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lunedì 31 dicembre 2018

L’ANNO NUOVO Dal 2018 al 2019, la magia di vivere il presente

Ribelliamoci all’egemonia della nostalgia e al desiderio di tornare a una vita mai esistita Il passato non sia un rifugio, ma un modello
  di Massimo Gramellini su "corriere.it"
Dal 2018 al 2019, la magia di vivere il presente shadow

Nell’anno che verrà vorrei ribellarmi all’egemonia culturale della nostalgia. Questo desiderio di fare ritorno a un passato mai esistito che permea il dibattito politico e le nostre vite. Si tratta di una gigantesca «fake news» che anch’io mi racconto a giorni alterni. Quando il bisogno di lamentarmi delle oscure macchinazioni orchestrate ai miei danni prevale sulla voglia di assumermi la responsabilità del mio destino. Allora divento nostalgico, malinconico, rivendicativo. E mi perdo nel rimpianto di un piccolo mondo antico dove tutto era semplice, chiaro, a portata di mano. Si usciva dalla casetta per passeggiare nella piazzetta e oziare tra i negozietti, senza paura di essere importunati dal clandestino e aggrediti dal malandrino. Un mondo rassicurante. Un po’ noioso, forse. Ma in ogni caso immaginario. Il passato, quando si chiamava presente, non era affatto così. Ci si alzava la mattina in stanze raffreddate dalla crisi petrolifera che aveva razionato il riscaldamento.

Per leggere il giornale senza uscire di casa non c’era l’iPad, ma bisognava confidare nella puntualità del postino e nella cortesia del portinaio incaricato di depositare il manufatto sullo zerbino. L’automobile di papà inquinava come un congresso di tabagisti turchi. Ai semafori le persone gettavano le cicche e le cartacce dai finestrini abbassati con la stessa spensieratezza con cui oggi guardano il volo di una farfalla. Poi li riportavano su a mano, ma spesso la manovella si incantava e il vetro restava a mezz’asta, provocando brividi non sempre piacevoli, specie d’inverno. A scuola le classi accoglievano fino a quaranta alunni: la prima mezz’ora andava via solo per fare l’appello. La percentuale di bulli che ti sequestravano la merenda era identica a quella attuale, ma non essendoci i telefonini, le loro malefatte restavano circoscritte ai compagni di banco e non diventavano cibo per i sociologi. Il telefonino, già. Non esisteva. In compenso esisteva il duplex, la condivisione della linea telefonica tra due nuclei familiari al cui confronto i Montecchi e i Capuleti erano gemellati. Facevo la posta alla cornetta della cucina, per chiamare la ragazza nell’unico momento in cui sapevo che sarebbe stata lei a rispondere e non la nonna sorda o il padre geloso. Ma appena afferravo l’apparecchio, lo sentivo vibrare in un clic e la linea diventava muta. L’avevano presa gli odiosi compagni di duplex. Ingannavo l’attesa fantasticando su chi fossero e dove abitassero, ma soprattutto sulle torture da cui avrei fatto precedere la loro inevitabile esecuzione capitale. Poi la linea tornava, ma misteriosamente spariva di nuovo.

Mica tanto misteriosamente: l’aveva presa mio padre dal telefono del salotto. Allora scendevo a chiamare con i gettoni, stando attento a rinchiudermi bene dentro la cabina, perché di gente strana ne girava parecchia. I terroristi sparavano per le strade. I rapitori sequestravano i bambini e non solo i figli dei miliardari. Stravaccati davanti ai portoni delle case non c’erano i clandestini, ma gli eroinomani con il laccio emostatico intorno al braccio. Mio padre venne aggredito da due di loro nell’androne del condominio e lottò per non farsi portare via la borsa: gli rimase il manico. Lo sentii dire che l’Italia era diventata un posto spaventoso da cui bisognava scappare, non più il luogo tranquillo e sicuro della sua giovinezza (quando c’erano le bombe, il pane secco, il coprifuoco e i rastrellamenti). I programmi televisivi finivano prima delle undici di sera. In un famoso sketch, Nicola Arigliano sparava agli artisti intimando «non voglio noie nel mio locale» e sembrava un reperto storico, non ancora il precursore del sovranismo. La domenica, per vedere i gol, dovevi aspettare il pomeriggio inoltrato. Adesso sembra poetico, allora era una rottura. Nei cinematografi ti fumavano in faccia senza ritegno. Nei ristoranti ti rifilavano ogni sorta di schifezza scaduta e il salumiere di fiducia imbrogliava sulla bilancia. Nessuno conosceva il significato della parola scontrino. L’amianto era ovunque e ce se ne vantava pure. I grandi inviati dei giornali romanzavano gli avvenimenti, tanto non c’era la Rete a smentirli.

Il mio mito Montanelli raccontava di avere scritto di guerre e rivoluzioni senza mai uscire dall’albergo: ogni giorno un informatore andava a riversargli le suggestioni che lui poi confezionava da par suo. Sentivamo musica bellissima, questo sì, ma gli adulti non condividevano il nostro entusiasmo. Era così anche prima e lo è stato anche dopo. Oggi si rivalutano i cinepanettoni, i Lùnapop (deliziosi), persino Berlusconi. Tra vent’anni succederà lo stesso con Fedez e Salvini. Abbiamo perso soltanto l’idea che sia possibile cambiare il mondo tutti insieme. Eppure è l’unica conquista del passato che nessuno sembra rimpiangere. L’ambasciatore della nostalgia è Ulisse, l’uomo occidentale in perenne bilico tra internazionalismo e localismo, apertura e chiusura, mi sento a casa ovunque e mi sento a casa solo a casa mia. Trascorre l’intera Odissea a macerarsi nel desiderio di ritornare nella sua isoletta. Ma quando finalmente ci torna, non vede l’ora di ripartire alla scoperta del mondo, come rivelerà a Dante parecchi secoli dopo. Non c’è nulla di sbagliato nell’essere nostalgici. La nostalgia scalda il cuore. Letteralmente: è stato dimostrato che chi la prova sopporta meglio il freddo. Ma funziona se è uno strumento e non un traguardo, un modello e non un rifugio. La nostalgia semplifica, restituendoti nel ricordo una realtà deformata, perché depurata dalle tensioni. Appaga il bisogno di appartenere a una tribù, a un luogo sicuro, a un Noi contrapposto a un Loro. Per chi ha ucciso il futuro rimane solamente il passato. Ma appena si uccide il passato — o almeno lo si ridimensiona un po’ — si scopre che l’unica realtà è il presente. Non è poi così male, benché la mente umana tenda a sottovalutarlo, preferendo crogiolarsi nel rimpianto e nel desiderio.

La vita media si è allungata e la sua qualità è migliorata. Sono diminuite le disuguaglianze, nonostante si percepisca il contrario. Ma l’esistenza quotidiana di un manovale — che può lavarsi con l’acqua calda, muoversi rapidamente e informarsi con un clic — assomiglia a quella di un benestante molto più di quanto si assomigliassero le vite dei loro corrispettivi in un’epoca qualsiasi del passato, comprese le più recenti. Si può andare avanti e fare meglio, ma si può anche tornare indietro, specie se l’unica marcia vagheggiata dallo spirito del tempo è la retro. Nei miei giorni di nostalgia mi comporto come un erede che si aggrappa al patrimonio ricevuto, avendo perso la fiducia di poterne creare uno nuovo. Quand’è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta? Nel primo canto della citata Odissea, la dea Atena appare all’erede per antonomasia, Telemaco, e gli suggerisce di mettersi in viaggio per raccogliere notizie sul padre. La dea sa che il viaggio di Telemaco sarà inutile. Eppure vuole che lui lo compia lo stesso, per dare un senso e un orizzonte alla sua attesa. Il contrario della nostalgia è la consapevolezza di vivere immersi nel presente. Mi auguro e vi auguro di incontrarla spesso, nell’anno che verrà.

30 dicembre 2018 (modifica il 30 dicembre 2018 | 23:17)

Il mito del leader di ferro

La capacità di comando è una componente essenziale della politica, 
ma non è tutto. Il decisionismo può diventare un limite insuperabile. 
Macron e May insegnano
Quattro anni fa Archie Brown, politologo, storico e professore a Oxford, pubblicò The Myth of the Strong Leader: Political Leadership in the Modern Age. In questo saggio, che è forse il migliore tra gli studi recenti sulla leadership (e che ovviamente non è stato tradotto in italiano), Brown prova a ridimensionare il mito dell’uomo solo al comando. Se si considera che il libro è del 2014, quando cioè il fiume carsico del populismo non era ancora riemerso con tutta la sua irruenza sulla superficie europea e occidentale, si apprezza ancora di più la tesi centrale del lavoro di Brown.
Tesi che è presto riassunta. Prendiamo Harry Truman, di cui Brown parla molto nel suo bel libro. Truman era un leader decisamente poco “strong” e sommamente conciliante. Come spiega Brown, il contadino del Missouri amava lavorare coi suoi ministri. Caratteristico del suo stile presidenziale il fatto che quel capolavoro politico che fu il Piano Marshall prenda il nome del suo ministro degli Esteri, e non il suo! Archie Brown sostiene che il pugno di ferro non è affatto una delle principali qualità di un leader. E che nei leader che durano nel tempo e che fanno la storia prevalgono altre qualità rispetto a un rude e compiaciuto decisionismo che, viceversa, può rappresentare un limite nell’esercizio della leadership.
SSono orgoglioso di essere un politico. Uno statista è un politico morto da dieci o quindici anni”, disse un giorno Harry Truman
Il presidente francese rischia di essere la promessa più mancata della politica europea degli ultimi anni. Sta vivendo un processo di “chirachizzazione”
All’opposto dell’atteggiamento tipico dello “strong leader”, Truman è uno che è entrato nella storia senza avere l’obiettivo di entrare nella storia. Pochi anni dopo essersi ritirato dalla politica e considerato ormai uno dei più importanti statisti della prima parte del secolo, parlando al Reciprocity Club di Washington, Truman disse: “Sono orgoglioso di essere un politico. Un politico è un uomo che conosce l’arte del governo e ci vuole un politico per guidare un governo. Uno statista è un politico morto da 10 o 15 anni”. Archie Brown e Harry Truman mi sono tornati in mente osservando Emmanuel Macron e Theresa May alle prese con i loro diversi problemi domestici.

