo articolo intitolato Don Milani, che mascalzone, seguito da un secondo pezzo intitolato Ma allora i miti non muoiono mai. Vassalli fu costretto a replicare proprio perché era stato sommerso dalle critiche, alcune piuttosto feroci. Che cosa aveva scritto? La verità, semplicemente. E cioè che la scuola di Barbiana «era in realtà una sorta di pre-scuola (o dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi». Vassalli definì quella di Milani «un’esperienza didattica forse non proprio marginale, ma simile in definitiva a tantissime altre» che «si era venuta arricchendo di un ingrediente rivoluzionario: l’odio di classe».
In effetti, il borghese (quasi aristocratico) don Lorenzo non usava mezzi termini quando si trattava di «difendere gli ultimi». Prendiamo, per esempio, ciò che Milani scrive nella Lettera a Gianni del 1956. Egli sta parlando in difesa dei contadini, e ne giustifica senza ombra di dubbio la rivolta violenta.
Nella missiva, mai terminata, spiega al suo amico Gianni che le autorità dovrebbero intervenire in difesa degli sfruttati, altrimenti costoro si solleveranno, e faranno bene. «Se no domani quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue e quando doman l’altro gli storici inorriditi da tanto sfacelo che avrà travolto insieme tanto bene e tanto male tenteranno di scriverne le origini e i motivi, non riusciranno a leggere fatti come questi che t’ho detto» dice don Lorenzo. Più oltre, nel testo, il prete di Barbiana scrive all’amico: «Ricordati di non piangere il danno della Chiesa e della scienza, del pensiero o dell’arte per lo scempio di tante teste di pensatori e di scienziati e di poeti e di sacerdoti. La testa di Marconi non vale un centesimo di più della testa di Adolfo davanti all’unico giudice cui ci dovremo presentare».
È interessante ricordare che il Gianni al quale è indirizzata la lettera è Giampaolo Meucci. Fu il Tribunale dei minori da lui presieduto a riabilitare (dopo l’arresto nel 1978 per abusi sessuali) Rodolfo Fiesoli, guru della comunità il Forteto, al quale di recente è stata confermata una condanna a oltre 14 anni per molestie.
Dell’ideologia di don Milani, delle sue discutibili teorie in materia di educazione, dei suoi allievi e propagandisti, però, oggi è difficile parlare con serenità. Il celebre romanziere Walter Siti, per aver accennato alla possibile omosessualità del sacerdote di Barbiana, ha subito un mezzo linciaggio mediatico, sempre nel 2017.
Qualche settimana fa, invece, è toccato a chi scrive sperimentare un poco dell’astio dei milaniani. A Bergamo è stato organizzato, il 30 novembre, il convegno Da Barbiana a Bibbiano, che voleva raccontare come un certo tipo di ideologia progressista si sia diffusa contribuendo a creare mostri e mostriciattoli in Toscana come in Emilia. Contro il convegno si sono mobilitati i sindaci del Mugello ed Enrico Rossi (presidente progressista della Regione Toscana, che per anni ha foraggiato il Forteto di Fiesoli). I democratici toscani hanno organizzato una marcia a Barbiana e pure il vescovo di Firenze, Giuseppe Betori, ha contestato il convegno ancora prima che si tenesse. A un evento analogo, programmato per il 9 dicembre a Firenze, il consiglio regionale della Toscana ha deciso di negare la sala.
Insomma, don Milani non si può nemmeno sfiorare. Eppure oggi più che mai bisognerebbe riflettere sul suo pensiero e su ciò che ha contribuito a creare. Forse senza volerlo del tutto, è stato il fautore di una scuola livellata verso il basso in nome dell’eguaglianza. Milani - che pure rivendicava l’uso della frusta e dei ceffoni sui ragazzi - è il teorico della scuola senza bocciature né gerarchie. Come una bella fetta dei pensatori sessantottini venuti dopo di lui, don Lorenzo mirava alla distruzione della verticalità, dell’autorità. In particolare paterna: la figura del padre, nei suoi testi, è marginale se non completamente assente. È molto presente, invece, un antifascismo paranoico molto simile a quello attualmente in voga. Se oggi la scuola italiana versa in pessime condizioni è anche a causa di idee come queste.
Se oggi la Chiesa sembra trasformarsi in una gigantesca Ong, la responsabilità è in parte anche del donmilanismo. Ma sembra impossibile persino parlarne. 

