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sabato 18 settembre 2021

Chi può parlare in nome di Dio

di Michele Serra PER POSTA Le religioni sono un gigantesco lascito culturale, un monumento alla storia umana, ma hanno il tragico difetto di presumersi “verità rivelata” 17 SETTEMBRE 2021 Caro Serra, Bergoglio, diffondendosi sulla Lettera di Paolo ai Galati, afferma che l’Alleanza con Dio (cosa per me misteriosa: quando è successo?) precede la Legge, cioè la Torah. I casi sono due: o l’affermazione è falsa, e allora si può capire il risentimento del Rabbinato, oppure è vera, e allora non lo si capisce. Ora, mi sembra che la contestazione non riguardi la veridicità dell’affermazione, ma le sue conseguenze. Cioè l’universale ritrosia a sorvolare sul vero, se minaccia la propria ragione di esistere. Non c’è dubbio che l’affermazione di Bergoglio relativizzi la Torah. Lui però si guarda bene dal farlo per il Vangelo, che andrebbe altrettanto relativizzato. Per non parlare del Corano. Le conseguenze di questa mancata relativizzazione sono macroscopiche e inquietanti. Cominciamo dalla posizione della donna. Difficile dare la palma a chi fa peggio. Niente donne preti, rabbini o imam. Discriminazione o separazione nei luoghi di culto. Celibato dei preti cattolici (il sesso è contaminazione). Impurità della donna durante il mestruo, ecc. L’Islam va ben oltre e forse merita la palma del peggio. Poi ci sono le regole alimentari (qui bisogna assolvere il Cristianesimo). Queste regole non sono affatto “religiose”, bensì politiche. Legate al tempo in cui le tre religioni sono state create. Andrebbero relativizzate, cioè accantonate. La Torah, il Vangelo, il Corano andrebbero messi da parte in tutti quegli aspetti anacronistici e divisivi che hanno fatto danni immensi, e continuano e continueranno a farne. Il fatto è che chi detiene il potere delle tre religioni fa delle regole, per assurde che siano, la ragione stessa della propria esistenza, e la base del potere. Per me, essendo ateo, il problema non si pone, e forse per questo non capisco. Ma sono certo che senza religioni il mondo sarebbe migliore. Sergio Grifoni Caro Grifoni, spero di avere tagliato la sua lunga lettera senza fare troppi danni. Ho seguito distrattamente la disputa sulla Torah, le questioni teologiche non mi appassionano, forse è un mio limite. Le religioni sono un gigantesco lascito culturale, un monumento alla storia umana, ma hanno il tragico difetto di presumersi “verità rivelata”, parola di Dio, Verbo, essendo una costruzione degli uomini. Dice il parroco di Bonassola, don Giulio, che le religioni sono “acquisizioni provvisorie”, mi pare una definizione magistrale. Chissà che anche questo Papa, in cuor suo, non pensi la stessa cosa, e cioè che la religione è domande e non risposte, ricerca e non certezza, umiltà e non arroganza; ma non possa dirlo perché ha già abbastanza grane “politiche” con i conservatori, e sa che “storicizzare” il Libro potrebbe distruggere la Chiesa.Certo sarebbe migliore un mondo nel quale Bibbia, Torah e Corano fossero solo libri, e non il Libro, e nessuno osi mai più parlare nel nome del Vero Dio, arrogandosi il potere di rappresentarlo. Ma non credo che lo vedremo, se non in tempi lunghissimi. La paura, la solitudine, la soggezione al dolore e alla malattia rendono gli uomini fragili. Le grandi religioni, nei millenni, hanno al tempo stesso assoggettato e sorretto gli esseri umani. Li hanno fatti sentire parte di grandi comunità. Hanno organizzato eserciti, indetto crociate, invaso e sottomesso continenti, ma anche organizzato assistenza, ordini monastici, ospedali, centri culturali. Io sto con Giordano Bruno e con Baruk Spinoza, ma la libertà di pensiero, ahimé, è un lusso per avanguardie: le masse si affidano, da sempre, a criteri più facili e rassicuranti, che in cambio dell’obbedienza ti liberano dal peso del dubbio. Piuttosto, è dalla questione maschio/femmina, che lei sottolinea, che possiamo aspettarci (non noi, i posteri) novità molto rilevanti. Le tre religioni di Abramo sono costruzioni patriarcali. Non ci sarebbe patriarcato senza di loro, non ci sarebbero loro senza patriarcato. L’idea che la donna non appartenga più all’uomo e si autodetermini, o possa esercitare il potere alla stessa maniera dei maschi, figliare con chi lei vuole, o non figliare affatto, viene vissuta con vero e proprio terrore soprattutto dall’Islam. In maniera più articolata dal Cristianesimo, molto più avanti nella sua emancipazione anche perché lo sono le società nelle quali è la religione egemone. La breve lettera che segue fornisce, in proposito, qualche istruzione. Sul Venerdì del 17 settembre 2021

martedì 14 settembre 2021

Lenti per la presbiopia e l'astigmatismo

Lenti per la presbiopia e l'astigmatismo Minore dipendenza dagli occhiali. Contestualmente alla cataratta è possibile che siano presenti anche altri difetti visivi come astigmatismo e problemi a vedere da vicino (presbiopia). In questo caso, scegliendo, in accordo con il vostro medico, una lente per la presbiopia e l’astigmatismo potreste ridurre l’utilizzo degli occhiali, tornando a vedere nitidamente a tutte le distanze. Lenti per la presbiopia e l'astigmatismo: una soluzione per tutte le problematiche Se siete astigmatici (ovvero avete problemi di messa a fuoco delle immagini) e presbiti (ovvero avete difficoltà nella visione da vicino), una lente intraoculare per la presbiopia e l’astigmatismo potrebbe essere l’opzione giusta per voi per recuperare un range di visione completo. Parlate con il vostro oculista di fiducia Se siete interessati a correggere la presbiopia e l’astigmatismo, chiedete al vostro chirurgo se questo tipo di lente fa al caso vostro.

lunedì 13 settembre 2021

Punto G e Punto A, cambia tutto sotto le lenzuola: così la donna prova davvero piacere a letto