Non c’è dubbio che Macron, già laureato in Filosofia e già banchiere di Rothschild, si sia presentato al popolo francese e al grande pubblico internazionale come un uomo forte. Forte della sua competenza di tecnocrate. Forte del suo europeismo da establishment. Ancor più forte per aver sconfitto al ballottaggio la figlia di un leader fascista, fascistella pure lei, e aver tenuto la Francia nel perimetro dei valori liberaldemocratici. Ancor più forte per essersi proposto come il leader che ha dato il colpo di grazia al vecchio sistema dei partiti francese, fondando un proprio movimento con l’obiettivo di superare la noiosissima diade destra/sinistra.
Non c’è parimenti dubbio che Theresa May, già laureata in geografia e ministro dell’Interno nei due gabinetti Cameron, non sia proprio il prototipo di una “strong leader”. Militante e dirigente del Partito Conservatore, prima di entrare ai Comuni nel ’97 ha dovuto provare due volte a conquistare uno scranno parlamentare, nel ’92 e nel ’94, andando incontro però a sonore sconfitte. Accusata più volte di cedimenti razzisti per le scelte di politica migratoria quando era ministro, la signora May ha in realtà sempre assunto posizioni incerte e poco caratterizzanti. Sul referendum Brexit, per esempio, il suo sostegno al Remain è stato più sbiadito delle pitture rupestri del Paleolitico che si trovano in certe grotte.
Eppure May ha mostrato finora una notevole capacità di tenuta, mentre Macron, a parte qualche bel discorso, non è riuscito a dettare un chiaro indirizzo di governo alla Francia. E, nonostante la grande opportunità di avere una leader tedesca in uscita, non riesce a imporsi come leader continentale e gioca sui decimali del rapporto deficit/pil come un politico qualsiasi. May gestisce la fase più difficile della storia britannica dai tempi delle Falkland e delle proteste dei minatori. Prova a costruire un accordo onorevole con l’Europa, dopo il pasticcio di Brexit, e pur con passo da sciatrice di fondo, avanza verso un deal che se non scalda i cuori, potrebbe altresì avere un significato storico per il Regno Unito. Macron, campione della discesa libera, da quando è in carica non fa che infilare tutte le porte (gialle) piantate sul suo tracciato.
Quando uscì il libro di Brown sul mito del leader forte, la più sorprendente recensione positiva arrivò dalla penna di Bill Gates. A proposito della tesi centrale di Brown, il fondatore di Microsoft scrisse: “I leader che fanno la differenza più grande e migliorano la vita di milioni di persone sono quelli che collaborano, delegano e negoziano, quelli che riconoscono che nessuna persona può o dovrebbe avere tutto le risposte… Le stesse qualità che sembrano così attraenti nei leader forti possano portare, nei casi migliori, a decisioni sbagliate e, nei peggiori, a morte e sofferenza su vasta scala. Queste qualità possono essere ridotte a un dogma che il leader stesso elabora, secondo il quale lui – o lei, ma più spesso è un lui – è l’unico che sa di cosa ha bisogno il suo paese”.
Le vicende di May e Macron ci raccontano molto dei tempi che viviamo. La leadership è una componente essenziale della politica. Ma ridurre la politica allo spazio della mera soggettività dei leader è un errore di grammatica, prima ancora che di sintassi. In quanto elemento essenziale della politica, la leadership è soggetta all’interazione continua con numerosi altri elementi. E nei tempi voraci del populismo, in cui la deperibilità dei leader aumenta esponenzialmente, questa interazione è cruciale per scongiurare un rapido deterioramento della leadership stessa. Nei regimi democratici liberali, una componente di relazione fondamentale della leadership è rappresentata dal sistema dei partiti. E dall’abilità dei leader di rapportarsi dialetticamente al proprio partito e al sistema dei partiti tout court, dipende gran parte del loro successo.
Torniamo a May e Macron. Il referendum sulla Brexit è stata un’invenzione del partito di Theresa May. La sua storia è antica: un pezzo di Regno Unito ha cominciato a questionare sull’uscita dall’Europa mezz’ora dopo esserci entrati. Ed è una storia trasversale. Il motivo principale per cui il Labour oggi non riesce a ottenere elezioni anticipate e a vincerle, è perché è guidato da un leader che ha portato le proprie contraddizioni euroscettiche al vertice del più grande partito di sinistra rimasto nel vecchio continente. Nei tempi più recenti, Brexit è stata oggetto di un lungo dibattito dentro i Tory prima di diventare un referendum del popolo britannico.
Così come l’origine del pasticcio di Brexit è tutta partitica, allo stesso modo il post referendum è dettato dal dibattito interno ai due partiti. Nel Labour all’opposizione, è influenzato dalle contraddizioni di Jeremy Corbyn. Nei Tory al governo, è condizionato dalle diverse modalità di gestione (hard Brexit o soft Brexit) che dividono i conservatori. Così se Theresa May non pare proprio una nuova lady di ferro che batte i pugni sul tavolo, tuttavia riesce a utilizzare il dibattito interno al suo partito per contenere le spinte populiste interne ai Tory. Pur non essendo una “strong leader”, la sua capacità di usare il partito come strumento di contenimento dello scontro e di produzione di una sintesi politica, ha finora, di fatto, salvato la sua leadership.
 
Macron un partito invece non ce l’ha. Da bravo “strong leader”, si è inventato un movimento personale che non ha una precisa identità politico-culturale, eccezion fatta per il pur meritevole richiamo all’europeismo. Ha quindi scelto di cavalcare, esasperandola, la crisi del sistema dei partiti della Francia democratica. Ma non sta dedicando un minuto del suo tempo a costruire un sistema dei partiti alternativo. Il suo movimento non conosce insediamento territoriale, figuriamoci radicamento. I suoi eletti all’Assemblea generale sono parlamentari per lo più improvvisati, che di passare ore e ore tra i lavori di commissione e le riunioni nei collegi non hanno proprio voglia. Evidentemente Macron pensa di poter fare a meno di un partito organizzato che svolga la funzione che i Tory esercitano per la May.
Nel partito di Theresa May, fondato 350 anni fa, ci sono correnti, avversari interni, verifiche di maggioranza: c’è chi vorrebbe lo scalpo del primo ministro, chi sostiene il suo operato, chi ha posizioni più mediane. Nel partito personale di Macron sono tutti macroniani. Non avendo la Francia un articolato sistema dei partiti che sappia razionalizzare gli irrazionalismi sempre presenti nell’opinione pubblica, quegli irrazionalismi trovano sfogo indossando un gilet giallo. La caratura di “strong leader” non serve a Macron per arginare spinte irrazionali che, in tempo di populismo, raggiungono punte estreme di esasperazione. Se la May si può servire del suo partito e del sistema britannico dei partiti per dare razionale rappresentanza all’irrazionalismo imperante, di fronte alle proteste di piazza Macron non può che fare, più che En Marche, retromarcia. Perché puoi anche abbattere un sistema dei partiti, ma poi devi sostituirlo con qualcos’altro di altrettanto strutturato.
 
Macron ha poi un problema oggettivo in più, che non dipende da lui. Il semipresidenzialismo combinato col doppio turno è un sistema istituzional-elettorale molto performante. Di fatto trasforma una debolezza (il risultato conseguito dal candidato presidenziale al primo turno) in una gigantesca forza (la conquista dell’Eliseo al ballottaggio). E però se, arrivato all’Eliseo, non puoi poggiare la decisione di governo su una dinamica funzionate della rappresentanza politica, la decisione di governo risulta minata sul nascere. In parole povere: se vuoi fare le riforme, hai bisogno di un partito che ti aiuti a spiegarle, a correggerle, a realizzarle. Senza l’aiuto dell’articolazione stato per stato, contea per contea, città per città, dei Democratici americani, Obama non avrebbe mai portato a casa l’obamacare. In quel caso Obama è stato bravo a collaborare col suo partito. Ma Macron un partito non ce l’ha e la cosa pare che gli interessi poco o nulla.
 