domenica 15 dicembre 2019

Le Sardine in manifestazione: anziani comunisti, grillini delusi, famiglie e mondo Lgbt (tutti senza bandiere)


Il leader delle Sardine Mattia Santori: Io candidato alle elezioni? Mai dire mai


Le Sardine in manifestazione: anziani comunisti, grillini delusi, famiglie e mondo Lgbt (tutti senza bandiere)
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ROMA — Dal cassone di un vecchio tir trasformato in palco: gran colpo d’occhio (ma bisogna stare sulle punte dei piedi). Piazza San Giovanni, pomeriggio di tramontana e politica, folla di sardine militanti che — adesso — cominciano a cantare «Bella ciao».
Anche qui nessuna bandiera.
Nessun colore.
Nessun simbolo che non sia il pescetto stilizzato.
C’è una presentatrice improvvisata che urla nel microfono «Libertà!/ Libertà!», c’è un situazionismo diffuso e allegro, fotografi e cameraman dietro qualche metro di nastro bianco e rosso da cantiere, i compagni della Fiom — e questa è la prima informazione importante per capire il Dna dei manifestanti — mettono un po’ di ordine. Poi si sente uno che dice: «Quelle sono due mie amiche. Fatele passare».
Ecco Mattia Santori, il capo. Il suo sguardo ingenuo e sincero ha preso qualcosa di furbesco ed eccitato. La capigliatura riccia, per l’occasione, è tenuta stretta da un cerchietto (tipo rockstar).
Un mese fa, quando tutto cominciò, furono in quattro a inventarsi su Facebook quello strepitoso flash mob in piazza Maggiore, a Bologna, contro il sovranismo di Matteo Salvini: ma dopo un mese e altre cento piazze è lui — 32 anni, laurea in Economia — ad essere diventato personaggio, e leader. Grappoli di interviste, ogni sera in tv, quei geniacci di Un giorno da pecora, su Radio 1, gli hanno fatto persino mangiare un piatto di sarde sott’olio e lui, un po’ tronfio, ha avuto la prima botta da piacione confessando di essere assediato da signore cinquantenni. Ma se deve spiegare cos’è, e cosa può diventare questo movimento, Mattia è sempre piuttosto fumoso («Vogliamo utilizzare arte, bellezza, creatività, ascolto»). Soprannome inevitabile: Supercazzola (in politica, basta un niente).
Comunque questa folla non sembra troppo interessata ai messaggi, ai discorsi. Pochi applausi, pochi cori, ma moltissima voglia di esserci, di stare insieme. Famiglie al completo e giovani, anziani comunisti («Mi chiamo Nicola Fantasia, 83 anni, e finché c’è stato, ho votato Pci»), grillini delusi («Disgustata dal Pd, ho sognato con Grillo: ma mi sono ritrovata con quella sciagura di Di Maio aggrappato alla poltrona», dice Loredana Demin, 47 anni, impiegata). Poi rappresentanti del mondo Lgbtboy-scoutCarla Nespolo, presidente dell’Anpi, accolta tra grida di evviva. Lei: «I partigiani sono con voi». Anche i Papaboys: «Sardine, moltiplicatevi», dice Daniele Venturi, presidente del movimento giovanile che iniziò a camminare con Giovanni Paolo II. Sul palco sta salendoPietro Bartolo, medico a Lampedusa per 28 anni. Alzano un cartello: «Salvini, fascista grasso».
Si sparge la voce che, in un punto imprecisato della piazza, sia arrivata anche Francesca Pascale, la fidanzata del Cavaliere. Ma non ci sono conferme. I fotografi vanno allora a cercare Fiorella Mannoia Paola Turci, che pure avevano annunciato la loro presenza. La Mannoia, in realtà, si entusiasma ciclicamente: c’era già ai tempi dei Girotondi di Nanni Moretti, quasi diciotto anni fa.
Volendo per forza provare un paragone, questa piazza è forse un po’ meno radical-chic, meno twinset in cashmere e filo di perle, di quella girotondina, e meno arrabbiata di quella grillina. Ma certo appare come una limpida piazza di sinistra. Con dentro un popolo che aspetta di essere mobilitato, di avere un orizzonte. Si volta Erri De Luca, scrittore, poeta, ex capo del servizio d’ordine di Lotta continua: «Questa infatti è una magnifica piazza di smistamento verso il futuro».
Appunto: quale?
Inno di Mameli, poi Francesco De Gregori, «La Storia siamo noi/ nessuno si senta offeso…». Così torniamo dall’unico capo che c’è, Santori.

