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giovedì 28 novembre 2019

Mes, Paolo Becchi svela il tradimento di Conte: "Perché nasce tutto a giugno"

IL DOPPIO GIOCO

27 Novembre 2019

Roberto Gualtieri, nel tentativo di difendere il Presidente del Consiglio sul Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità), in realtà lo inguaia. E lo fa in una sede ufficiale, nel corso dell’audizione alle commissioni riunite di Finanze e Politiche Ue tenutasi oggi al Senato.

Gualtieri ha affermato che l’accordo stretto da Giuseppe Conte a Bruxelles a fine giugno “è in coerenza con il mandato parlamentare che la risoluzione gli attribuiva”. Il ministro dell’economia si riferisce alla risoluzione delle Camere del 19 giugno, che però dicono una cosa completamente opposta a quello che ha tentato di far passare il titolare di Via XX Settembre.

Leggiamola questa risoluzione. Il Parlamento impegnava il Governo “a render note alle Camere le proposte di modifica al trattato ESM, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato” e a “non approvare modifiche che prevedano condizionalità”.

Bene. Invece di informare il Parlamento su quello che stava facendo, Conte ha probabilmente venduto il sì dell’Italia alla riforma del Mes – contro ogni determinazione delle Camere – in cambio della riconferma a Palazzo Chigi nel ribaltone della crisi d’agosto. Se prima v’era un dubbio, ora si ha la quasi certezza. A giugno Conte ha dato l’ok italiano alla riforma del Mes accreditando la sua persona al cospetto della tecnocrazia europea e contro l’interesse nazionale. Quell’impegno, che ora sembra addirittura non più rinegoziabile, spingerà il nostro Paese sotto la mannaia di nuovi meccanismi finanziari distruttivi, nel solo intento di salvare le banche tedesche.

Infatti il Presidente del Consiglio non ha informato il Parlamento della riforma (restrittiva) del Mes, impegnando l’Italia nel percorso di ratifica  di un Trattato capestro ben peggiore della precedente versione. In questo Conte ha palesemente violato  l’art. 5 della Legge 24 dicembre 2012 n. 234, che al primo comma prevede che “il Governo informa tempestivamente le Camere di ogni iniziativa volta alla conclusione di accordi tra gli Stati membri dell’Unione europea che prevedano l’introduzione o il rafforzamento di regole in materia finanziaria o monetaria o comunque producano conseguenze rilevanti sulla finanza pubblica”.

Ma non solo. Il secondo comma dell’art. 5 prevede che “il Governo assicura che la posizione rappresentata dall’Italia nella fase di negoziazione degli accordi di cui al comma 1 tenga conto degli atti di indirizzo adottati dalle Camere. Nel caso in cui il Governo non abbia potuto conformarsi agli atti di indirizzo, il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato riferisce tempestivamente alle Camere, fornendo le appropriate motivazioni della posizione assunta”.

Il Presidente del Consiglio, quindi, non solo non ha rispettato il contenuto della risoluzione del Parlamento, ma ha addirittura avallato la riforma franco-tedesca del Mes senza neppure informare il Parlamento, come dettagliatamente previsto dalla risoluzione parlamentare del 19 giugno. Il Parlamento è stato tradito, e con esso una legge dello Stato.

Conte è peggio di Monti, ma le opposizioni devono ora fare le opposizioni e presentare immediatamente la mozione di sfiducia nei confronti del peggior governo di sempre.

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Il MES, spiegato bene Che cos'è il Meccanismo Europeo di Stabilità, in parole semplici, e perché se ne discute così tanto nella politica italiana