Esplora: punto g punto a orgasmo orgasmo femminile vagina vulva 13 settembre 2021a a a Il Punto G non esiste. Rischia di sgretolarsi una delle poche (misteriose) certezze maschili sulla donna e l'orgasmo. Non solo. Uno studio realizzato da Essity in collaborazione con l'Istituto nazionale AstraRicerche mette in luce anche come tra gli uomini sia grande la confusione sull'anatomia femminile: solo il 31% sa che vagina (la parte interna) e vulva (quella esterna) sono due organi differenti. Una questione però che potrebbe spiazzare le stesse donne, visto che non tutte sapranno come la vagina riesca a pulirsi da sola, producendo fluidi in grado di "neutralizzare" le cellule morte, e che alcuni prodotti di igiene intima, se mal usati, possono addirittura danneggiarla aumentando il rischio di fastidiose irritazioni. Altri miti da sfatare: non esistono vagine uguali. Varia la misura media (8 centimetri, fino a 10 in caso di eccitazione), così come cambiano le dimensioni delle labbra (da 3 a 7 centimetri), e durante il rapporto sessuale propriamente detto l'organo sessuale femminile (che va dalla cervice all'imene) può aumentare addirittura del 200 per cento. Per "vulva", invece, va intesa solo la parte esterna: monte di Venere, clitoride, uretra, labbra e pube. Capitolo orgasmo femminile, quello che assilla di più i partner maschili. Come riportato da Lorena Sironi per www.it.yahoo.com, secondo uno studio del 2008 realizzato dalla South Illinois School of Medicine su 52 donne che soffrivano di emicrania, è emerso come 16 di loro avessero registrato un significativo miglioramento del dolore dopo l’orgasmo. E il famoso, o famigerato, Punto G? Nel 2008 ricercatori italiani hanno scoperto che molte donne sono "sprovviste" della zona erogena, mentre nel 2020 uno studio pubblicato dall'American Journal of Obstetrics and Gynecology condotto da Terence M. Hines (Pace University) ha messo in dubbio la certezza consolidata secondo cui basterebbe toccarlo o stimolarlo per garantire l'orgasmo alla donna. Insomma, il gioco si fa sempre più duro, anche perché in tempi più recenti è entrato in gioco il cosiddetto "Punto A": per facilitare il piacere alla partner. bisogna cercare di stimolare i dintorni della fornice anteriore, all’estremità della vagina di fronte alla cervice. Buona fortuna.

sabato 11 settembre 2021

Superbonus: come rifare infissi e verande senza spendere

11 settembre 2021 Esplora: superbonus superbonus 110% cappotto termico edilizia Condividi: Non solo cappotto termico e pannelli solari. Anche finestre e verande rientrano nel superbonus al 110%. Per ottenere il beneficio, però, servono alcuni accorgimenti. Innanzitutto per avere l’agevolazione fiscale l’intervento, di tipo trainato ovvero agganciato ai lavori principali, deve essere fatto in sostituzione di infissi già presenti. I nuovi infissi devono avere superficie pari a quelli sostituiti e chiudere vani riscaldati che si affacciano sull’esterno o su altri vani non riscaldati. è possibile modificare la forma degli infissi ma la superficie finale deve essere la stessa di quelli di partenza. C’è poi una tabella di trasmittanza termica che deve essere rispettata. Il che significa che devono essere coibentati o sostituiti i cassonetti delle finestre in cui si trovano gli avvolgibili.

mercoledì 8 settembre 2021

Guida al superbonus

di Giorgio Spaziani TestaGiorgio Spaziani Testa 6 Settembre 2021, 8:31 superbonus 110 I nuovi dati forniti dall’Enea e dal Ministero della transizione ecologica indicano che la detrazione del 110% per gli interventi di efficientamento energetico degli edifici (il cosiddetto super-ecobonus) inizia ad essere utilizzata, anche se i condominii interessati non arrivano a 5 mila in tutta Italia. Non solo green L’auspicio è che anche i lavori di miglioramento sismico (il cosiddetto super-sismabonus) riescano – a più di un anno, ormai, dal varo dell’incentivo del 110% – a decollare. In un Paese con la conformazione territoriale dell’Italia, infatti, gli interventi finalizzati alla sicurezza degli immobili hanno perlomeno pari importanza rispetto a quelli di tipo energetico, e in molte zone certamente superiore. Per dirla più chiaramente: il “green” è bello, di tendenza e piace alla gente che piace, ma in Italia esistono intere aree (si pensi alla fascia appenninica, ma è solo un esempio) che hanno bisogno di interventi antisismici, prima ancora che di risparmio energetico. Siamo diversi dalla maggior parte degli altri Paesi d’Europa, insomma, e ne subiamo un po’ troppo – non da ora – le influenze sul piano delle politiche energetiche. Difetti del superbonus Tornando al superbonus, questa misura soffre di alcuni difetti di fondo: per alcuni di essi – come l’obbligo della doppia conformità urbanistico-edilizia e la questione dei piccoli abusi (es. verande) – si è tentato di porre rimedio con il “decreto semplificazioni”. Altri sono tuttora presenti, come le lungaggini nelle procedure per la cessione del credito e le difficoltà nel reperimento di imprese disponibili allo sconto in fattura. C’è poi il delicato tema dei controlli: per un intreccio fra disposizioni diverse e una recente sentenza della Cassazione, i proprietari rischiano di subire contestazioni dall’Agenzia delle entrate, magari per un errore involontario, anche 13 anni dopo l’avvio dei lavori. Un tempo francamente eccessivo, che non può non scoraggiare chi si accinge ad attivare le complesse procedure previste. Peraltro, va detto che il nuovo modello della Cila-Superbonus, reso disponibile agli inizi di agosto, e che recepisce le novità apportate dal “decreto semplificazioni”, rende più agevole l’accesso all’incentivo, nella maggior parte dei casi bloccato dall’impossibilità di ottenere le certificazioni di regolarità urbanistica-edilizia degli immobili. Il fatto che il modulo sia stato approvato con celerità farà sì che le assemblee condominiali potranno affrontare la fattibilità degli interventi connessi al superbonus con un’ottica diversa. In vista della legge di bilancio, comunque, è importante richiamare l’attenzione sulla necessità di rinnovare tutti gli incentivi per gli interventi sugli immobili, per ciascuno confermando la possibilità di avvalersi della cessione del credito e dello sconto in fattura. Le altre detrazioni (come, ad esempio, quella del 90% per i lavori sulle facciate) non sono infatti meno importanti del superbonus, specie considerando tutti quegli immobili (in genere, quelli non abitativi) e quei soggetti (si pensi alle società) che non possono accedere al 110%. Dopodiché, quando l’esperienza del superbonus – necessariamente – avrà termine, occorrerà porre mano a un riordino e a una stabilizzazione dell’intero sistema degli incentivi, così da dare certezze a proprietari, professionisti e imprese e, al contempo, non dar adito a quelle tensioni sul mercato (in termini di aumenti dei prezzi, ma anche di indisponibilità di materiali e di manodopera) che l’esperienza di questi mesi ci ha mostrato in modo evidente. Giorgio Spaziani Testa, 5 settembre 2021