In piena bagarre populista i cosiddetti leader forti fanno fatica a durare nel tempo. Soprattutto se pretendono di essere “strong leader” nel campo di quella sfida “impopulista” di cui parla Paolo Gentiloni nel suo libro. Di più. Quando un leader “impopulista” per avversare i populisti prova somigliare a loro, l’effetto caricaturizzante è una fatale, inevitabile conseguenza. Piuttosto che esercitarsi in pose decisioniste, i leader che vogliono provare a non lasciarsi travolgere dalla corrente del fiume populista, dovrebbero provare a rilanciare il contenuto storico e il senso generale della delega democratica di rappresentanza. Provandosi nel tentativo di riassettare le strutture portanti di quella delega, dovrebbero in primis occuparsi di riorganizzare un sistema dei partiti adeguato ai tempi.
Theresa May riequilibra i limiti di temperamento e di fantasia politica della sua leadership attraverso un continuo confronto-scontro col suo partito. Forse, come ha dichiarato, non si candiderà per un nuovo mandato. Ma se l’avrà vinta nel chiudere la partita con Barnier, Junker e Tusk, potrà ben dire di aver dato un contributo importante in una fase assai complessa nella vita del proprio paese. Emmanuel Macron, a meno di non maturare la consapevolezza che il suo profilo di “strong leader” non lo porterà da nessuna parte senza un’appropriata riorganizzazione del sistema dei partiti, rischia di essere la promessa più mancata della politica europea degli ultimi anni. La sua marcia indietro, dopo i tumulti di piazza, ricorda molto i passi indietro di Jacques Chirac dopo i propositi riformisti in tema di pensioni o di riforma del lavoro. La chiracchizzazione di Macron è un contrappasso amaramente ironico.
Nel 1924, cinque anni prima del crollo di Wall Street e dell’inizio della Grande Depressione, Franklin Delano Roosevelt scriveva: “Vorrei che i Democratici in tutto il paese fossero più uniti, si liberassero della loro faziosità e del loro provincialismo, instaurassero migliori rapporti con la stampa e dessero una base finanziaria più solida all’organizzazione nazionale del partito”. Nel suo The Myth of the Strong Leader, Archie Brown descrive Roosevelt come il perfetto “redifining leader”, un leader cioè che determina tali cambiamenti nella società che è impossibile tornare indietro. Roosevelt riuscì a produrli rivoltando come un calzino il suo partito, imbruttito com’era dalle corruttele di Tammany Hall e infiacchito dall’indolenza intellettuale che il carrierismo politico reca sempre con sé.
In un’epoca, la fine degli anni Venti, in cui in Europa il populismo portava democraticamente al governo alcuni dei peggiori dittatori che la storia ricordi, l’America si affidò a un leader politico capace, tra sconfitte e vittorie, di assorbire col New Deal le spinte irrazionaliste che animavano il dibattito pubblico statunitense. Ci riuscì grazie al suo personale talento, all’abilità di circondarsi degli uomini migliori e alla felice intuizione di fare del proprio partito uno strumento formidabile di governo al servizio dell’interesse generale della nazione.



31 Dicembre 2018 alle 06:09

Le élite senza ricambio I privilegi trasformano una classe dirigente in oligarchia. Si spiega anche così l’ostilità e l’insofferenza dei movimenti populisti

COMMENTO

di Ernesto Galli della Loggia

Per spiegare la vittoria elettorale dei 5 Stelle e il sentimento genericamente «populista» che ancora circola in notevole misura nel Paese si leggono due tipi di analisi, perlopiù orientate in una o l’altra di queste due direzioni (o in entrambe, vista l’ampia base comune esistente tra di esse). La prima si appunta sull’imborghesimento, chiamiamolo così, e sul conseguente distacco politico della Sinistra dalla sua base tradizionale. Nel secondo caso, invece, ci si sofferma sul sentimento di ostilità e di rivolta da parte di vasti strati dell’elettorato contro le élite a causa dell’identificazione di queste con la globalizzazione, il multiculturalismo, l’immigrazione, il politicamente corretto e così via dicendo. A fare da collante tra le due spiegazioni si sottolinea come sintomo classico del populismo la diffusione di un forte sentimento di ostilità verso le élite. C’è senz’altro molto di vero in entrambe le spiegazioni. Ma a tutte e due sfugge un elemento di non poco conto: la specificità delle élite italiane. Che in generale la democrazia — cioè il regime del governo popolare — e le élite in quanto tali siano due cose in naturale rotta di collisione lo scoprì per la prima volta la democrazia ateniese quando alla fine del VI secolo a.C. fu indotta proprio per questo ad adottare la legge sull’ostracismo: al fine , come ci dice Aristotele, di cacciare dalla città «tutti coloro che parevano innalzarsi al di sopra degli altri». È anche vero però che su questo antagonismo diciamo così consustanziale tra élite e democrazia la storia ha poi fatto valere le proprie ragioni, stabilendo che le moderne società complesse senza élite non possono funzionare. Neppure le democrazie. Ma in questo caso a una condizione: che le élite siano élite non del privilegio o della nascita bensì del merito. Cioè che si arrivi a farne parte provenendo da qualunque estrazione sociale e solo perché si possiedono doti e competenze obiettivamente accertate. In una società democratica, insomma, anche le élite per essere legittimate devono avere un carattere democratico.

In larga misura non è questo il caso dell’Italia, però: ed è questo il punto cruciale. Negli ultimi due tre decenni infatti — complici tre fattori principali: il ristagno dell’economia, la crescita dello svantaggio del Mezzogiorno, e la crisi del nostro sistema scolastico e universitario — le élite italiane non hanno conosciuto alcun ricambio significativo, nulla di paragonabile a quanto accadde ad esempio dagli anni 50 agli anni 80. Esse hanno assunto un carattere sempre più odiosamente ereditario. Il principale titolo d’accesso è diventato essere figlio di: nelle università, nei vertici delle professioni, nel giornalismo, nell’alta burocrazia, nella magistratura, nella diplomazia, perfino nel mondo dell’editoria, del cinema e dello spettacolo, la trasmissione o l’acquisizione del ruolo socio-lavorativo per via ereditario-familiare (naturalmente con gli opportuni scambi tra un settore e un altro) è diventato da tempo la regola. Non sempre il merito è assente, com’è ovvio, ma il fatto è che sempre di più la possibilità di affermarlo dipende in gran parte dalle proprie condizioni familiari di partenza. Le quali in troppi casi costituiscono il solo titolo preferenziale. Accade così che oltre agli altri fattori sopra ricordati, l’antica idiosincrasia nazionale per la competizione e per la trasparenza, unita all’altrettanto antica vocazione a privilegiare nell’ambito sociale le relazioni sulle competenze, stiano ormai interrompendo quasi del tutto quel prezioso canale di comunicazione tra gli strati popolari e piccolo borghesi da un lato e dall’altro i piani alti della società, che in tutta la nostra vicenda unitaria, in modo particolarissimo nel primo trentennio repubblicano, ha consentito agli elementi più capaci e intelligenti di tali strati di accrescere la vitalità, le attitudini innovative, la tenacia delle élite della Penisola. Cosicché il Paese può contare sempre meno su quella risorsa tanto spesso presente nella nostra storia, rappresentata dalla brillantezza talora geniale dell’individualità italiana.

Dove maggiormente si respira il tanfo del chiuso è in quel settore dell’élite costituito dall’insieme dei vertici dei gabinetti ministeriali e degli uffici legislativi, dal Consiglio di Stato, dai consigli d’amministrazione dei più vari enti pubblici, agenzie e «Autorità», dalle alte burocrazie addette agli organi costituzionali dello Stato. Sono gli ambiti per l’accesso ai quali molto o tutto dipende assai spesso più che dall’affiliazione politica in senso stretto (che tra l’altro può mutare con la massima disinvoltura), dalla capacità di equilibrismo e di vantaggioso posizionamento tra i diversi clan, dai padrinaggi, dalle consorterie o dalle filiere di cui si è parte o da cui si è sponsorizzati, dall’essere stati allievi di, nello studio di, dall’aver lavorato nella fondazione di. Da tutto questo deriva la natura sostanzialmente chiusa, iperomogenea e autoreferenziale delle élite italiane, con i suoi tre caratteri tipici: l’età perlopiù avanzata (trovare un quarantenne in una posizione di vertice è da noi cosa rarissima), l’assai scarsa presenza di donne (si osservino le foto delle occasioni ufficiali: una marea di tetre grisaglie maschili); e infine la basica formazione o provenienza ideologica di centrosinistra di quasi tutti (caratterizzata da un perbenismo culturale di irritante quanto superficiale assennatezza sempre: si direbbe un requisito d’ammissione indispensabile). Alla fine quindi come effetti ultimi: conformismo, carrierismo, ostilità a ogni cambiamento, riluttanza a prendere decisioni importanti e/o impopolari. E naturalmente la crisi pervadente nella gestione del Paese a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Ma se quanto detto fin qui è vero bisogna allora concludere che l’élite italiana più che altro assomiglia a un’oligarchia. È di fatto una vera e propria oligarchia. Il che forse aiuta a spiegare di più e meglio il vasto sentimento di avversione che essa suscita.