Da oltre una settimana nella politica italiana si parla sempre più spesso della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità, un’istituzione europea che ha lo scopo di aiutare i paesi in difficoltà economica. La polemica contro la riforma è stata aperta da Matteo Salvini, leader della Lega, nonostante il processo di riforma sia iniziato e sia stato approvato mentre lui era al governo. È stata poi ripresa da Giorgia Meloni, di Fratelli d’Italia, e da Luigi Di Maio, del Movimento 5 Stelle. In sostanza, il MES viene accusato di essere un opprimente meccanismo burocratico europeo che limiterà la nostra libertà. A parte questo però, in pochi sembrano avere davvero capito di cosa si stia parlando.
Che cos’è il MES oggi?
Il Meccanismo Europeo di Stabilità (noto anche come MES e con l’acronimo del suo nome in inglese, ESM) è un’organizzazione intergovernativa dei paesi che condividono l’euro come moneta, e ha il compito di aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica. È una componente molto importante dell’unione monetaria: serve a mettere in comune il denaro di tutti e a utilizzarlo nel caso in cui uno stato membro si trovi in difficoltà, visto che – condividendo la stessa moneta – le difficoltà di un paese possono avere conseguenze anche sugli altri. Il MES venne creato nel settembre del 2012 e portò al superamento di altri due fondi creati in precedenza allo stesso scopo (EFSF ed EFSM).
Il MES ha una dotazione di 80 miliardi di euro, pagati in maniera proporzionale all’importanza economica dei paesi dell’eurozona: con quasi il 27 per cento del capitale la Germania è il primo contributore, e con ogni probabilità non usufruirà mai degli aiuti. Inoltre, emettendo titoli con la garanzia degli stati che ne fanno parte, il MES può raccogliere sui mercati finanziari fino a 700 miliardi di euro. Questi soldi poi possono essere prestati agli stati in difficoltà, per esempio per ricapitalizzare i loro sistemi bancari. Gli stati che vengono aiutati dal MES, se rispettano alcune condizioni, possono ricevere anche l’aiuto illimitato da parte della BCE sotto forma delle famose OMT, un piano che di fatto permette l’acquisto senza limiti di titoli di stato del paese in crisi.
Per ricevere l’aiuto, uno stato deve accettare un piano di riforme la cui applicazione sarà sorvegliata dalla famosa “Troika”, il comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. Il piano di riforme di solito prevede misure molto impopolari, come taglio alla spesa pubblica, in particolare alle pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilizzazione delle leggi sul lavoro, allo scopo di rendere nuovamente sostenibili i conti pubblici. Fino a oggi Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda hanno usufruito di programmi di aiuto del MES.
Cosa prevede la riforma
Il MES è stato apprezzato da molti, in quanto è il primo tentativo organico di dotare l’eurozona di un meccanismo per affrontare le crisi, e insieme alla BCE rappresenta la cosa più vicina a un “prestatore di ultima istanza”, cioè un’istituzione che presta denaro a chi non riesce più a ricevere prestiti. Ed è anche un concreto tentativo di rendere l’eurozona più economicamente unita e solidale. Ma le critiche nei suoi confronti non sono nuove, anzi, circolano fin dalla sua fondazione. C’è chi ritiene che l’ESM non sia uno strumento sufficiente, e attacca i programmi di riforme spesso draconiane che gli stati devono accettare pur di ricevere i fondi. Ma c’è anche chi muove l’accusa opposta, quella di fare troppo in cambio di troppo poco: in genere tedeschi e nord europei che temono che meccanismi come il MES incentivino i paesi periferici a spendere più di quello che possono, sapendo che saranno salvati con i soldi di qualcun altro.
La riforma del MES discussa a partire dal 2018 è un tentativo di accontentare tutti, e in quanto tale è il frutto di un compromesso tra le parti: per esempio i paesi più indebitati, come l’Italia, che volevano che le linee di credito precauzionali erogate dal MES (in gergo PCCL e ECCL) venissero concesse anche senza bisogno di sottoscrivere un accordo dettagliato di riforme impopolari. Nella versione finale questa modifica è stata accolta (per quanto riguarda la PCCL), ma è stata aggiunta un’altra condizione su richiesta degli stati più ricchi del Nord, che di fatto la rende inutile. Per avere una linea di credito, infatti, sarà sufficiente una lettera di intenti, ma solo per quegli stati che rispettano i parametri di Maastricht (10 stati su 19 membri dell’eurozona, Italia compresa, non potranno quindi utilizzare a loro vantaggio questa misura).
I paesi indebitati hanno invece ottenuto una vittoria nella trattativa sul “backstop” per il Fondo di risoluzione unico, un fondo finanziato dalle banche europee che serve ad aiutare istituti finanziari in difficoltà. Con l’introduzione del “backstop” il MES potrà finanziare il Fondo di risoluzione fino a 55 miliardi; le banche – soprattutto quelle della periferia d’Europa ma non solo – diventeranno così più sicure.
La terza modifica introdotta dalla riforma è invece voluta dai “rigoristi” del Nord Europa, e come tale non piace all’Italia (ma non solo a Salvini: anche il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco ha detto di essere preoccupato, come il presidente dell’Associazione bancaria italiana Antonio Patuelli). Di fatto la riforma cerca di rendere più facile “ristrutturare” il debito pubblico di un paese che chiede aiuto al MES.
In altre parole, i privati che hanno prestato soldi agli stati in crisi dovranno perdere una parte del loro investimento nel momento in cui scatterà un pacchetto di aiuti. Uno dei sistemi per ottenere questo risultato è l’obbligo di emettere un particolare tipo di titoli di stato (i cosiddetti “single limb CAC”) che permettono una “ristrutturazione” (cioè una riduzione concordata del valore del prestito fatto allo stato) tramite un solo voto dei creditori, invece che con le procedure più complesse delle altre tipologie di titoli di stato. Questo vuol dire che un paese in difficoltà potrebbe restituire meno di quello che deve ai suoi creditori, che è una cosa buona; ma la cosa meno buona – e temuta – è che i creditori, sapendo di questa possibilità, finiscano per chiedere interessi più alti ai paesi che percepiscono più a rischio, come l’Italia.