«Tra poche ore comincia una fase nuova» (si sistema il cerchietto, perché intanto è arrivata la troupe del Tg1).
Che significa?
«Le sardine non sono mai veramente esistite». Non la seguo.
«Vogliamo più amore nelle parole».
Ma su lavoro, immigrazione, Europa: che pensate?
«Intanto, non ci piacciono le fake news».
Intanto, avete registrato il marchio «Sardine».
«Ma non diventeremo un partito».
Lei prevede di candidarsi?
«Beh…».
Sì o no?
«Mai dire mai» (e si aggiusta un ricciolo).

sabato 14 dicembre 2019

Google traduttore trasforma le cuffie in interpreti simultanei Google ha rilasciato per tutte le cuffie intelligenti e gli smartphone Android la nuova funzione del suo Assistente vocale per le traduzioni simultanee

Google ha rilasciato per tutte le cuffie intelligenti e gli smartphone Android la nuova funzione del suo Assistente vocale per le traduzioni simultanee

15 Ottobre 2018 - A breve,  viaggiare in giro per il mondo senza conoscere le lingue potrebbe non essere più un problema. Google, infatti, vuole trasformare tutte le cuffie che supportano Google Assistante in dei traduttori simultanei in grado di farci comprendere qualunque lingua supportata da Google Traduttore.

Insomma, un interprete che possiamo portare sempre con noi, in qualunque occasione e ovunque vogliamo. E che ci aiuterà sicuramente a superare il nostro timore di relazionarci con altre persone mentre siamo in viaggio. Prima di questo aggiornamento, la funzione per le traduzioni in tempo reale era disponibile solamente per le cuffie intelligenti di Mountain View, le Pixel Buds. Ora, invece tutti coloro con una cuffia smart compatibile con Assistente Google e un telefono Android potranno usufruire del vantaggio di avere un traduttore vocale sempre a portata di mano. Al momento il servizio di Google per le traduzioni in tempo reale supporta 40 diverse lingue, compreso l’italiano.

Come funzionano le traduzioni in tempo reale di Google
A questo punto la maggior parte di voi si starà chiedendo ma come faccio a fare una traduzione usando delle cuffie e l’applicazione Google Assistant? Niente di più semplice. In realtà l’utente non deve fare proprio nulla. Basta lanciare l’app e andare nella sezione dedicata alle traduzioni in tempo reale. A questo punto, quando un  interlocutore parlerà in una lingua diversa dalla nostra, le cuffie inizieranno a tradurre affidandosi agli algoritmi di machine learning di Google traduttore. Google Assistente sfrutta il microfono delle nostre cuffie, o quello dello smartphone, per ascoltare quello ciò dice il nostro interlocutore e poi traduce simultaneamente.

Cuffie compatibili con la traduzione simultanea di Google Traduttore
Al momento non è disponibile una lista delle cuffie che supportano la nuova funzione di traduzione simultanea offerta da Google Assistente e Google Traduttore. E dal momento che le Pixel Buds non sono ufficialmente in vendita in Italia, dovrete per forza affidarvi a quelle di produttori terzi. In attesa che Google faccia sapere qualcosa in più, vi  basterà cercare online “Auricolari Google Assistant” o “Cuffie Google Assistant” e spulciare tra i risultati.