30 dicembre 2018 (modifica il 30 dicembre 2018 | 20:44)

domenica 30 dicembre 2018

Cariche, molotov e proiettili. La leggerezza del ’68 finì davanti al portone della Bussola

30 Dec 2018 09:50
La notte del 31 dicembre il movimento studentesco voleva fare la “festa ai padroni”. Tra i contestatori c’erano D’Alema e i futuri dirigenti di Potere Operaio
L’ immagine felice del ‘ 68, solo in parte abbellita e indorata dal mito e dalla nostalgia, degenerò in tragedia la notte dell’ultimo dell’anno. In quelle stesse ore convulse e tragiche, con le barricate erette sul lungomare esclusivo della Versilia e la polizia che sparava ad altezza d’umo, con i manifestanti che sfuggivano alle cariche sulla spiaggia, e con loro il futuro segretario dei Ds Massimo D’Alema, iniziò a nascere il principale gruppo della sinistra extraparlamentare, Lotta continua, anche se per la gestazione ci sarebbero voluti mesi e a fare da levatrice ci si sarebbe messa l’imprevista rivolta operaia autonoma alla Fiat, nella primavera successiva.
Quella notte camminò anche per l’ultima volta Soriano Ceccanti, di appena 16 anni. Una pallottola lo raggiunse alla colonna vertebrale. La paralisi, nei decenni successivi, non gli ha impedito di diventare campione di fioretto e spada, oro mondiale in Olanda nel 1990, medagliere folto di argenti e bronzi in quattro tornate olimpiche. Senza mai dimenticare l’impegno: Ceccanti è stato consigliere comunale eletto con Rifondazione, attivo per decenni nella cooperazione in Africa. Con la ferocia tipica della burocrazia, nel 2013 l’Inps, nel quadro del rigorismo europeo, gli revocò la pensione d’invalidità. Un passo involontariamente ad alto tasso di significato simbolico.
La protesta di fronte alla Bussola era stata forse ispirata da quella della Scala del 7 dicembre. L’aveva organizzata “Il Potere Operaio di Pisa”, un gruppetto attivo in Toscana già dal 1965, con un periodico omonimo che nel ‘ 68 aveva visto moltiplicarsi sia le vendita che le adesioni non solo fra gli studenti ma anche di alcuni giovani operai. Il manifesto che convocava la protesta era stato diffuso in tutta la Toscana, preparato da due futuri dirigenti del gruppo che dal “Potere Operaio” sarebbe na- to, Lotta Continua. I due, Giorgio Pietrostefani e Paolo Brogi, avevano scelto uno stile truculento: “Il 31 dicembre faremo la festa ai padroni”. Al principale esponente del gruppo, Adriano Sofri, quella frase granguignolesca non era piaciuta affatto: «La trovava una caduta di stile», avrebbe raccontato molti decenni dopo Pietrostefani.
Alla Bussola, locale di lusso della Versilia ma certo distante anni luce dall’esclusività della Scala, il veglione di fine anno prevedeva due star in concerto: Fred Bongusto e Shirley Bassey. Gli organizzatori sapevano che non sarebbe stata una protesta pacifica. Prevedevano gli scontri con la polizia, erano preparati e pronti, ma nessuno poteva immaginare una sparatoria ad altezza d’uomo. Anche se meno di un mese prima c’erano state due vittime ad Avola, in Sicilia, le uccisioni durante le manifestazioni sembravano solo un ricordo del passato, dei sanguinosi anni ‘ 50, e tanto più dato che a protestare erano soprattutto giovani e studenti.
All’appello avevano risposto alcune migliaia di persone. Erano fornite di sacchi di vernice rossa e qualcuno anche di da buste piene di escrementi. La polizia intervenne. I ragazzi costruirono barricate. Ma di fronte alla Bussola, quella notte, c’era di tutto. Alcuni gruppetti di fascisti. Qualche cliente dal grilletto facile. Ma sugli spari dalle file della forze dell’ordine le testimonianze furono unanimi. Quando videro le esplosioni, i manifestanti pensarono addirittura che fossero colpi a salve, sparati solo per spaventare. Poi Ceccanti si accasciò sulla barricata. Seguirono le cariche, le fughe sulla spiaggia e a volte anche nelle ville vicine, saltando i muri, i fermi e, per la seconda volta nel giro di pochi mesi, la latitanza dei leader del gruppo pisano, a partire da Sofri. Tra gli organizzatori della tragica protesta in Versilia figuravano molti dei futuri dirigenti di Lc. «Tutto cominciò lì», ricordava anni fa Pietrostefani e davvero, per alcuni versi, Lc nacque quella notte, di fronte alla Bussola. Sino alla fine dell’estate 1968, quando la protesta dilagò al festival di Venezia e Pasolini si trovò a manifestare con quello stesso movimento che aveva poeticamente disprezzato pochi mesi prima, dopo Valle Giulia, il Movimento studentesco era rimasto unitario, sia pur traversato dalle centomila sfumature ideologiche che da sempre lacerano e affliggono la sinistra, quella rivoluzionaria anche più di quella riformista. In autunno si cominciarono a formare le organizzazioni extraparlamentari, che nel loro lato peggiore sarebbero state spesso caricature di partitini ma in quello migliore andrebbero invece ricordate come “strutture di movimento” che gestirono la fase migliore del decennio, i primi anni ‘ 70.
Il primo gruppo a presentarsi sulla piazza fu l’Unione dei comunisti italiani marxisti- leninisti. Filocinesi, dogmatici e integralisti, “debuttarono” nello sciopero generale del 5 dicembre a Roma, egemonizzando la manifestazione degli studenti con una coreografia ricavata da quella delle guardie rosse cinesi. Due giorni dopo, a Milano, la protesta alla Scala fu organizzata dal Movimento studentesco della Statale, di Mario Capanna: a onta del nome un gruppo a tutti gli effetti, sia pur concentrato a Milano dove però sarebbe rimasto a lungo egemone, anche in virtù dell’abitudine di sedare i dissensi a bastonate. In Toscana era attivo già da un paio d’anni il gruppo che stampava Il potere operaio, da non confondersi con la futura e più nota organizzazione nazionale dal nome quasi identico, quella di Negri, Piperno e Scalzone. L’anima del gruppo era un docente di 26 anni, Adriano Sofri, che nel 1964, aveva affrontato il segretario del Pci Palmiro Togliatti, evento ai tempi quasi inimmaginabile, alla Normale di Pisa, contraddicendolo in pubblico e accusandolo di aver abbandonato l’obiettivo rivoluzionario. Tra gli altri leader del “Potere operaio di Pisa” c’erano Luciano Della Mea, di vent’anni più anziano, fratello del cantautore Ivan e Gian Mario Cazzaniga, coetaneo di Sofri, con alle spalle l’esperienza fondamentale nella cultura della sinistra marxista italiana dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri.
“Il Potere Operaio” era attivo in moltissime fabbriche della Toscana già dal 1965 e il 15 marzo 1968 aveva partecipato all’occupazione della stazione di Pisa, conclusa con scontri molto violenti tra studenti e polizia.
Proprio in seguito a quegli scontri Sofri e Della Mea erano stati per mesi latitanti. Nell’autunno ‘ 68 i leader del Potere Operaio si ponevano il problema di come dar vita a un’organizzazione capace di dare una prospettiva alle mobilitazioni dell’anno precedente ed emergevano contrasti profondi tra la visione più tradizionale di Cazzaniga e quella più “spontaneista” di Sofri. Era stato, come usava allora, un dibattito serrato e colto, che ruotava intorno all’attualità del leninismo e di quel modello di partito di militanti, al quale Sofri si opponeva.
La tragedia della notte di San Silvestro spostò quella discussione dalle pagine delle riviste teoriche alla realtà cruda e sanguinosa. Cazzaniga accusò Sofri di “avventurismo”. Il grosso del gruppo difese la scelta della protesta finita in tragedia. Il Potere Operaio si divise: Della Mea costituì la Lega dei comunisti, Cazzaniga il Centro Karl Marx. Sofri si spostò a Torino, dove dall’esplosione di Mirafiori sarebbero nate sia Lotta Continua che Potere Operaio. I leader pisani furono indagati per il “tentato omicidio” di Soriano Ceccanti e il caso si chiuse solo molti anni più tardi: dopo lo scioglimento di quella Lc di cui Ceccanti era stato militante.

Spunta la flat tax allargata: al 15% anche per i redditi più alti

FISCO
Spunta la flat tax allargata: al 15% anche per i redditi più alti
Per entrare nel regime agevolato conta solo il reddito fatturato l’anno precedente. E si perde, se si guadagna più di 65 mila euro, solo l’anno successivo. E c’è già chi, per usufruire del bonus, che resta acquisito, sta rinviando le fatture del 2018.
di Mario Sensini su "corriere.it"

Da un paio di mesi, da quando è uscito il testo più o meno definitivo della nuova flat tax sulle partite Iva che parte nel 2019, molti professionisti, lavoratori autonomi e piccole imprese hanno smesso di fare le fatture. Chi può preferisce rinviare gli incassi per restare nel 2018 sotto il tetto di fatturato dei 65 mila euro che fa scattare la tassa piatta del 15% sui redditi del prossimo anno. Su tutti i redditi maturati, e non solo su quelli sotto i 65 mila euro. Perché la flat tax, che i più scaltri hanno capito subito, funziona proprio così. Si accede al regime sulla base del fatturato dell’anno prima. E non importa quanto si guadagnerà: anche 4 milioni di euro verrebbero tassati al 15%. Anzi meno, perché c’è anche un cospicuo abbattimento forfettario dell’imponibile, così si finisce per pagare, effettivamente, anche solo l’11,7 per cento sul reddito realizzato. E i benefici, sforando il tetto, si perdono solo nell'anno successivo

Come funziona
La norma contenuta nel decreto fiscale che accompagna la manovra, prevede che chi supera i 65 mila euro di fatturato, l’anno dopo debba uscire dal regime forfettario del 15%. Se le fatture emesse superano i 65 mila, ma non i 100 mila euro, rientrerà nella flat tax al 20%, che a differenza di quella al 15% è su base analitica, e non forfettaria, e partirà dal 2020. Se vanno oltre quella cifra si ricadrà, invece, nel regime ordinario delle partite Iva, i cui redditi confluiscono poi nell’Irpef dei titolari, tassati all’aliquota marginale. 