martedì 26 novembre 2019

SALVINI E MELONI IN MANICOMIO! “IL SOVRANISMO? È UNA NUOVA MALATTIA, UN FATTO PSICHICO” ...


SALVINI E MELONI IN MANICOMIO! “IL SOVRANISMO? È UNA NUOVA MALATTIA, UN FATTO PSICHICO” - LO PSICANALISTA PARARENZIANO MASSIMO RECALCATI CIANCIA DI “INCONSCIO FASCISTA”, DEL “PARADIGMA PARANOICO” DELLA DIFESA DEI CONFINI, SINTOMO DI UNA PATOLOGIA - INSOMMA CHI DISSENTE DAL PENSIERO DOMINANTE, VIENE FATTO PASSARE PER PAZZO - IL LIBRO
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Francesco Borgonovo per “la Verità”
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Il compianto Vladimir Bukovskij fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico dalle autorità sovietiche per aver letto pubblicamente poesie considerate sovversive. Nel 1972 Bukovskij pubblicò in Italia un libro, ormai quasi introvabile, con un titolo piuttosto eloquente.
Si chiamava Una nuova malattia mentale in Urss: l' opposizione. Si diceva, laggiù, che contro il comunismo non potesse agire che un pazzo, e a partire dal 1961 il ministero della Salute sovietico diramò specifiche direttive per il ricovero coatto in strutture psichiatriche di chi si rendesse colpevole di «atti sovversivi».

È in questa nobile tradizione che sembra volersi collocare la starlette della psicanalisi italiana, Massimo Recalcati, già nelle grazie di Matteo Renzi, firma di rilievo di Repubblica e conduttore televisivo di Rai 3. Egli ritiene, infatti, che il sovranismo sia una patologia psichiatrica. Ascoltare per credere l' intervista che ha rilasciato ieri a Radio Capital, puntualmente ripresa proprio da Repubblica con il titolo: «Il sovranismo è una nuova malattia, un fatto psichico».

Non si tratta di una forzatura giornalistica. Sull' argomento, infatti, il dotto Recalcati (Maksim Recalcatovic nella variante stalinista) ha scritto addirittura un libro (Le nuove melanconie, Raffaello Cortina editore) in cui spiega che oggi assistiamo all' azione di una «spinta compulsiva alla chiusura, alla solidificazione dei confini, alla loro trasfigurazione psicopatologica in muri propria di una nuova clinica securitaria». Esiste, continua lo psicanalista, un «inconscio fascista» o, meglio, «una tendenza fascista immanente al desiderio inconscio», cioè una spinta a «ri-territorializzare quello che la dinamica propulsiva del desiderio di vita tende a fluidificare e de-territorializzare».
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Tradotto: se siete contrari alle frontiere aperte, è per via del vostro inconscio fascista.
Poi, certo, il fascismo imperiale le frontiere voleva superarle, ma sono particolari che a tovarisch Maksim non interessano. A lui preme dire che, se volete difendere i confini, siete dei malati di mente.

