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venerdì 21 maggio 2021

Draghi e il fisco, il rifiuto dell'austerità

di Francesco Guerrera Il presidente del Consiglio Mario Draghi (fotogramma) La sfida del premier sarà riformare le tasse per permettere all'Italia di riprendersi dalla pandemia e crescere senza le debolezze, le ingiustizie e le inefficienze del passato 21 MAGGIO 2021 Il mago della politica monetaria "straordinaria" dovrà fare un miracolo simile con il fisco. Mario Draghi è giustamente famoso per aver infranto le rigide regole delle banche centrali, sbaragliato l'intransigente ortodossia teutonica e salvato la zona euro da varie crisi finanziarie. La prossima sfida, questa volta in campo nazionale, non sarà da meno: riformare le tasse italiane per permettere al Paese di riprendersi dalla pandemia e continuare a crescere senza le debolezze, le ingiustizie e le inefficienze del passato. È un terreno politicamente minato perché tocca gli interessi costituiti di sindacati, imprese e libere professioni, i desideri non sempre puri dei grandi investitori stranieri e l'hobby italiano dell'evasione fiscale. Ma il momento è propizio, grazie alla rinascita economica del dopo-Covid, i miliardi del Recovery Fund e la competenza (e onestà) del governo attuale. I tassi ultra-bassi imposti dalla Banca centrale europea forniscono un ulteriore assist, allentando la pressione dei mercati sull'enorme debito pubblico italiano. I tre principi-chiave delle riforme non dovrebbero essere in discussione: stimolare la domanda interna, attrarre capitali esteri e supportare le aziende nostrane. La battaglia politica sarà sulle misure da adottare per raggiungere questi fini, come si è visto con il botta e risposta tra Enrico Letta e il premier sulla tassa di successione. Nel rispondere a Letta, Draghi ha già indicato la sua filosofia: no all'austerità. Stringere la cinghia, o non usare il fisco per spingere l'economia, fu uno degli errori più gravi del mondo occidentale dopo la crisi del 2008-2009 (e in Giappone da decenni). Draghi lo sa bene perché la latitanza dei governi costrinse la Bce a fare gli straordinari per tenere a galla la zona euro. Quando dice a Letta che "è il momento di dare i soldi ai cittadini, non di prenderli", il premier sposa l'idea che la domanda interna vada stimolata con spesa e fisco. Il Recovery Fund aiuterà con la prima, ma non sarà abbastanza senza la riforma delle imposte. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, il lavoratore italiano medio cede quasi la metà della busta paga al fisco, un dazio da record tra i Paesi dell'Ocse. Tagliare le tasse sul lavoro sembra una mossa obbligata ma sarà possibile solo con una riforma radicale del sistema pensionistico, i cui esorbitanti costi gravano sul bilancio statale e sul debito pubblico. Sul fronte delle imprese e dei capitali stranieri, purtroppo, la strada irlandese è impraticabile. L'idea, avanzata di tanto in tanto da populisti di destra e di sinistra, che si possa trasformare l'Italia in un paradiso fiscale per le aziende, come l'Irlanda ha fatto con i giganti della tecnologia, è bloccata da trattati internazionali, delicati equilibri europei e il bisogno di gettiti fiscali da parte del nostro Paese. Ma quando parlo con investitori e aziende internazionali, le lamentele non sono quasi mai sul livello delle tasse su capitale e impresa - che in Italia sono in linea con la media Ue - ma contro la complessità del sistema, la burocrazia kafkiana e la rigidità del mercato del lavoro. Sono problemi che possono essere affrontati con misure specifiche, come l'Allowance for Corporate Equity (Ace) - che aiuta le società finanziate dalle azioni pubbliche e private invece del debito - gli sgravi per start-up, e parametri più chiari per usufruire degli incentivi su ricerca e sviluppo. Ed è qui che la confluenza di spesa, politiche monetarie e fisco può creare un circolo virtuoso. Se la spesa pubblica passa da attività non produttive come le pensioni alle infrastrutture e ai servizi, l'occupazione aumenterà. Se le tasse sui salari calano, più gente entrerà nella forza-lavoro, pronta a essere assunta da aziende locali e capitali stranieri attratti da incentivi fiscali. Più fervore economico porterà a maggiore crescita e, a sua volta, introiti fiscali più alti e meno debito pubblico. Secondo l'Fmi, un pacchetto del genere potrebbe aggiungere lo 0,2% l'anno al Pil e ridurre il debito pubblico di circa il 13% nei prossimi dieci anni. Per ora è un sogno, offuscato dall'incubo del nostro sistema fiscale. Ma vista la congiuntura favorevole e il calibro intellettuale di chi è al potere, sarebbe un peccato non provare a trasformarlo in realtà.

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