Google Assistente diventa traduttore simultaneo: come funziona

Google Assistant consente ora di tradurre automaticamente ciò che le persone dicono, trasformandosi così in una sorta di traduttore simultaneo 

13 Dicembre 2019 - Annunciato a gennaio 2019, è finalmente arrivata su quasi tutti i telefoni Android la nuova funzionalità di traduzione automatica delle lingue straniere. Naturalmente tramite Google Traduttore, ma direttamente all’interno di Assistant.

Dopo aver portato la traduzione all’interno di Google Maps, quindi, Big G fa il grande passo che tutti aspettavano da tempo: una funzionalità per poter parlare con gli stranieri, senza conoscere la loro lingua. Le nostre parole potranno essere tradotte e pronunciate dallo smartphone (o da altri dispositivi con Google Assistente integrato) in 44 lingue diverse e, contemporaneamente, le parole in una di queste 44 lingue saranno tradotte e pronunciate in italiano. La traduzione simultanea si basa sul cloud: è possibile scaricare i dizionari sul nostro smartphone, ma non è ancora possibile usare il traduttore simultaneo anche offline.

Come funziona il traduttore simultaneo di Google

Il funzionamento del traduttore simultaneo tramite Google Assistant è molto semplice e immediato. Basta pronunciare una frase come “Ok Google, attiva il traduttore” per iniziare. Se sul nostro smartphone non è ancora installata l’app Google Traduttore verremo avvertiti che è necessario installarla. Altrimenti tale app verrà lanciata in automatico. Nella nuova schermata di Google Traduttore c’è adesso una nuova icona: “Conversazione. Facendo tap su di essa è possibile iniziare a parlare nella propria lingua e, subito dopo, sentire uscire dallo speaker del cellulare la traduzione.

Traduttore automatico o manuale

Nella parte bassa dello schermo, invece, compaiono tre icone: prima lingua, a sinistra, seconda lingua, a destra, e “Automatico” in centro. Ciò vuol dire che possiamo scegliere se fare tap sulla lingua da tradurre, e quindi parlare uno per volta, oppure lasciare che Traduttore rilevi da solo chi sta parlando e in che lingua, per poi tradurre nell’altra. Questa funzionalità è molto comoda, ma funziona bene se i due interlocutori non si sovrappongono.

Google Traduttore sugli altri dispositivi smart

Questa nuova funzionalità è disponibile su tutti gli altoparlanti Google Home, alcuni altoparlanti con Google Assistente integrato e su tutti gli smart display. Naturalmente nei dispositivi senza uno schermo touch la traduzione avverrà solo in modalità automatica e non potremo scegliere di parlare a turno.

Il declino del «Lei», quando e come abbiamo iniziato a darci del «tu» Il caso della sardina Mattia Santori in tv. Approcci confidenziali anche in situazioni formali o sul luogo di lavoro. Il linguista: «Fenomeno storico, cambia l’idea del rispetto» di Elvira Serra


SOCIETÀ

Il declino del «Lei», quando e come abbiamo iniziato a darci del «tu»La sardina Mattia

Alla sardina Mattia Santori succede ogni volta che va in tivù: con buona pace di sua madre che se ne dispiace, gli danno sempre del tu. All’attore Gioele Dix succede quando va a comprare un paio di jeans: il capo di abbigliamento «giovane» autorizza le commesse e i commessi a trattarlo da «giovane»; sul tema ci ha imbastito un passaggio del monologo teatrale Vorrei essere figlio di un uomo felice. Al presidente francese Emmanuel Macron successe durante la cerimonia del 18 giugno dell’anno scorso, quando uno studente con un po’ di imprudenza gli chiese «ça va Manu?» e lui replicò fermo: «No, no, no, sei a una cerimonia ufficiale, mi devi chiamare signor presidente della Repubblica o signore».