martedì 7 settembre 2021

Un nuovo studio conferma l'efficacia del vaccino. Dibattito chiuso

ilfoglio.it CATTIVI SCIENZIATI Un nuovo studio conferma l'efficacia del vaccino. Dibattito chiuso ENRICO BUCCI 07 SET 2021 E’ vero, la protezione da una variante molto infettiva come la Delta decade in alcuni mesi, ma le decine di milioni di infezioni risparmiate in Inghilterra e l’efficacia della terza dose in Israele sciolgono ogni dubbio Burioni: "Vaccinati contagiano come non vaccinati? Bugia" Boris Johnson valuta se vaccinare i ragazzi anche senza il "sì" degli esperti Un nuovo report del servizio di sanità pubblica inglese (Public Health England, Phe), appena rilasciato, contiene dati dettagliati circa l’efficacia dei vaccini contro la variante Delta del coronavirus. Sebbene ne abbiamo discusso molte volte, ogni nuova fonte di dati va considerata perché rafforza la base da cui partire in ogni scelta politica circa le misure di contenimento, gli obblighi da imporre ai cittadini, le campagne vaccinali eccetera. Dunque, vediamo: innanzitutto, considerando l’andamento dei casi tra i vaccinati e i non vaccinati fino alla prima metà di giugno, e mettendo insieme gli effetti dei quattro vaccini autorizzati in Inghilterra, il Phe riporta una capacità di prevenzione dei sintomi pari al 79 per cento (in un intervallo di confidenza al 95 per cento compreso fra il 78 e l’80 per cento) e una capacità di prevenire le ospedalizzazioni straordinaria, perché pari al 96 per cento (in un intervallo tra il 91 e il 98 per cento). A livello di popolazione, il Phe inglese stima che fino al 20 agosto siano state evitate dai vaccini in Inghilterra 24.088.000 infezioni, oltre 143.000 ospedalizzazioni e 105.900 morti; visto il periodo considerato, queste stime includono l’effetto dei vaccini sulla variante Delta, e danno un’idea del danno che una campagna vaccinale vigorosa come quella inglese ha potuto evitare al Regno Unito. In merito, i calcoli del Phe, basati sui dati osservati, lasciano pochi dubbi: in una serie di grafici pubblicati a pagina 21 del report, si nota l’enorme protezione offerta dai vaccini anche in tema di infezioni a partire da aprile e compreso il picco registrato a luglio, nel pieno dell’esplosione dell’epidemia da variante Delta. E’ ovvio che la protezione non è totale; ed è probabile che nel caso delle infezioni non sia alta come in precedenza; tuttavia, il combinato di diminuzione della probabilità di infezione e diminuzione della probabilità di trasmissione per i soggetti vaccinati costituisce evidentemente un fattore ancora decisivo, visti le decine di milioni di infezioni prevenute (per non parlar del resto). D’altra parte, che la protezione dei vaccini contro l’infezione della Delta non sia azzerata lo conferma anche un ampio studio di popolazione condotto in Norvegia, appena pubblicato: si nota in questo caso come il tasso di protezione “crudo” dall’infezione sia pari a circa l’86 per cento, mentre quello corretto per una serie di fattori di rischio di infezione (età, provenienza geografica, sesso e altri) è di circa il 65 per cento; questo vuol dire che le infezioni fra i vaccinati da parte della variante Delta sono pari a un terzo di quelle che avvengono fra i soggetti non vaccinati; e siccome il tasso di trasmissione dai vaccinati ad altri soggetti è ridotto (a causa della molto ridotta durata della finestra di infettività), è evidente che, globalmente, a livello di popolazione la protezione è buona, anche se non pari a quella offerta contro le varianti precedenti. Il punto, naturalmente, è che tanto in Norvegia quanto nel Regno Unito è trascorso in media un tempo ridotto dalla seconda dose, rispetto a quanto non sia avvenuto in stati come in Israele; in quel paese, infatti, la protezione sembra essere minore in maniera proporzionale alla distanza intercorsa tra l’esposizione al virus e il completamento della vaccinazione, spiegando così perché gli Israeliani siano rimasti mediamente più esposti all’arrivo della variante Delta. La decadenza dell’immunità sterilizzante in alcuni mesi (ma non della protezione clinica) sembra quindi essere il fattore decisivo nello spiegare quello che è successo e sta succedendo in presenza di una variante molto infettiva come la Delta; e che questo possa essere il fattore determinante, del resto, lo dimostrano i dati rilasciati in un preprint dagli Israeliani, dati che mostrano come il ripristino dell’immunità sterilizzante attraverso una terza dose di vaccino Pfizer sia sufficiente a recuperare l’efficacia del vaccino a livelli molto alti, anche contro la variante Delta. A questo punto, sembra proprio che tutti i pezzi del puzzle vadano a posto: i vaccini sono efficaci (tutti), ma la protezione dall’infezione decade in alcuni mesi; questo fattore, molto più importante della pur presente immunoevasività della variante Delta, è evidente studiando l’effetto di campagne vaccinali avvenute in tempi diversi in paesi diversi, rispetto al momento di arrivo della variante delta in quei paesi; infine, le decine di milioni di infezioni risparmiate in Inghilterra, oltre a ospedalizzazioni e morti, e l’efficacia della terza dose in Israele dovrebbero costituire, nel loro insieme, un richiamo abbastanza forte per smetterla di porre domande circa l’efficacia dei vaccini, come se non si fossero ottenute risposte.

lunedì 6 settembre 2021

Il Cattolicesimo europeo sopravvivrà al 21esimo secolo?