Bonus acquisito
Ma non si dovrà restituire nulla o versare imposte integrative. A differenza di quanto avviene per vari altri regimi fiscali, dove il venir meno dei requisiti di accesso nel corso dell’anno fa decadere le agevolazioni o i bonus. Come , ad esempio, per gli 80 euro al mese del governo Renzi per i lavoratori che guadagnano fino a 26.600 euro, che se hanno scavalcato quel tetto nel corso dell’anno devono restituire, al momento della dichiarazione dei redditi, tutto il bonus percepito.

Partita Iva per tutti
Per come si rivela, la flat tax è dunque una vera e propria manna dal cielo, e non solo per i piccoli, per cui sembrava pensata. L’unica precauzione contro gli arbitraggi è la norma che vieta, a chi è in regime di flat tax, di fatturare prevalentemente nei confronti degli ex datori di lavoro. Serve per evitare la trasformazione del lavoro a tempo indeterminato in lavoro autonomo, ed è stata ribattezzata norma «anti-furbetti». Ma il tetto dei 30 mila euro di reddito da lavoro dipendente che oggi impedisce l’apertura di una partita Iva è saltato, e da gennaio tutti i dipendenti possono farsene una, fatturando al 15% eventuali consulenze o collaborazioni, anche milionarie.

Effetti distorsivi
«Per carità, è l’unica misura fiscale non penalizzante di una manovra piena di tasse» dice l’ex vice ministro dell’Economia, Enrico Zanetti, che di mestiere fa il commercialista, «ma così come è stata scritta, questa norma può essere anche molto distorsiva. Determina tra i contribuenti dei carichi fiscali molto differenti su redditi equivalenti» dice Zanetti. La prospettiva di uscire dal regime di flat tax solo l’anno successivo, e di beneficiare di un maxi sconto senza tetto per l’anno in corso, potrebbe spingere i titolari a organizzare di conseguenza la propria attività, come qualcuno sta già facendo. Conviene stare bassi con il fatturato per un anno, rinviare fatture e incassi, e giocarsi il jolly in quello successivo. Un anno al lavoro, e magari uno in vacanza alle Maldive.

29 dicembre 2018 (modifica il 30 dicembre 2018 | 08:22)

venerdì 28 dicembre 2018

Perché l’Occidente ha perso la bussola

COMMENTO
Perché l’Occidente ha perso la bussola
Sembra che ci si voglia disfare di quel tanto di buono che l’Occidente ha saputo costruire. Ma bisogna spazzare via le false idee, e difendere i gioielli di famiglia
di Angelo Panebianco su "corriere.it"

Sembra che, dagli Stati Uniti all’Europa, una parte ampia del mondo occidentale, in preda a un raptus, voglia disfarsi dei gioielli di famiglia — il tanto di buono che la società occidentale ha costruito nel corso dei secoli — e cerchi di auto-distruggersi. Servono al più presto leader (al momento non se ne vedono) che spazzino via le idee false e bacate che circolano in Occidente e che obnubilano le menti di tanti. Per esempio l’idea, diffusa in Europa, secondo cui, anziché storicamente eccezionale, la combinazione di pace, prosperità economica e democrazia di cui godiamo dalla fine della Seconda guerra mondiale, sia destinata a durare per chissà quanti altri decenni o secoli. È difficile stabilire se si tratti di un’idea bacata «di destra» oppure «di sinistra». Forse è politicamente trasversale. L’hanno cavalcata per decenni gli antiamericani che negavano l’evidenza, ossia l’esistenza di uno stretto rapporto fra la Nato (e i legami interatlantici) e la pace in Europa. E la cavalcano oggi i «sovranisti» quando attaccano l’Unione europea, ossia l’altra struttura di sostegno (insieme ai rapporti interatlantici) della pace nel vecchio Continente. Qualcuno ha scritto che noi umani siamo «deterministi» rispetto al passato (è andata così e non poteva che andare così) e «possibilisti», aperti a varie eventualità, rispetto al futuro. Tradotto, ciò significa che tendiamo a non capire quanta aleatorietà e quanta casualità ci siano nella storia passata.

Il film «L’ora più buia» rende bene il senso di questa aleatorietà: Winston Churchill, nel 1940, in un momento-chiave della storia mondiale, corse il rischio di essere politicamente sconfitto da coloro che, nel suo stesso partito, volevano accordarsi con Hitler. Se questo fosse avvenuto la guerra avrebbe preso un’altra piega. Forse, la fine di quel conflitto avrebbe visto l’intero continente euro-asiatico spartito fra i totalitarismi e un’America chiusa, sulla difensiva, al di là degli oceani. È un grave errore credere che «non poteva andare così» dal momento che non è andata così. Chi in questo momento non sente scricchiolare il pavimento su cui cammina è sordo.


C’è un presidente degli Stati Uniti che vuole chiudere, in nome di un malinteso interesse nazionale, l’epoca della leadership americana. Un malinteso interesse: la fine della leadership degli Stati Uniti destabilizzerà (lo sta già facendo) il mondo e aprirà una stagione di conflitti sempre più intrattabili in cui l’America stessa - ma più debole di ora -, volente o nolente, verrà certamente risucchiata. A parte Putin e i suoi fiancheggiatori in Europa, quale persona dotata di senno può non condividere gli argomenti del generale Mattis, il dimissionario Segretario alla Difesa, contro la decisione di Trump di ritirare le truppe dal Medio Oriente? Al declino (largamente auto-inflitto) della leadership americana, e alla destabilizzazione, in cui Trump è impegnato, della storica alleanza fra Stati Uniti e Europa, corrisponde la crescita della potenza e della influenza degli Stati autoritari: Cina e Russia. Come accade sempre in questi casi, l’autoritarismo è una calamita: attrae consensi da tutte le parti. Nell’Europa degli Anni trenta, oltre ai comunisti, di stretta osservanza sovietica, in tutti i Paesi (anche quelli ancora liberi: Gran Bretagna e Francia) erano numerosi i simpatizzanti della Germania nazista. Le circostanze cambiano (e anche gli autoritarismi assumono sembianze diverse) ma l’effetto-calamita non si attenua.

Come hanno scritto, allarmati, tanti osservatori, le scelte di Trump — che certamente riflettono umori assai diffusi nella società americana — stanno permettendo alla Russia e alla Cina di diventare sempre più sicuri di sé e sempre più arroganti mentre dicono al resto del mondo: «Non avete più lo scudo e la protezione statunitense. Adesso dovete trattare con noi». Anche la nuova, probabile, corsa agli armamenti fra Usa e Russia è cosa diversa dal passato. Con l’America che agisce come potenza solitaria, non come leader di una vasta alleanza. È evidente che quando Putin evoca il rischio di guerra nucleare sta parlando agli intimiditi, impotenti europei. «Venite a me pargoli», sta dicendo. Anche nei primi Anni ottanta la Russia (allora Unione Sovietica) tentò — con il dispiegamento dei missili SS20 e SS21 — esattamente ciò che sta tentando ora: intimidire gli europei al punto da costringerli al decoupling, al distacco dagli Stati Uniti. Per «finlandizzare» l’Europa, come si diceva allora.

Ma il piano fallì per due ragioni. In primo luogo, perché alla Casa Bianca sedeva Ronald Reagan, leader del mondo occidentale nel suo insieme. Oggi, al suo posto, c’è solo un nazionalista americano. In secondo luogo, fallì perché l’Europa (al pari degli Stati Uniti), pur con le sue tante difficoltà, non era stata ancora aggredita dalle varie (e fra loro diverse) forme di antioccidentalismo oggi assai diffuse. A destra come a sinistra. A destra non si era ancora manifestato il virulento attacco sovranista ai principi della società libera occidentale (il libero scambio, la democrazia rappresentativa, lo stato di diritto) e alle istituzioni sovranazionali che quella società libera difendono. Se non fosse tragico ci sarebbe da ridere di fronte a ciò che certi sovranisti europei vanno dicendo sulla «finanza internazionale». Nemmeno lo sanno ma stanno ripetendo gli stessi argomenti, spesso con le stesse parole, che, negli Anni trenta/quaranta, usavano i nazisti.