Gioele Dix «si ribella» a teatro
La scomparsa del lei sembra ormai un lutto solo per la famiglia degli allocutivi (quei pronomi personali usati per rivolgersi a un’altra persona) e per pochi nostalgici delle buone maniere. Colpa forse dell’inglese, dove usa comunemente «you», «tu». Ma l’alibi anglofilo non convince Samuele Briatore, presidente dell’Accademia italiana galateo: «La lingua inglese rende la formalità con la costruzione della frase. Anche se usano il “tu”, la formulazione è rispettosa dei ruoli». Il linguista Marco Santagata, piuttosto, nel declino del lei ci vede qualcosa di più sostanziale: «Mi chiedo se non sia venuto meno il modo di rapportarsi con rispetto e dignità con gli altri». Appiattire il linguaggio significa appiattire le relazioni, ma le relazioni non sono tutte uguali, hanno intensità diverse. E su questo si fonda la «ribellione» di Gioele Dix: «Non rifiuto il tu per snobismo, che poi non ti fa nemmeno dispiacere quando ti dicono ciao. La tua illusione è che ti vedano giovane, ma non è così. Penso invece che i linguaggi debbano essere adeguati ai contesti, non puoi parlare allo stesso modo nello stesso luogo con tutti».

Le regole al lavoro
La lingua italiana, però, è fluida e pertanto destinata a cambiare. Combattere il tu talvolta può essere una battaglia inutile, ma vale la pena insistere in certe circostanze. «Sul posto di lavoro è da preferirsi il lei, sempre. Immaginate una lite tra colleghi: se fatta con il tu perde di valore, mentre il lei mantiene la giusta distanza che la rende definitiva», spiega Briatore. Anche in un negozio è da preferirsi il lei: «È una questione di rispetto. Del cliente, nei confronti del professionista che lo sta servendo. E del commesso, che in quel momento rappresenta anzitutto l’azienda per cui lavora».

La gerarchia del potere
Il punto dirimente, allora, è chi dà del tu a chi. Briatore insiste: «È grave quando c’è una relazione impari, e chi dà del tu lo fa stabilendo una gerarchia di potere. Piuttosto lo si chiede prima, possiamo darci del tu?». Ma Santagata è realista: «Il lei è venuto meno, assieme al congiuntivo. Questi sono fenomeni storici non governabili. È inutile stracciarsi le vesti per gli anglismi imperanti. Però forse la scuola può fare un’operazione di salvaguardia di alcuni atteggiamenti formali tra generazioni. Ormai i genitori non ci riescono più...».

venerdì 13 dicembre 2019

"La simpatia non basta, alle sardine manca coraggio". Intervista a Luca Ricolfi


POLITICA
13/12/2019 


Il sociologo all'Huffpost: "A me non dispiacerebbe che facessero un partito, in fondo sono una riedizione progressista ed europeista dell’idealismo 5 Stelle"