RELIGIONI / Emanuel Pietrobon 6 SETTEMBRE 2021 Si dice che le religioni non muoiano mai veramente, ma che, una volta passate a miglior vita, si trasformino in mito. Un mito affascinante, che continuerà a stuzzicare la fantasia degli Uomini nei secoli a venire, ma nulla di più. E l’umanità, di religioni vivificanti relegate all’ambito della mitologia, e divenute il pasto di bambini, scrittori e sceneggiatori, ne ha viste parecchie: dall’atonismo egiziano al mitraismo, e dal paganesimo celtico al politeismo greco-romano. Le religioni, come ogni altro fenomeno umano, nascono, crescono, maturano e muoiono. Che siano rivelate e dogmatiche poco importa: sfioriscono con lo scorrere della sabbia nella clessidra – appassendo in un arco temporale che può durare dai decenni ai secoli –, accompagnando, di solito, la decadenza e/o la trasformazione radicale dei popoli, delle nazioni e delle civiltà che hanno dato loro i natali. Nel caso dell’Occidente, che a partire dalla Rivoluzione francese è entrato in un lento ma inesorabile processo di scristianizzazione, il destino del Cristianesimo, ed in particolare del Cattolicesimo, sembra essere segnato. Perché numeri e fatti sembrano suggerire che il tempo della Chiesa cattolica, l’Ultimo impero sopravvissuto alla fine del sistema europeo degli stati, stia per esaurirsi; perlomeno tra Vecchio Continente, Oceania e Americhe. Il tramonto della Chiesa in Occidente L’involuzione del Cattolicesimo da religione vivificante (e viva) a mito avvincente (ma morto) sta avendo luogo nonostante la sua intrinseca straordinarietà. Perché questa fede, che dopo la morte di Cristo avrebbe dapprima modellato le civiltà dell’Europa e dipoi assunto la forma di una religio mundi dall’impatto unico e inarrivabile – soltanto l’Islam ha esercitato un’influenza simile, sebbene di gran lunga inferiore, sulla storia dei popoli della Terra –, sembra aver perduto quelle capacità autorigenerative che, per quasi due millenni, le hanno permesso di rinascere dopo ogni tribolazione. Il messaggio evangelico prospera e si diffonde tra Africa e Asia, specie nelle terre al di sotto del Sahara e nella sinosfera, ma stagna in Oceania ed è in vistosa ritirata in Europa, quella realtà storico-geografica che più di ogni altra ha cullato, ossequiato e difeso il Verbo. E quando si scrive e si parla di ritirata del cattolicesimo dal Vecchio Continente il riferimento non è soltanto al calo dei fedeli, ma anche alla crisi della Chiesa come istituzione – crescentemente travolta da scandali, preda di un diminuendo di nuove reclute e afflitta dalla corruzione morale del proprio clero. I numeri della decattolicizzazione dell’Europa Lo stato di salute della Chiesa cattolica è precario da parte a parte del Vecchio Continente, che risulta diviso tra società avviate verso la scristianizzazione, come la Francia dei record cristofobici e la Gran Bretagna della riscrittura dei vocabolari, alcune saldamente incamminate verso un’età postcristiana, come l’Irlanda e il Portogallo, altre ai primordi di una turbolenta secolarizzazione, come la Polonia, e talune potenzialmente destinate all’islamizzazione, come Svezia e Germania. Numeri e fatti, relativi ai sopraccennati Paesi e ad altri ancora, possono essere utili ai fini della comprensione dell’attualità e del possibile futuro del tramontante cattolicesimo europeo: La frequenza alla messa domenicale è al di sotto del 10% nella stragrande maggioranza del Vecchio Continente, con gli ipogei registrati in Francia (3–4%) e Paesi Bassi (6%). La partecipazione alla messa domenicale varia a seconda dell’età, con la fascia 16–29 anni che, ovunque, risulta più orientata all’ateismo, all’appartenenza per cultura e al credere senza praticare rispetto alle precedenti generazioni. Le percentuali più basse si riscontrano in Belgio (2%), Ungheria (3%), Austria (3%), Lituania (5%) e Germania (6%). Il 60% dei giovani appartenenti alla fascia 16–29 anni di Spagna, Paesi Bassi e Belgio non frequenta mai la messa domenicale. Il numero dei preti in servizio è calato drasticamente in tutta Europa, complice la crisi delle vocazioni, con la prestazione peggiore – per dimensioni complessive – registrata in Francia. Qui, invero, i preti sono passati dai 49.100 del 1965 agli 11.350 del 2017. Ridimensionamento delle comunità di fedeli e carenza di clero stanno conducendo, ovunque, alla chiusura dei luoghi di culto, i quali, sulla base della rilevanza culturale rivestita e del patrimonio artistico contenuto, possono andare incontro a due destini: musealizzazione o adibizione ad uso profano. In Francia, uno dei Paesi più interessati dal fenomeno della riconversione dei luoghi di culto cattolici, ogni anno vengono riadattate ad uso commerciale e/o demolite tra le 40 e le 50 chiese. L’aumento dei crimini d’odio di stampo cristofobico fa da sfondo alla graduale scomparsa dei campanili dai paesaggi urbani dell’Europa. Sono stati 3mila in tutto il continente nel 2019, un terzo dei quali nella sola Francia (1.052). Un fato inevitabile? I numeri della scristianizzazione del Vecchio Continente descrivono una tendenza consolidata, che a partire dal Duemila è cresciuta di intensità e velocità, e contro la quale le chiese, fino ad oggi, non hanno trovato rimedio. Palliativi come la temporanea rinuncia ai cosiddetti “valori non negoziabili” nel nome del dialogo con le forze della modernità, come i partiti politici di ispirazione liberal-progressista, si sono rivelati controproducenti nel migliore dei casi e dannosi nel peggiore. Ugualmente disutili si sono dimostrate le campagne per la “nuova evangelizzazione”, rivolte ai giovani, lanciate nel dopo-guerra fredda sia dai cattolici sia dai protestanti. Non tutto è perduto, comunque. Perché la storia, che è maestra di vita, (ci) insegna che l’imprevedibile e l’inaspettato, spesso e volentieri, accadono più del pronosticato, più del dato per certo. E se la storia (ci) insegna qualcosa di particolarmente importante a proposito della Chiesa è questo: data per morta mille volte, è resuscitata mille e una. E la senile Europa, forse, compresa la centralità dell’identità nelle guerre egemoniche di questo secolo, un giorno potrebbe scegliere di tornare alle origini, di tornare al Cristianesimo. CHIESA CATTOLICA CATTOLICESIMO EUROPA Autore EMANUEL PIETROBON Content Revolution Francia, l’agonia del cristianesimo chiesa francia Il recente assassinio nella Vandea di un anziano prete, Olivier Maire, da parte di un cittadino ruandese già noto alle cronache e agli inquirenti per atti cristofobici – il rogo della cattedrale di Nantes – ha riacceso i riflettori sulla situazione drammatica che sta attraversando il Cristianesimo in Francia. Perché qui, nella fu figlia prediletta della Chiesa, era dai tempi della Rivoluzione che i cristiani non si sentivano così insicuri e minacciati, che non erano così bistrattati e aggrediti psicologicamente e fisicamente. Numeri alla mano, invero, la Francia è la prima nazione d’Europa per quantità di crimini d’odio di stampo cristofobico – essendo la sede di un