A sinistra, per parte sua, non era ancora prevalente quell’ideologia del politicamente corretto che — nata nei campus universitari e poi diffusa ovunque attraverso i mass media — sta contribuendo da tempo a disarmarci moralmente e politicamente. Come, ad esempio, quando pretende che noi ci si vergogni della civiltà occidentale (abbasso Shakespeare e Cristoforo Colombo), o quando attribuisce all’Occidente la responsabilità di ogni misfatto che si compia nel mondo, o quando condanna, per principio, ogni azione di Israele mentre «assolve» i truculenti regimi islamici. Eccetera, eccetera.

Fortunatamente non siamo ancora alla «Ora più buia» ma è da incoscienti fingere che il peggio non possa capitare prima o poi e che dunque non valga la pena di agire con saggezza e con prudenza, difendendo i gioielli di famiglia. Forse dei Roosevelt e dei Churchill non se ne fabbricheranno più. Qualcuno pensa che abbiamo buttato via lo stampo. Speriamo che non ci servano mai.

27 dicembre 2018 (modifica il 27 dicembre 2018 | 20:51)

mercoledì 26 dicembre 2018

Manovra: promesse e realtà

Nella legge di bilancio rivista, poco o niente della flat tax. Per il reddito di cittadinanza meno della metà della spesa prevista. 4 miliardi e non 7 per Quota 100

di Lorenzo Borga su "ilfoglio.it"

26 Dicembre 2018 alle 09:01

Dopo la fine della trattativa con la Commissione europea, Luigi Di Maio e Matteo Salvini si sono apprestati a ribadire di aver comunque mantenuto le promesse elettorali. Seppur siano stati concessi tagli miliardari alla prima bozza di legge di bilancio approvata dalla Camera, secondo il governo non sarebbero messe a rischio le misure promesse da mesi, fin dal contratto di governo. Tutto il contrario di quanto era stato paventato prima dell’inizio della trattativa europea. I leader del governo, fino a qualche settimana fa, escludevano ogni modifica della manovra, per il rischio di non poter rispettare le promesse fatte agli elettori in caso di riduzione del deficit nominale dal 2,4 per cento. Oggi appare tutto cambiato, nonostante il deficit ridotto di circa 7 miliardi: il governo ripete come un mantra che “le promesse sono rispettate”. Una retorica degna della casata Lannister, dal mondo fantasy della serie tv “Game of Thrones”, famosa per il motto “un Lannister paga sempre i propri debiti”. Di Maio ha confermato l’aumento della spesa pensionistica e il reddito di cittadinanza, mentre Salvini ha affermato che “le misure che abbiamo promesso le faremo nei modi e nei tempi previsti”. Abbiamo un governo-Lannister?

Le clausole dell’Iva, aumentate nel 2020 e 2021, porteranno il carico totale da disinnescare a 23 miliardi nel 2020 e a 30 nel 2021. Le salvaguardie non scattano dal 2014. Questa volta sarà difficile

L’ultima lettera inviata dal governo italiano alla Commissione parla chiaro: 10,2 miliardi tagliati della manovra, tramite aumenti di tassazione e riduzioni di spesa. Per i primi, si prevedono l’anno prossimo 150 milioni dalla web tax (600 dal 2020), la cancellazione della deduzione Irap per i lavoratori a tempo indeterminato assunti al sud (113 milioni), la limitazione del taglio dell’Ires ai soli enti commerciali (118 milioni), l’abolizione del credito di imposta per l’acquisto di beni strumentali (204 milioni) e le nuove tasse sui giochi d’azzardo (450 milioni). Circa un miliardo di euro, solo in parte compensato dal taglio dei contributi Inail dovuti dalle aziende (per più di 400 milioni secondo un emendamento presentato dal governo al Senato). Decisioni che vanno a peggiorare una situazione già non rosea. Secondo quanto calcolato dal Foglio, il taglio delle tasse previsto per l’anno prossimo dalla prima versione della legge sarebbe stato pari a solo 1,4 miliardi di euro. Senza contare le coperture previste, che per l’Ufficio parlamentare di bilancio avrebbero aumentato il gettito per il 2019 di 6 miliardi di euro. Ora, rispetto a queste stime, le imposte aumentano ancora.

Inoltre le clausole dell’Iva, aumentate nel 2020 e 2021, porteranno il carico totale da disinnescare a 23 miliardi nel 2020 e a quasi 30 l’anno dopo. Le salvaguardie non scattano dal 2014 e da allora sono sempre state disinnescate anno per anno, rimandandole grazie all’utilizzo del deficit. Questa volta tuttavia l’impresa sarà difficile: il deficit nominale programmato, 1,8 e 1,5 per i due anni in questione, sarà a malapena sufficiente a coprire il mancato gettito Iva. Le manovra di bilancio potrebbero diventare di un solo articolo, senza alcuna misura di incentivo e rilancio dell’economia.

La trattativa con Bruxelles ha ridotto anche gli spazi del governo dal lato della spesa. I due fondi per le misure principali della manovra di bilancio – reddito di cittadinanza e quota 100 – vengono tagliati rispettivamente di quasi 2 e 2,7 miliardi. Viene inoltre ridotto il tasso di aggiornamento degli assegni pensionistici oltre 1.500 euro lordi al mese e tagliati alcuni programmi di spesa per l’innovazione.

In un quadro di tagli così considerevoli, per quanto temporanei e non strutturali anno su anno, come poter mantenere le promesse fatte in campagna elettorale e nel contratto di governo?

Partiamo dalle misure simbolo. Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 stelle presenta un costo totale pari a circa 17 miliardi di euro (stima Istat). La legge di bilancio per il prossimo pare che finanzierà la misura per poco più di 7 miliardi (che comprendono anche 2 miliardi del Rei), meno della metà della spesa inizialmente prevista. Per comprendere se la promessa sia da ritenere o meno rispettata (già da giugno si è iniziato a parlare di “avvio del reddito di cittadinanza”) bisognerà attendere il disegno di legge specifico. Secondo il Movimento 5 stelle la platea rimarrà pari a 5-6 milioni di persone e il beneficio massimo resterà di 780 euro al mese; vedremo quello medio.

Quota 100 è il provvedimento più voluto dalla Lega di Matteo Salvini. Dovrebbe rappresentare l’agognata “abolizione della riforma Fornero” che il leader leghista promette da anni in ogni angolo televisivo. Per la misura sono previsti però solo 4 miliardi di euro, dai quasi 7 previsti nella prima versione della legge di bilancio. Ma abolire la legge Fornero costerebbe ben oltre: circa 20 miliardi all’anno, strutturali. Quota 100 per ora appare una misura temporanea che andrà a beneficio di alcune centinaia di migliaia di pensionandi per un paio di anni, senza però scardinare le regole della Fornero. Rimarrà l’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, come pure il passaggio al sistema contributivo. La promessa di Salvini non è mantenuta (e i giovani italiani tirano un sospiro di sollievo, per ora).

Ma le promesse non si fermano qui. C’è chi ha contato gli impegni presi dalla maggioranza di governo di fronte agli elettori italiani, prima e dopo le elezioni. E’ un portale di fact-checking, CheckPoint Promesse, che da inizio settembre monitora costantemente 100 promesse del governo per verificarne l’attuazione. Alcune di queste sono state effettivamente mantenute. Pensiamo a quelle di Matteo Salvini sull’immigrazione, dal blocco agli sbarchi delle navi delle Ong alla riforma dei permessi umanitari. Sul fronte economico invece il governo è più in difficoltà. C’è il taglio parziale delle pensioni più elevate, che porterà nelle casse pubbliche qualche decina di milioni di euro. E’ stato anche introdotto il condono fiscale. Ma d’altra parte sono numerose le promesse mancate, stando al contratto di governo e alle dichiarazioni estive dei due leader di partito.

La prima bocciatura non può che essere la flat tax. E’ stato il cavallo di battaglia per Matteo Salvini, prima che la Lega cambiasse cavallo virando su quota 100. Nonostante alcune dichiarazioni estive per cui si sarebbe partiti prima dalle aziende per poi occuparsi delle famiglie nel 2019, non si è fatto (quasi) nulla. Le misure in via di approvazione infatti, la riduzione al 15 per cento della tassazione per le partite Iva sotto i 60 mila euro di fatturato e la riduzione dal 24 al 15 di aliquota Ires per le imprese che investono o assumono a tempo indeterminato, non rappresentano regimi “flat tax”. Non riconducono infatti tutto il sistema fiscale al di sotto di un’aliquota unica, ma anzi sono marginali. Su un gettito totale Irpef e Ires di quasi 220 miliardi all’anno, queste misure hanno un impatto a regime di quasi 3 miliardi! Ma c’è di più: per finanziarle il governo sembra intenzionato ad alzare altre imposte, tramite l’abolizione dell’Ace, dell’Iri e di alcune misure contenute nel piano Industry 4.0.

La seconda promessa mancata sono le assunzioni nella pubblica amministrazione, che vengono dilazionate a fine 2019. La ministra competente Giulia Bongiorno aveva dichiarato che avrebbe assunto 450 mila nuovi dipendenti pubblici entro il 2019, per poi correggersi e dichiarare di voler raggiungere il risultato entro il prossimo triennio. Invece pare che la nuova manovra imporrà una moratoria alle nuove assunzioni, anche per gli enti – come l’Inps – che ormai stavano ultimando le procedure. Nel frattempo la nostra amministrazione pubblica rimane sottodimensionata rispetto ad altri paesi come Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti e con la più alta quota dell’area Ocse di dipendenti ultra 55enni (45 per cento).