No, domani in piazza San Giovanni con le Sardine non ci sarà. “Non mi sento a mio agio con un movimento che enuncia valori ma non ha il coraggio - o la capacità? - di formulare obiettivi politici definiti”, spiega il sociologo Luca Ricolfi. Docente di Analisi dei dati all’Università di Torino, presidente e responsabile scientifico della Fondazione “David Hume” e intellettuale “controcorrente”, spesso sferzante verso la sinistra - la sua parte politica - tra le Sardine non avverte un gran rispetto per l’avversario politico. “Per me - puntualizza - ha ragione Liliana Segre: l’odio va combattuto in tutte le sue forme”. Non che non siano simpatiche, le Sardine, a lui che, in un libro diventato un classico, ha indicato nell’antipatia “la malattia della sinistra, fatta di razzismo etico, senso di superiorità morale, disprezzo dell’avversario politico”. Epperò, questa simpatia, per gli anti salviniani partiti da Bologna “potrebbe rivelarsi un punto di debolezza”, avverte. E a differenza di quanto hanno fatto tanti, intellettuali analisti e commentatori, Ricolfi precisa che non gli dispiacerebbe se le Sardine - “in fondo una riedizione progressista ed europeista dell’idealismo Cinque Stelle”- “facessero un partito, inevitabilmente di sinistra: quello è il Dna della maggior parte di loro”. Anzi, “se le Sardine presentassero un loro simbolo e, anziché limitarsi a dar voce a chi detesta Salvini, si decidessero a esplicitare un vero programma politico - aggiunge - il Pd e i Cinque Stelle subirebbero un ridimensionamento micidiale”. 
Professor Ricolfi, ha partecipato al flash mob a Torino?
No, preferivo le “madamine” pro-Tav, che avevano le idee chiare e si mobilitavano per qualcosa di specifico.
Riferendosi alla sinistra, 11 anni fa ha scritto “Perché siamo antipatici?”. Le Sardine, invece, sono simpatiche, sembra piacciano a tanti. Un loro punto di forza o potrebbe diventare un limite?
Veramente la prima edizione di “Perché siamo antipatici” è del 2005, l’edizione del 2008 veniva dopo il disastro elettorale della sinistra guidata da Veltroni, e sulle ragioni di quel disastro provava a riflettere (nella “Postfazione. Siamo ancora antipatici?”). Ci tengo a distinguere queste due date (2005 e 2008) perché, a mio parere, sul nodo cruciale dell’antipatia/simpatia della sinistra le cose erano sensibilmente migliorate con Veltroni, salvo poi riprecipitare con Renzi e soprattutto con i suoi successori.
In che senso?
Molto schematicamente: Walter Veltroni è stato l’unico leader che ha provato a curare la malattia della sinistra, fatta di razzismo etico, senso di superiorità morale, disprezzo dell’avversario politico. Veltroni ha tentato di metterla così: cari amici e compagni, Berlusconi è solo un avversario politico, non è il male assoluto, dobbiamo combattere le sue idee, non la sua persona. Questa sorta di “tregua morale” è durata più o meno un quinquennio, dal 2008 al 2013, ovvero per tutto il tempo in cui la lunga crisi ha costretto destra e sinistra a un minimo di cooperazione, e quindi di legittimazione reciproca. Poi la recessione è finita, sono esplosi gli sbarchi, Renzi ha iniziato a fare dell’accoglienza una discriminante etica, Salvini e la Lega hanno preso quota, fino a sorpassare Forza Italia alle politiche del 2018 - dieci anni dopo Veltroni. Il risultato è che la sinistra, oggi, è tornata a coltivare il razzismo etico, con Salvini nel ruolo che fu di Berlusconi. Che cosa c’entra tutto questo con la simpatia che le Sardine suscitano in tante persone, me compreso?
Ecco, cosa c’entra?
C’entra perché le Sardine sono la soluzione, probabilmente temporanea, di un classico problema della sinistra: come continuare a fare un discorso antipatico senza risultare a sua volta antipatica. Le Sardine sono simpatiche perché sono esterne all’establishment politico, si mostrano gentili, educate, animate da nobili ideali. Al tempo stesso fanno un discorso antipatico, che le fa ricadere nell’errore storico della sinistra nella seconda Repubblica: la disumanizzazione dell’avversario. Da questo punto di vista, la loro simpatia potrebbe rivelarsi un punto di debolezza: se sei personalmente simpatico, ma sei portatore di un discorso antipatico, rischi di non durare a lungo, o di avere un seguito modesto.