terzo di tutti gli attacchi di questo genere che hanno annualmente luogo nel continente. Crimini, quelli che stanno accelerando e accompagnando la scristianizzazione della Francia, che vengono consumati da una variegata anonima dell’odio – composta principalmente da islamisti, anarchici, femministe, satanisti e neonazisti – i cui membri sono impegnati in una quotidiana battaglia contro la Croce a base di profanazioni, aggressioni, incendi e, talvolta, omicidi. Maire e gli altri Vandea, storico fortino del Cattolicesimo francese, 9 agosto 2021: la gendarmeria trova il corpo senza vita di Olivier Maire, un provinciale superiore appartenente alla Congregazione della Casa dei Frati Missionari Monfortani. Il religioso, sessant’anni, è stato ucciso. Parte la caccia all’uomo: gli investigatori desiderano risolvere il caso in tempi rapidi, perché la piccola comunità di Saint-Laurent-sur-Sèvre è sotto choc ed un pericolo assassino è a piede libero. La caccia, per la fortuna degli inquirenti, dura molto meno del previsto: un uomo si costituisce, si addossa la responsabilità dell’uccisione. Quell’uomo è Emmanuel Abayisenga, un rifugiato ruandese accolto nella comunità monfortana proprio da padre Maire e che negli ambienti investigativi d’Oltralpe è conosciuto in qualità di unico imputato per il rogo della cattedrale dei santi Pietro e Paolo di Nantes. Nonostante il presunto ruolo nell’incendio della cattedrale di Nantes, e la minaccia posta alla sicurezza pubblica – era stato costretto a seguire un trattamento psichiatrico –, Abayisenga era a piede libero. Aveva terminato le cure lo scorso mese, cioè a luglio, e avrebbe dovuto essere sorvegliato in conformità con un ordine di controllo giudiziario. Uscito dall’istituto, però, il rifugiato si era allontanato dalla lente degli investigatori e aveva trovato riparo presso la Casa dei Frati Missionari Monfortani, dove era entrato grazie all’aiuto di padre Maire. L’assassinio dell’anziano provinciale superiore, che ha riacceso i riflettori sulla situazione drammatica in cui versa il Cristianesimo in Francia, non è un caso isolato. Maire, invero, è soltanto l’ultima vittima di quell’anonima dell’odio che combatte quotidianamente contro tutto ciò che rappresenta e simboleggia il messaggio di Cristo, dal clero ai luoghi di culto e dai cimiteri alle croci. Perché prima di lui, lo scorso ottobre, un terrorista islamista uccise due fedeli e un sagrestano nella basilica di Nostra Signora di Nizza. E prima ancora di quel mini-attentato, il 26 luglio 2016, due soldati dello Stato Islamico sgozzarono padre Jacques Hamel nella piccola chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray. L’assalto alla Cristianità I numeri della guerra alla Cristianità mossa dall’anonima dell’odio – che, di nuovo, è estremamente variegata e multiforme, perché composta da attori molto diversi tra loro, come i satanisti e gli islamisti – sono magniloquenti, espressivi ed autoesplicativi. Sono numeri che parlano di una mattanza silenziosa, che avviene nell’indifferenza delle autorità e della stessa società – oramai ampiamente secolarizzata – e che, se dovesse proseguire al ritmo attuale, nel prossimo futuro potrebbe portare ad un significativo ridimensionamento del patrimonio cristiano di Francia. Numeri che hanno portato taluni a parlare di “cattolicesimo in fase terminale” e che sono i seguenti: Fra il 2008 e il 2019 gli attacchi di stampo cristofobico sono quadruplicati, aumentando costantemente e regolarmente su base annua. Nel 2019 hanno avuto luogo 1.052 attacchi cristofobici (1.063 secondo altre stime) – in entrambi i casi si tratta di una media di quasi 3 al giorno –, in aumento rispetto agli 877 dell’anno precedente. I numeri di cui sopra rendono la Francia la culla della cristofobia d’Europa, essendo la sede di un terzo di tutti gli attacchi di questo tipo che sono stati consumati nel continente nel 2019: 1.052 su circa 3.000. Il 40% delle profanazioni dei luoghi sacri del Cristianesimo, secondo un’indagine di Libération, sarebbe attribuibile a musulmani radicalizzati e/o terroristi islamisti. Il restante 60% delle profanazioni, invece, sarebbe opera di militanti di estrema sinistra (anarchici, femministe, attivisti omosessuali), neonazisti, satanisti e, in minor parte, persone con disturbi psichici. Ogni anno, secondo l’Osservatorio per il patrimonio religioso, almeno “una ventina” di chiese viene danneggiata o distrutta dalle fiamme dei roghi dolosi. Alcuni anni, però, quella media viene superata: nel 2018, ad esempio, le autorità hanno registrato 32 episodi di carbonizzazione intenzionale. Due terzi degli incendi che compromettono o causano il crollo delle chiese cattoliche sono di origine dolosa, ovvero appiccati da piromani, ma nella stragrande maggioranza dei casi restano impuniti, senza colpevole. Soltanto 15mila chiese su oltre 45mila godono di qualche forma di tutela e/o protezione statale – sorveglianza inclusa –, il che significa che due luoghi di culto cristiani su tre sono esposti ai rischi delle profanazioni, dei vandalismi e dei roghi. Una mattanza silenziosa Roghi di interi edifici, danneggiamenti di arredi, altari e pitture, profanazioni sacrileghe di luoghi come i cimiteri e, a volte, persino omicidi di chierici e fedeli; tanto lunga è la lista dei crimini in odium fidei compiuti dall’anonima anticristiana operante in Francia. Crimini che, il più delle volte, rimangono irrisolti. Crimini diffusi, molecolari e capillari, che non danno tregua né agli inquirenti né ai fedeli e che, non di rado, obbligano uomini di Stato e di Fede a prendere atto dell’antieconomicità di una manutenzione perenne e a convivere con la scelta più dolorosa: quella di lasciare croci, statue, monumenti, chiese e cimiteri al loro tragico destino, che, molto spesso, corrisponde ad una probabile distruzione o ad una certa dissacrazione. Un caso recente di istituzioni che hanno sventolato bandiera bianca, arrendendosi in maniera incondizionata all’anonima anticristiana, è costituito dalla questione delle croci di vette nei Pirenei orientali. Al termine di uno sciame inarrestabile di attacchi durato quattro anni – dal 2014 al 2019 – e manifestatosi nelle forme di furti, danneggiamenti e/o abbattimenti, il Consiglio Dipartimentale dei Pirenei orientali, nel settembre di due anni or sono, si arrese ai distruttori delle croci di vette, comunicando a residenti e alpinisti che avrebbe smesso sia di installarne di nuove sia di riparare quelle danneggiate. E in Francia, come nei Pirenei orientali, il Cristianesimo sembra essere giunto oramai al capolinea, prossimo a quell’estinzione violenta che sognavano e intravedevano i padrini del giacobinismo radicale all’epoca della Rivoluzione e dell’instaurazione del culto dell’Essere Supremo. Abbandonato a se stesso tanto dalla politica quanto dalla società, e testimone del concomitante declino delle chiese sorelle nel resto d’Europa, il Cattolicesimo francese va addentrandosi nell’oscurità di quella lunga notte alla quale, sembra, non farà seguito alcuna nuova alba.