In campagna elettorale molto si era detto anche sulle politiche per la natalità. Sia il Movimento 5 stelle che la Lega hanno presentato le politiche per la famiglia come una priorità: in effetti il tasso italiano di fecondità è attorno all’1,3 figli per donna. Inizialmente la prima bozza della manovra era molto scarna su questo fronte. Nel contratto di governo era previsto “l’innalzamento dell’indennità di maternità, un premio economico a maternità conclusa per le donne che rientrano al lavoro e sgravi contributivi per le imprese che mantengono al lavoro le madri dopo la nascita dei figli”, oltre a “rimborsi per asili nido e babysitter e l’abolizione dell’aliquota Iva su prodotto per l’infanzia”. In realtà si è invece faticato per confermare nella manovra, o incrementare leggermente, le misure introdotte dai precedenti governi. Dovrebbe dunque esserci il bonus bebè, il finanziamento per l’asilo nido dovrebbe incrementare di 500 euro e ci sarà maggiore flessibilità per la scelta del periodo di congedo di maternità. Ma nessuna rivoluzione.

Entrambi i partiti di maggioranza avevano promesso di introdurre un salario minimo per tutelare i lavoratori non coperti da contratti nazionali. Ormai non se ne parla più

Sono almeno altri tre i tasti dolenti per l’esecutivo. Entrambi i partiti di maggioranza avevano promesso di introdurre un salario minimo per tutelare i lavoratori non coperti da contratti nazionali. Una promessa a costo zero per lo stato – per quanto delicata dal punto di vista economico – e sulla quale si trova a favore anche parte dell’opposizione. Eppure l’impegno si è perso nel tempo e ormai non se ne parla più, come accaduto anche per i governi precedenti. Il Movimento 5 stelle aveva inoltre posto grande attenzione alla razionalizzazione normativa, lanciando a gennaio la campagna per abolire 400 leggi “nei primi giorni di governo”. Non se ne è più sentito parlare, e il sito aperto dai 5 Stelle per raccogliere proposte e segnalazioni è stato chiuso. Infine, anche sulla spending review l’azione del governo manca di un pezzo fondamentale rispetto alle proposte della campagna elettorale. E’ famoso l’impegno di Di Maio di tagliare “al primo consiglio dei ministri” 30 miliardi di sprechi di spesa pubblica. In realtà, prima degli interventi concordati con la Commissione europea, l’ammontare dei cosiddetti tagli agli sprechi contenuti nella legge di bilancio raggiungeva poco più di 1 miliardo l’anno prossimo, a salire negli anni successivi.

lunedì 24 dicembre 2018

L’albero di Natale

 L’albero di Natale
Lunedì 24 dicembre 2018 su "ilcorriere.it"
  di Alessandro D’Avenia

Tre astronomi hanno scoperto Farout (Moltolontano), il pianeta più distante del nostro sistema solare: 18 miliardi di chilometri. Ci mette più mille anni a girare attorno al Sole, ma lo fa: nonostante la distanza è gravitazionalmente aggrappato alla nostra Stella. E noi attorno a cosa ruotiamo, a cosa ci aggrappiamo più o meno consapevolmente? Dove cerchiamo la felicità? Ma esiste poi la felicità? O aveva ragione Leopardi quando inveiva per la morte acerba di Silvia: «O natura, o natura,/perché non rendi poi/quel che prometti allor?/Perché di tanto/inganni i figli tuoi?». Se siamo nati solo per morire, allora la felicità è una sfiancante e inutile lotta contro la morte. Per questo c’è chi, dopo la dipartita, fa congelare la propria testa dalla Alcor in Arizona, sperando che un giorno si potranno scongelare le cellule senza che decadano e trasferire i «dati cerebrali» su un supporto non deperibile. C’è chi cerca di fermare con la chimica l’inesorabile deteriorarsi del corpo, che però non vuole saperne. C’è chi genera figli, ma poi scopre che ha solo moltiplicato la sua stessa fame di vita. C’è chi vuole vivere nelle opere che realizza, perché possano ampliare l’eco della sua presenza ma: da vivo dura un soffio, da morto chi se ne frega. I tentativi di non morire confermano che, dalle nostre mani, per quanto abili, non escono altro che «patenti di mortalità». Forse la felicità non è allora diventare immortali, ma rinascere.puntata numero 40

L’uomo è e sarà sempre religioso, proprio perché un «di più» vitale lo attrae e muove, come in qualche modo accade a Farout, anche se gliene sfugge l’origine. David Foster Wallace, scrittore attentissimo al desiderio umano, nel 2005 diceva ai laureati del Kenyon College: «Ecco una cosa che può sembrare strana, ma che è vera: nella trincea quotidiana in cui si svolge l’esistenza non c’è posto per l’ateismo. Non è possibile non adorare qualche cosa. Tutti credono. La sola scelta che abbiamo riguarda che cosa adorare. Forse la ragione più convincente per scegliere un dio o qualcosa di spirituale da adorare è che praticamente qualsiasi altra cosa in cui crederete finirà per mangiarvi vivi. Se adorerete il denaro o le cose, se a queste cose affiderete il vero significato della vita, allora vi sembrerà di non averne mai abbastanza. Adorate il vostro corpo e la bellezza e l’attrazione sessuale e vi sentirete sempre brutti. E quando i segni del tempo e dell’età si cominceranno a mostrare, morirete un milione di volte prima che abbiano ragione di voi. Adorate il potere e finirete per sentirvi deboli e impauriti, avrete bisogno di sempre più potere sugli altri per rendervi insensibili alle vostre paure. Adorate il vostro intelletto, cercate di essere considerati intelligenti, e finirete per sentirvi stupidi, degli impostori, sempre sul punto di essere scoperti. L’insidia di queste forme di adorazione è che rispondono a un bisogno di base, le assecondiamo lentamente, diventando sempre meno aperti riguardo a ciò che vogliamo vedere e a come valutarlo». Respirare è adorare, che infatti significa rivolgere (ad-) la bocca (os-oris) verso ciò da cui ci aspettiamo la vita: adorare vuol dire baciare per ricevere più fiato, mangiare per vivere di più. Per questo baciamo/mordiamo ciò che amiamo.

Kafka, testimone sofferente dell’inaccessibilità a ciò che più desideriamo, nelle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, scrive che siamo lontani dall’Eden non a causa dell’albero della conoscenza ma di quello della vita. Due erano infatti, nel racconto biblico, gli alberi dell’Eden: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi – dice Dio dopo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito – per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini per custodire la via all’albero della vita». Passiamo il tempo a cercare la via all’albero della vita, ma è preclusa, come al povero K., che cerca invano l’accesso al Castello, nell’omonimo romanzo kafkiano. Tutta la letteratura racconta l’umana ricerca della via della vita, dai personaggi di Omero, ossessionati dalla gloria, a quelli di Foster Wallace, adoratori della perfezione, del divertimento, delle dipendenze. Cerchiamo la via per guarire dalla morte, ma essa sembra sbarrata alle sole forze umane. Siamo un infinito ferito a morte.

Accettare che la ferita resti aperta è allora l’inizio del (ri-)nascere. Se non la ignoriamo, la ferita è, come ogni sintomo, indizio e inizio della cura: «non ne posso più di stare murato/nel desiderio senza amore» scrive Ungaretti. L’unica cura al «desiderio murato» dalla morte sembra essere l’amore, come testimonia Leopardi nello Zibaldone: «Io non ho mai sentito di vivere tanto quanto amando». Chi conosce l’amore sa che lì è la via all’albero della vita: «vita per sempre» è sinonimo di «vita insieme». Ma per questa non basta neanche chi amiamo, se lo carichiamo di attese che non può soddisfare, non gli perdoniamo di non amarci come vorremmo, rimaniamo delusi dalle nostre stesse infinite aspettative. È un altra sconfitta: neanche l’amore umano ci dà la vita per sempre? Perché allora il grande scrittore Raymond Carver, morto di tumore a 50 anni, volle che sulla sua lapide fossero scolpiti i versi: «E hai ottenuto quel che/volevi da questa vita, nonostante tutto?/Sì./E cos’è che volevi?/Potermi dire amato, sentirmi/amato sulla terra». Nel Natale ho cercato una via aperta all’albero della vita e l’ho trovata.