«Brexit inglese, sovranismi nell' Europa orientale, tendenze populiste marcate in quella occidentale» sono «spinte reazionarie che mostrano chiaramente come il paradigma securitario nella sua inclinazione paranoica sia egemone nel dibattito politico».
Siamo passati, teorizza Recalcati, dalla visione berlusconiana «fondata dal principio del godimento che si vuole libero dai lacci della Legge nel nome della libertà» a quella salviniana, che «esaspera il confine come nuovo oggetto pulsionale». Insomma, «il paradigma perverso è ruotato su sé stesso: la libertà assoluta si rovescia nella assoluta illibertà».
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Ecco il punto. Oggi assistiamo, dice l' esperto, alla «affermazione di un nuovo paradigma paranoico sul quale si è cementato il volto sovranista della destra italiana».
Dunque, cari paranoici elettori della destra, vedete di correre ai ripari. Trovatevi uno psichiatra o per lo meno un bravo analista. Perché siete vittime di una nuova forma di malattia mentale: il dissenso dal pensiero dominante.

Intendiamoci, non è mica una novità. Recalcati non riesce nemmeno a essere originale. Già Gilberto Corbellini del Cnr, tempo fa, aveva suggerito di somministrare ossitocina ai sovranisti per renderli più disponibili all' accoglienza. Più di recente, il presidente del Parlamento europeo - David Sassoli del Partito democratico - ha spiegato con serenità che «i partiti europeisti hanno deciso che i sovranisti e i nazionalisti devono essere tenuti a bada, perché il nazionalismo e il sovranismo sono un virus per un' Europa che dev' essere forte e unita». Già: votare a destra è un malattia, un virus da estirpare. Il bello è che questi illustri democratici sono gli stessi che menano il torrone sui «discorsi di odio», sulla «xenofobia dilagante» e sulla «discriminazione». Combattono l' odio poi descrivono l' opposizione come una malattia, una peste da sconfiggere, una psicopatologia da debellare.
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Tanto per fare un esempio, Giuseppe De Rita del Censis, nel 2018, parlò di «sovranismo psichico». Ancora meglio ha fatto Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, già presidente della Cei. Nel maggio scorso ha chiarito che «sovranismi e populismi, come tutti gli "ismi", sono delle patologie. Quindi devono essere assolutamente curate». Non stupisce, dunque, che ci siano in giro sacerdoti come Bartolomeo Sorge, ex direttore de La Civiltà cattolica, pronti a sostenere le peggiori castronerie. Ieri Sorge, su Twitter, ha dato testimonianza del suo amore per le sardine: « Il pesce delle piazze di oggi (le "sardine") è - come il pesce dei primi cristiani - anelito di libertà da ogni "imperatore" palese o occulto».
massimo recalcatiMASSIMO RECALCATI

Forse Sorge ha esagerato con il vino da messa: i sovranisti nel nostro Paese stanno all' opposizione, e c' è un sacco di gente che vorrebbe spedirli nelle catacombe (o direttamente nelle fogne). Le sardine, invece, stanno con il potere e chiedono che l' opposizione venga silenziata. Proprio come avveniva in Unione sovietica, dove il dissenso era soppresso fra i battimani degli intellettuali di regime.

domenica 24 novembre 2019

Contro Milano Milano è una città stato, un emirato felice, ma oggi è anche una bolla all’interno della quale sta lievitando un male oscuro: il bluff di una nuova superiorità antropologica. Politica, stories e attivismo morale della procura. Un giusto processo, invidia a parte