venerdì 3 settembre 2021

Gruppo per gruppo, catalogo dei terroristi che riemergono in Afghanistan

Pakistani, uiguri, tagiki, uzbeki. C'è un vuoto di sicurezza che i talebani potrebbero non essere capaci di colmare By Mariano Giustino Gruppo per gruppo, catalogo dei terroristi che riemergono in La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani pone nuove sfide alla Russia e ai suoi alleati dell’Asia centrale come il Tagikistan, il Kirghizistan e l’Uzbekistan. La presenza degli americani in Afghanistan costituiva una garanzia dell’esistenza di misure antiterrorismo anche a beneficio dei vicini dell’Asia centrale. Ma dopo il ritorno a Kabul degli “studenti coranici” si sta creando un vuoto di sicurezza che questi ultimi potrebbero non essere capaci di colmare nonostante le dichiarazioni rassicuranti sulla loro intenzione di non consentire ad alcuna organizzazione di utilizzare l’Afghanistan per attività terroristiche. Tuttavia la vittoria dei talebani sembra ispirare l’entusiasmo di terroristi e gruppi armati fondamentalisti in tutto il Medio Oriente. Sono infatti in aumento rapporti che parlano di combattenti jihadisti stranieri presenti nel paese centro-asiatico. Kabul era l’ex roccaforte e capitale dei talebani quando erano al potere tra il 1996 e il 2001, dove il fondatore di al-Qaeda, Osama bin Laden, si recò nel 1999 e dove, assieme al terrorista giordano Abu Musab al-Zarqawi, creò una base della sua organizzazione terroristica. Ancora oggi, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, al-Qaeda è presente in almeno 15 province afghane e «opera sotto la protezione dei talebani nelle province di Kandahar, Helmand e Nimruz». E una serie vertiginosa di gruppi armati stranieri ha collaborato con i talebani o ha combattuto fino al 15 agosto sotto la bandiera dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Come è noto alla fine degli anni 90 questo paese, sotto il regime talebano, servì come campo di addestramento per alcuni di coloro che sarebbero poi entrati a far parte dello stato islamico, annunciato ufficialmente in Iraq e Siria nel 2013 e di cui al-Qaida fu il precursore. Dichiarato sconfitto in Iraq nel 2017, Isis ha perso nel 2019 l’ultimo territorio che possedeva in Siria nella provincia orientale di Deir ez-Zor, ma sue sono ancora presenti in alcune zone rurali, nei deserti e nelle montagne dove cercano di riorganizzarsi. Ora in Iraq per i jihadisti c’è molto meno spazio di manovra di quanto ve ne sia in un Afghanistan guidato dai talebani. E il fatto che subito dopo l’uscita dal paese dell’ultimo soldato americano siano ricomparsi in pubblico personaggi di spicco del clan Haqqani, notoriamente vicini ai talebani e ad al-Qaida, non sembra promettere nulla di buono. La mattina del 31 agosto è comparso all’aeroporto di Kabul Anas Haqqani, figlio minore del comandante Jalaluddin Haqqani, che aveva combattuto sia contro i sovietici che contro gli americani, e fratello di Sirajuddin Haqqani, capo della rete Haqqani, gruppo fondamentalista insurrezionalista attivo in Afghanistan e Pakistan. Il giorno precedente il dottor Amin-ul-Haq, altra figura di spicco di al-Qaida, già responsabile della sicurezza di Bin Laden a Tora Bora, era tornato dal Pakistan nella sua provincia natale di Nangarhar. Ora che gli americani se ne sono andati, i talebani sembrano non avere più alcuno scrupolo a mostrare il loro stretto legame con al-Qaida pur avendo dichiarato che non avrebbero permesso a questa organizzazione di usare il loro paese per attività terroristiche. Pare evidente che per onorare le loro promesse i talebani dovranno prendere nettamente le distanze da al-Qaida con la conseguenza che ciò potrebbe indurre alcuni membri di questa organizzazione a trasmigrare nelle file dell’Isis del Khorasan, ramo afghano dello stato islamico nel quale, come è noto, sono già affluiti molti jihadisti stranieri, dal Pakistan, all’India, fino al Medio Oriente e all’Asia centrale. Gli attacchi kamikaze del 26 agosto, davanti a uno degli ingressi dell’aeroporto di Kabul, hanno dimostrato che la sicurezza nella capitale afghana ha iniziato a deteriorarsi drasticamente con il ritorno dei talebani. Il Cremlino avrebbe indicato delle linee rosse agli studenti coranici, il rispetto delle quali ne determinerà il riconoscimento. La Russia spera che i talebani siano in grado di garantire la sicurezza con la distruzione delle cellule terroristiche. Ma in un paese profondamente diviso lungo linee di fratture etniche e religiose, in cui tribù locali di diverse etnie controllano parti di territorio, il rischio che l’Afghanistan torni a essere una base per il jihadismo salafita internazionale è molto elevato. E la ragione potrebbe individuarsi non solo nelle “lacune” della capacità dei talebani di esercitare un potere inclusivo, ma anche nell’indisponibilità di alcuni gruppi all’interno del movimento fondamentalista, che hanno visioni e obiettivi diversi dalla leadership, di prendere le distanze dal terrorismo. Ad esempio, la cosiddetta shura, o consiglio di Peshawar, degli studenti coranici, è diventata una copertura per le attività dell’oscuro Network Haqqani. Quest’ultimo è il sottogruppo dei talebani più ideologicamente vicino ad al-Qaeda e in passato ha usato attentatori suicidi per attaccare obiettivi civili. Inoltre nell’esercito talebano ci sono jihadisti della cosiddetta Brigata 055, un’organizzazione interamente composta da militanti di al-Qaeda, integrata nel movimento tra il 1995 e il 2001, macchiatasi di numerosi crimini contro civili