I pastori, gli ultimi nella scala sociale e religiosa nella cultura ebraica, sono i primi a ricevere l’annuncio del Natale. È Luca a riportare le parole loro rivolte dall’angelo: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». Il segno per riconoscere il salvatore è un «non segno»: per un pastore, un bimbo in fasce in quell’ambiente, è vita di tutti i giorni. È quindi un segno contraddittorio: non segnala niente. La religiosità naturale porta l’uomo a proiettare ciò che gli manca su ciò che adora. In questo caso invece il divino è privo di qualsiasi dote: nessuno si sarebbe accorto di quella nascita. La via alla felicità è aperta a tutti, non solo a élite religiose o di potere, ed è proprio lì dove siamo, dove tutto nasce e accade quotidianamente, in mezzo alla ripetizione delle opere e dei giorni. Sarà proprio questo che i compaesani non perdoneranno a Cristo quando dirà di essere Dio: ma non è il falegname, il figlio di Maria? Per loro il quotidiano non può essere il luogo del per sempre: non è così che fa un vero dio. Invece Natale è proprio la totale novità del «per sempre» versato nel «quotidiano»: ogni dettaglio diventa via per una vita più grande lì contenuta, ma che va liberata. Solo se accogliamo ogni cosa, persona, evento, come un «appena nato», vi troveremo la vita per sempre. Per me solo se il volto di un alunno è segno di un nascere inedito si apre una relazione che (ri-)genera sia lui che me; solo se una pagina da scrivere è segno di un nascere inedito, la parola si riempie di eros per ciò che dice. Diventa vita tutto ciò che nell’ordinario accogliamo come un bambino indifeso, da curare con le nostre mani. Se un Dio-onnipotente si fa Bambino-impotente, allora dalle nostre mani esce vita quando si disarmano e si prendono cura della vita: ecco la via. Tutto dipende dal rinnovare sguardo e atteggiamento verso la realtà. La parola bambino, pais nel testo di Luca, significava anche «servo». Dio si fa bambino e servo. Questo è la via del rinascere: ricevere e servire. La vita «per sempre» è solo la vita «sempre per», ogni giorno. È la cosa più bella che mi sia capitata, perché mi consente di non stancarmi del quotidiano e di trovarvi sempre nuova linfa, gioia e non ansia. Ho trovato un amore che mi libera dall’ansia di pretendere vita a pugni chiusi invece di attendere, con mani aperte, di riceverla. Ho trovato un amore che mi libera dalla fatica di contendere la vita agli altri invece di tendere mani gentili come si fa con un bambino appena nato. «Vita per sempre» è potermi sentire «sempre amato», in ogni istante e circostanza, da un amore ma stufo di me e contagioso, perché mi educa a diventare, con i miei limiti, «sempre per» gli altri.

Il letto da rifare oggi è cercare la via all’albero della vita, di cui quello natalizio è solo un simbolo. Quest’ultimo lo inventò san Bonifacio, vescovo della Germania, nel 724 d.C., quando salvò un bambino che stava per essere sacrificato sotto la quercia sacra a Thor da una tribù in cui s’era imbattuto. Per raccontare loro del Dio, che non vuole morte ma vita e viene tra gli uomini proprio come bambino, indicò loro un piccolo abete come segno: della vita senza fine, perché le foglie sono sempre verdi; di protezione, perché di legno d’abete erano fatte le loro case; della direzione in cui ad-orare perché la sua cima dritta verso l’alto indica il Padre del cielo. Così l’abete venne addobbato in segno di festa per il bambino salvato e d’attesa per il Bambino che salva. Il mio augurio di Natale è che possiate ricevere vita stando dentro la vita. Solo questo fa vivere, per sempre e sempre per, ogni giorno.


24 dicembre 2018 (modifica il 24 dicembre 2018 | 06:58)

domenica 23 dicembre 2018

Gdpr, le novità in tema di privacy del nuovo regolamento europeo

Dal 25 maggio è applicabile la norma di protezione dei dati dei cittadini comunitari. Ecco come far valere i nostri diritti e come si sta adeguando l’Italia

Cos’è il Gdpr?

Gli addetti ai lavori ne parlano da due anni. Per le persone i suoi effetti sono una novità delle ultime settimane. Si tratta del nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, spesso chiamato solo con l’acronimo (dall’inglese)Gdpr, che è applicabile da venerdì 25 maggio. Composto da 99 articoli (qui il testo), è un’iniziativa della Commissione europea per proteggere la privacy dei cittadini comunitari. Ci tutela, quindi, sia quando siamo in Italia o stiamo viaggiando nel resto del continente, sia quando siamo fuori dall’Europa. Il testo principale, come detto, fa capo a Bruxelles ed è applicabile da subito in tutti i Paesi dell’Unione. Il decreto di adeguamento italiano ha ricevuto l’ok del Garante per la privacy ma non ha ancora concluso l’iter necessario. Dovrà comunque solo chiarire alcuni punti e inserirsi nel contesto delle altre norme sul tema che possono diventare obsolete o ridondanti.


Gdpr, le novità in tema di privacy del nuovo regolamento europeo

Dal 25 maggio è applicabile la norma di protezione dei dati dei cittadini comunitari. Ecco come far valere i nostri diritti e come si sta adeguando l’Italia

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Quali sono i nostri diritti (e attenzione al phishing)

Facile (per noi, un po’ meno per le aziende, che — fra le altre cose — devono dotarsi di un responsabile dei dati). Innanzitutto: nessuno potrà trattare in alcun modo i nostri dati personali senza prima aver ottenuto il nostro consenso. Chiunque dovrà spiegarci in modo chiaro cosa vuole farne — specificandolo per ogni singola modalità di utilizzo — e per quanto tempo intende conservarne un copia. Sia un social network, un sito tramite il quale prenotare un visita medica, un portale di commercio elettronico o un negozio munito di tessere fedeltà. Ecco perché tutti ci stanno tempestando di e-mail o messaggi interni a portali e applicazioni. Attenzione — avvisa Kaspersky Lab — a chi sta provando a sfruttare l’argomento per sottrarre dati e informazioni: «Si tratta generalmente di spam legato a inviti a seminari, webinar e workshop a pagamento, in cui si promette di spiegare i pro e i contro del nuovo regolamento e le sue implicazioni per le imprese». Non cliccate su link la cui provenienza è incerta.

Accesso e diritto all’oblio

Dovremo essere messi in condizione di usare un servizio anche se non concediamo il trattamento delle nostre informazioni personali. L’accettazione non dovrà essere vincolante. E ancora, tutto quello che i vari Facebook, Whatsapp, Twitter, Snapchat o Apple sanno di noi dovrà essere facilmente accessibile, scaricabile, modificabile, cancellabile o trasferibile a un altro servizio analogo. Immaginate un cassetto con il vostro nome nel grosso armadio di ogni colosso della Rete: dovremo poterlo aprire, vedere e prendere quello che c’è dentro, distruggerlo (il diritto all’oblio, con il titolare del trattamento che dovrà comunicare a terzi l’eventuale intervento nel caso di precedente diffusione pubblica dei dati), spostarlo in un altro armadio o toglierlo momentaneamente per poi rimettercelo (limitazione del trattamento).

I dati «delicati» e l’età

Attenzione, poi: c’è dato e dato. L’accesso a quello più delicati, che riguardano religione, sessualità o politica, è vietato. Richiede, nel caso, un consenso esplicito per assolvere diritti od obblighi specifici. Per applicare il riconoscimento facciale al nostro volto — dato biometrico —, ad esempio, Facebook deve spiegarci in modo esaustivo la ragione precisa della richiesta (e lo fa appellandosi alla sicurezza). C’è poi il discorso dell’età minima per esporre i propri dati senza il consenso dei genitori e, di fatto, per navigare liberamente in Rete. Per i Regolamento sono i 16 anni, anche se i singoli Paesi potranno muoversi autonomamente nella forchetta 13-16. Il Garante italiano ha indicato 14 anni, che è anche l’età in cui un ragazzino o una ragazzina può denunciare atti di cyberbullismo. I colossi di Internet stanno delegando la raccolta del consenso alla buona fede dei giovani interessati: ci vuole pochissimo, spesso un solo clic, per confermare di avere almeno 16 anni.

Furto o fuga di dati

Ricordate lo spaventoso hackeraggio subito da Yahoo? O, (molto) più recentemente, il trattamento illecito delle informazioni di 87 milioni di iscritti a Facebook da parte di Cambridge Analytica? Ecco. Adesso le piattaforme coinvolte dovranno avvisare tempestivamente, «ove possibile, entro 72 ore dal momento in cui ne è venuto a conoscenza», l’autorità di controllo e i diretti interessati, a meno che la violazione non presenti alcun rischio.

Come far valere i nostri diritti

Come far valere questi diritti? Facile, ancora una volta: rivolgendosi direttamente a chi tratta i dati. Da venerdì 25 maggio potremo fare riferimento ad aziende e piattaforme. Dovranno risponderci, per non incorrere in multe che solo nei casi più gravi potranno arrivare al 4 per cento del fatturato annuale. Mai come in questo momento, ammesso che la privacy sia davvero un cruccio, conviene leggere con attenzione i termini d’uso e le informative prima di accettarli. Se ci si rende conto di essere stati protagonisti di un abuso bisogna, come detto, bussare alla porta dei titolari del trattamento. In caso di mancata risposta o risoluzione del problema si può fare il reclamo al Garante per la privacy o ricorso al giudice ordinario. Nel suo parere il Garante dice che si può andare nel penale nel caso in cui ci sia un danno d’immagine e reputazionale non legato esclusivamente al profitto. Si pensi a Tiziana Cantone: i video hard della 31enne, poi suicida, non sono stati condivisi per trarre un vantaggio economico. «Sia chi li ha messi in circolo sia la piattaforma che ne ha agevolato la diffusione potrebbero essere ritenuti responsabili penalmente. Si torna all’annoso punto della responsabilità delle piattaforme», spiega l’avvocato esperto di digitale Fulvio Sarzana.

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