È appena uscito il suo libro “La società signorile di massa” (La Nave di Teseo) in cui lei fotografa un’organizzazione sociale, quella odierna in Italia, basata sulla ricchezza dei padri. In una società che campa di rendita, le Sardine possono segnare un’inversione di tendenza?
Più che segnare un’inversione di tendenza, le Sardine mi sembrano una delle manifestazioni più interessanti della “società signorile di massa”, o meglio del suo nucleo centrale, fatto di ceti medi urbani, istruiti, con una forte presenza di giovani e di donne. Una realtà lontanissima dagli operai e dai ceti più umili, le cui priorità sono assai più materiali e “basiche”.
I fondatori continuano a dire che questo movimento anti sovranista non diventerà mai un partito politico. Fanno bene o è un errore?
Dipende dal punto di vista.
Il suo qual è?
A me non spiacerebbe facessero un partito (inevitabilmente di sinistra: quello è il Dna della maggior parte delle Sardine), se non altro perché è difficile immaginare un ceto politico progressista peggiore di quello attuale. C’è però anche un’altra ragione per cui penso che un partito delle Sardine avrebbe un senso: in fondo le Sardine sono una riedizione progressista ed europeista dell’idealismo Cinque Stelle. E io trovo preferibile che a sinistra ci siano solo partiti di sinistra, anziché il guazzabuglio dell’attuale governo. Ovviamente tutto cambia dal punto di vista egoistico del Pd e dei Cinque Stelle. Se le Sardine presentassero un loro simbolo e, anziché limitarsi a dar voce a chi detesta Salvini, si decidessero a esplicitare un vero programma politico, il Pd e i Cinque Stelle subirebbero un ridimensionamento micidiale.
Il movimento delle Sardine è stato paragonato a quello dei Girotondi. Finirà allo stesso modo secondo lei?
Il destino della cosiddetta società civile è quasi sempre stato, in Italia, quello di andare a ingrossare le liste del maggiore partito della sinistra, dagli “indipendenti di sinistra” in poi. E anche oggi nessuno si stupirebbe se al giovane Mattia Santori venisse graziosamente offerto un seggio parlamentare come capolista del Pd in una città dell’Emilia-Romagna. Ma persino la storia della sinistra italiana potrebbe, prima o poi, riservare qualche sorpresa. Dopotutto il mesto destino dei Girotondi e del “Popolo viola” suggerisce di battere altre strade….
Fausto Bertinotti ha dichiarato che lo spazio per la rinascita della sinistra è fuori dalla politica: per esempio, nelle Sardine, nei movimenti ambientalisti. Lei che pensa?
Penso che Bertinotti, come tutti i delusi dall’evaporazione della sinistra, abbia contratto l’abitudine di proiettare sui primi venuti i sogni della propria giovinezza. Succedeva già a Marcuse e ad Adorno, delusi dall’imborghesimento della classe operaia, non mi stupisce che risucceda oggi a tanti. Perché lo schema è sempre quello: se al marxista viene a mancare la classe rivoluzionaria, non pensa che c’era nel marxismo qualcosa che non andava, ma che si tratta solo di cambiare il soggetto rivoluzionario. È così che si passa tranquillamente dagli operai della Ford e della Opel, ai neri, ai giovani, agli studenti, ai popoli del terzo mondo, per finire con i seguaci di Greta.
Le Sardine vengono associate alla sinistra, ma stanno incassando interesse e endorsement anche da ambienti della destra liberale. Anche CasaPound ha detto che il 14 dicembre parteciperà alla manifestazione. 
Credo che le motivazioni di queste adesioni siano leggermente strumentali. I liberali di destra - penso a Forza Italia - non vedono l’ora di rivitalizzare se stessi ridimensionando il sovranista anti-europeo Salvini. Quanto a CasaPound non si lascia certo scappare l’occasione di ottenere un po’ di visibilità.
E lei domani in piazza San Giovanni a Roma ci andrà?
No, e per almeno due motivi (lasciando perdere il terzo: abito a Torino). Il primo è che non mi sento a mio agio con un movimento che enuncia valori ma non ha il coraggio - o la capacità? - di formulare obiettivi politici definiti. Il secondo motivo è che, pur avendo più volte criticato Salvini tanto per i suoi modi, quanto per alcune sue scelte - quota 100, ad esempio - io la penso come la pensava Veltroni nel 2008: l’avversario politico va rispettato. E invece, parlando con tante persone pronte a mobilitarsi, troppo spesso sento circolare ben altri sentimenti: dalla repulsa fisica al disprezzo, dall’intolleranza all’odio verso il non-uomo Salvini. Insomma, per me ha ragione Liliana Segre: l’odio va combattuto in tutte le sue forme.