afgani. Diversi rapporti del “Programma Siria” del Middle East Institute, così come quelli ONU, rilevano che negli ultimi anni i talebani sono stati attivamente in contatto con il nucleo di al-Qaeda e con il suo ramo autonomo del subcontinente indiano in ben 15 province del Paese, tra le quali quelle di Helmand e Kandahar. Recentemente al-Qaeda ha rafforzato la sua presenza anche a Badakhshan, provincia nell’est del Paese che confina con il Tagikistan. E ci sono altre aree in cui è dimostrata la presenza di al-Qaeda, tra cui la contea di Barmal nella provincia orientale afghana di Paktika dove domina la rete Haqqani. Mentre i talebani prendevano il controllo delle province senza difficoltà, la prima cosa che hanno fatto è stata di liberare membri di al-Qaeda e del Tehrik-e-Taliban Pakistan (Movimento dei talebani del Pakistan, TTP) che erano stipati nelle prigioni di Bagram e di Pul-e-Charkhi. Il leader del TTP, Nur Veli Mehsud, ha subito dopo pubblicato un messaggio: «Vorrei congratularmi con il leader dei credenti, Hibatullah Ahunzade, a nome dei mujaheddin del TTP per questa benedetta vittoria». Un altro leader, fondatore del TTP, Mevlevi Fakir Muhammed, si è rivolto ai suoi sostenitori dopo essere stato rilasciato dalla prigione di Kunar, lodando Allah per la vittoria dei talebani e dicendo che i problemi per i mujaheddin erano finiti. Il Movimento dei talebani del Pakistan (TTP) è una organizzazione terroristica che mira a rovesciare lo stato pakistano per fondare un emirato islamico e ora Islamabad è molto preoccupata per la protezione che i talebani afghani riservono ai militanti del TTP. Anche il più grande partito islamista del Pakistan, Jamiat Ulema-e Islam, ha salutato l’ingresso dei talebani a Kabul come una vittoria storica. Secondo diversi osservatori vi è anche la possibilità che l’Afghanistan diventi meta di gruppi radicali provenienti dalla provincia siriana di Idlib. Recentemente Hayat Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo terroristico jihadista che controlla Idlib, ha iniziato a perseguire una politica volta a sradicare i jihadisti non siriani dal proprio territorio. Molte fazioni anti Assad in Siria sono infatti costituite da jihadisti provenienti da altre regioni del Medio Oriente, dal Caucaso e dall’Asia centrale. È dunque altamente probabile che, sotto la pressione di HTS, un certo numero di questi gruppi jihadisti possa trasferirsi dal nord della Siria in Afghanistan come ad esempio la fazione di Katibat al-Tawhid wa al-Jihad (da non confondere con l’omonimo gruppo iracheno), composto da combattenti delle repubbliche dell’Asia centrale, principalmente da uzbeki e tagiki, molti dei quali provenienti dalla Russia. Anche la brigata Abu Salah al-Uzbeki, del quale il leader Sirojiddin Mukhtarov è stato arrestato da HTS a giugno, potrebbe trasferirsi dal nord della Sira in Afghanistan. Il leader di HTS, Abu Muhammad al-Jolani, ha necessità di ripulire la regione di Idlib dalle fazioni non siriane, per legittimarsi come unica fazione dominante e potrebbe organizzare un trasferimento di gruppi minori costituiti prevalentemente da non siriani in Afghanistan. Inoltre a Idlib rimane attiva la sezione locale del Partito islamico uiguro del Turkestan orientale, alcune cellule del quale già operano in Afghanistan, così come quella di gruppi jihadisti caucasici: Junud al-Sham e Ajnad al-Kavkaz, che separatisi da HTS stanno cercando opportunità in altri paesi per continuare le proprie attività dirette principalmente contro la Russia. Ma la possibilità che si crei un corridoio per il trasferimento di combattenti stranieri dalla Siria all’Afghanistan è condizionata dalla presenza della Turchia che controlla gran parte delle aree del nord della Siria dove operano tali gruppi jihadisti. Ankara e Mosca hanno un accordo per Idilb, le forze militari turche hanno il compito di disarmare le formazioni più radicali. È impensabile che la Turchia possa fornire assistenza a questi gruppi. Ma la loro presenza a Idlib e la possibilità che si trasferiscano dalle zone controllate dalla Turchia in Siria non è del tutto da escludere. Le aree in cui i jihadisti di Idlib potrebbero potenzialmente spostarsi sono le province afgane di Badakhshan, Kunar e Nuristan. Queste regioni divennero note come il Waziristan afghano e non erano completamente controllate né dalle ex autorità afghane né dai talebani. È infatti qui che hanno trovato rifugio rami di vari gruppi salafiti radicali. Ad esempio, a Badakhshan, sono ancora operativi frammenti del Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), vale a dire la fazione che si è rifiutata di far parte del ramo locale dell’IS-K. In questa regione opera anche il gruppo radicale tagiko Jamaat Ansarullah, che si è separato dall’IMU e ha compiuto attentati terroristici in Tagikistan. C’è chi sostiene che Ansarullah stia collaborando strettamente con i talebani e che ad esso sia stato affidato persino il compito di proteggere parte del confine afghano-tagiko, ma i talebani negano queste accuse. Dunque l’ascesa al potere dei talebani lascia molti interrogativi soprattutto sulla loro capacità di risolvere la questione che più sta a cuore a tutti gli attori della regione, comprese Russia e Cina: quella della sicurezza e del terrorismo. Non sappiamo se dopo che si sarà formato il governo e che saranno state stabilite le relazioni estere, sentiremo sempre meno la voce dei cosiddetti “moderati” o sempre più quella dei “radicali”. Quel che è certo è che il potenziale jihadista in questa regione non è diminuito.

mercoledì 1 settembre 2021

Per nutrire il corpo bastano due dollari al giorno. Per il cervello ne servono 30. Ecco perché

di Yolanda Monge La neuroscienziata Tara Thiagarajan, fondatrice dell’organizzazione Sapien Labs, spiega come la diseguaglianza nell’accesso alle tecnologie influisca sulla nostra testa: "La questione fondamentale non è se la tecnologia faccia bene o male, ma quanta ne ingurgitiamo. Come il cibo spazzatura" (El País) 01 SETTEMBRE 2021 4 MINUTI DI LETTURA Tara Thiagarajan (49 anni, Madras, India) ha un dottorato di Ricerca in Neuroscienze dell’università di Stanford ed è la fondatrice di Sapien Labs, un organismo la cui complicata missione è tentare di comprendere la mente umana. Ammette di essersi affacciata tardi e per puro caso alle neuroscienze, e che il tema l’abbia affascinata dopo aver assistito a una lezione specialistica. La passione divampò una ventina di anni fa quando, in un laboratorio, ebbe modo di osservare al microscopio come continuassero a muoversi i neuroni di un pipistrello, anche dopo che il cervello gli era stato estirpato dal corpo. Poco dopo, Thiagarajan fece il salto al campo degli esseri umani grazie al progetto Sette Miliardi di Cervelli Umani, che corrispondono ad altrettante domande in attesa di risposta. Cosa differenzia un cervello dall’altro? Come cambia il cervello e cosa lo induce a cambiare? In che modo la tecnologia lo influenza? Thiagarajan ci risponde in videoconferenza. Esiste un solo cervello? "No, non esiste un cervello prototipico, un solo e unico cervello. La mente umana si sviluppa in funzione delle circostanze e delle esperienze di vita di ogni persona. Trecento anni fa, la popolazione era abbastanza omogenea; oggi invece esistono molti modi di vivere, un gran numero di occupazioni e attività, di cui troviamo un riflesso nel nostro cervello. Sapien Labs fa uso massiccio degli elettroencefalogrammi (EEG), perché i neuroni comunicano tra loro attraverso segnali elettrici, e poi analizza come influisce sul cervello l’ambiente circostante, come per esempio la struttura sociale, l’educazione o il linguaggio". Misurate anche se l’uso della tecnologia fa bene o male al cervello? "Sappiamo che più la gente divora contenuti digitali, più grandi sono i cambiamenti nei modelli di funzionamento neuronali. Di solito uso la metafora del cibo, per spiegare cosa succede quando si abusa di strumenti come lo smartphone, i tablets oppure internet... . In passato l’alimentazione si basava su pochissimi cibi e mangiare frutta, per esempio, era poco frequente. Poi le società si sono evolute e hanno conquistato àmbiti salutari più vasti, perciò ora siamo in grado procurarci alimenti impensabili tempo addietro; riusciamo a mangiare in modo più sano e il nostro corpo se ne avvantaggia. Tuttavia siamo anche vicini a una sorta di deflagrazione: esistono molti cibi ma in gran parte non salutari; sono pietanze elaborate, contengono agenti chimici, è il famoso cibo spazzatura. Si tratta quindi di prendere le giuste decisioni. Fa male mangiare molto? Fino a un certo punto fa bene, ma oltre una certa soglia il cibo spazzatura finisce per provocare diabete, problemi cardiaci... . Con la tecnologia avviene la stessa cosa: la questione fondamentale non è se faccia bene o male, ma quanta ne ingurgitiamo". Lei sostiene che l’ambiente in cui viviamo influisce sul nostro cervello, dice che per il cervello non è lo stesso vivere a New York che in un paesino indiano. Ciò significa che la povertà o la ricchezza plasmano cervelli diversi? "Senza dubbio la diseguaglianza tecnologica causata dalla mancanza di risorse economiche si traduce in forme diverse di sviluppo del cervello, dal punto di vista delle reti neurali. Io parlo di stimoli: avere la possibilità di viaggiare, accesso all’istruzione o interagire con più persone e, anche, far uso della tecnologia, sono tutte situazioni che consentono ai neuroni di riorganizzarsi, di stabilire nuove connessioni reciproche e in continuo scambio con il cervello. Parte della capacità cognitiva è collegata ai privilegi di cui godi, alla quantità di stimoli che ricevi. Al corpo umano bastano due dollari al giorno per coprire il proprio fabbisogno di calorie e non morire di fame. Per alimentare quotidianamente di stimoli il cervello, invece, sono necessari 30 dollari: una cifra inarrivabile per l’80% della popolazione mondiale. Con 30 dollari si acquistano molti stimoli. È la quantità di denaro con cui si spicca il salto necessario a possedere uno smartphone". Sta dunque parlando degli stimoli che plasmerebbero il nostro cervello. "Il cervello si plasma nel corso dell’intera vita della persona. Anche tutti gli altri organi del corpo lo fanno, a partire dal momento della nascita. Il cervello però svolge più mansioni, man mano che si cresce e si invecchia. Ciò che fa il cervello di un bambino di due anni è diverso da ciò che farà a 10 o a 20 anni, e sarà così fino alla fine dell’esistenza. La grande prerogativa del cervello è la sua plasticità; quanti più stimoli riceve, più si plasma". Quando riposa, il cervello? "Mai. Il cervello non riposa mai. Quando dormiamo il cervello continua a lavorare, ne approfitta per ripulirsi. I camion della spazzatura lavorano durante la notte, oppure all’alba, mentre la città dorme e non c’è traffico; allo stesso modo, il cervello accumula immondizia e rifiuti tossici tutto il giorno, per poi espellerli di notte, attraverso il sistema linfatico. Per questo se non dormiamo non gli permettiamo di fare pulizia, accumuliamo rifiuti tossici che ci fanno star male, che ci impediscono di svolgere bene le nostre attività durante la giornata". Cos’è il MHQ (Mental Health Quotient) e che cosa misura? "Le dico subito che cosa non misura: non è il numero che simboleggia il nostro livello di felicità. Il Mental Health Quotient o coefficiente di salute mentale è un test che stabilisce il livello di benessere mentale delle persone, vale a dire la capacità di tenere le redini della nostra vita e di affrontare le sfide e gli ostacoli che questa ci presenta. Non è una misura della nostra felicità o del livello di gradimento della vita che facciamo. Attraverso un test, che si svolge via internet, il MHQ quantifica – con un punteggio da 100 a 200 - il livello di tranquillità mentale di cui si dispone in un preciso momento. È dunque un numero che cambia, che non può mantenersi uguale prima della pandemia da coronavirus, dopo o durante, per esempio. Da una serie di domande che richiedono un tempo di risposta di circa 15 minuti, si calcola il coefficiente di MHQ della persona". E se le dicessi che insieme ad alcuni amici ho svolto il test del MHQ e abbiamo ottenuto risultati che vanno dal 72,2 al 103; dall’ 86,4 al 105,3 e al 68,6, qual è la diagnosi? E qual è il suo MHQ? (Ride) "Ma è un dato molto riservato! È un’informazione che preferisco tenere per me. Quel che posso dire è che la prima volta che feci il test rimasi delusa, perché il coefficiente non era molto alto. Poi però riflettei sulle sfide che devono affrontare ogni giorno tante altre persone e la delusione mi passò subito. I vostri risultati sono tutti nella media: non credo esista qualcuno che abbia raggiunto i 200 punti. (Copyright El País/Lena- Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Monica Rita Bedana)