di Michele Masneri

18 Novembre 2019 alle 10:46

Prima c’è stato il lamento di Provenzano. Peppe Provenzano, neo ministro per il Sud (Pd), ha detto a un convegno che insomma, Milano è un problema. Ha detto, Provenzano, a un convegno sul tema “Il Meridione visto da Nord”, periglioso fin dal titolo, che “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. “Tutti decantiamo Milano”, disse Provenzano, “ma non è la prima volta nella storia d’Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. E poi ancora: “Intorno ad essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia. E’ la sfida che dovremo provare a cogliere”. Insomma è uno sfogo in piena regola, un lamento, contro Milano e il suo mito arrembante di questi anni post Expo. Milano la ricca, la internazionale, la smart city, Milano perfino col bel tempo. E che doveva fare, Peppe Provenzano, da Caltanissetta, ministro per il Sud che ormai non ha più neanche il portafoglio del sole: il suo è davvero un lamento, è il Provenzano’s complaint, verso questa città che prende ma non dà, cioè l’accusa che si fa sempre agli amanti che non corrispondono, o agli amici che si vorrebbero un po’ più di amici. Che doveva fare, Peppe Provenzano, il ministro per il Sud, trentasettenne che gli tocca stare a Roma, con due figli piccoli, e magari vorrebbe tanto stare al Bosco Verticale.

 Le risposte, da Milano, sono arrivate subito: il sindaco Sala ha spiegato che “Milano restituisce nella misura in cui ci viene chiesto e nella misura in cui veniamo messi in condizione di farlo. Non abbiamo nessun istinto egoistico”. Prendi su e porta a casa. E poi però timide ammissioni: “A oggi è vero che Milano sta un po’ fagocitando tutta la crescita che il nostro paese potrebbe meritare – ha detto Sala –. Ma, se mi chiedete da sindaco di Milano se è giusto, dico di no. Mettendosi nei panni delle imprese straniere, qui si sentono rassicurate perché sanno che il sistema funziona”. Il fatto è che un problema c’è, il problema è che Milano funziona troppo, e Beppe Sala, anzi Beppesala, come il suo profilo Instagram, è parte del problema.

Normalmente i sindaci che vengono mitologizzati o periscono in servizio per mano di burocrazia o squilibrati (Petroselli a Roma, Harvey Milk consigliere comunale a San Francisco), o compiono azioni poi epocali – Rudy Giuliani con la teoria del vetro rotto; altrimenti è difficile che si crei la leggenda in vita. Giuseppe Sala, o come dicevan tutti Beppe, o Beppesala che è il nickname, il nome d’arte, e soprattutto il suo account Instagram, c’è riuscito. Di Milano lui è più che sindaco, è testimonial, grazie a una comunicazione moderna e postmoderna online e offline. Su Instagram, grazie a un guardaroba e a una logistica invidiabile, passa da completini sciistici a felpe con cappello targate Netflix quando c’è da celebrare la vittoria di Milano per le Olimpiadi invernali, alla felpa che richiama Tokyo, uno dei personaggi della serie “Casa di carta”, che va in onda su Netflix e di cui il sindaco è seguace, perché un sindaco di Milano non può non amare le serie. Altri outfit-signifiers di Beppesala sono le calze arcobaleno a significar vicinanza – sacrosanta – col popolo Lgbt; il marsupio, utilizzato in una recente apparizione nella trasmissione di Daria Bignardi in cui la Bignardi lo accusava in sostanza d’esser radical chic e dunque sconnesso dal paese reale (è di nuovo il lamento di Provenzano) e lo camuffava secondo un’idea codificata di tamarraggine metropolitana (marsupio, appunto, e occhiali da sole). Ancora: con maglietta “pensavo fosse amore invece era Milano”; a torso nudo ma *ironico*, con birra marca Malnatt, che va ai carcerati; con Raffaella Carrà; con un libro di Philip Roth, con Papa Francesco, con mug “Tiremm innanz”. Con Jovanotti. Con Ghali. Col milanese imbruttito.

In generale l’Instagram – un bell’Instagram – di Beppesala è astuto e aspirazionale, mostra la vita di un signore felice, in belle case, una bellissima fidanzata (Chiara Bazoli), libri interessanti, vasche da bagno d’epoca. In generale pare l’Instagram di un privato cittadino, più che di un amministratore, e in questo c’è il successo e la contemporaneità. La privatizzazione del pubblico, con gli outfit, con le foto in vacanza, Beppesala fa cose, è insomma – apriti cielo – la stessa di un Matteo Salvini, ovviamente depurata dalla volgarità, spurgata dai mojitini, ma sempre di corpi, talvolta al sole si tratta. Ed è molto diversa da quella di altri sindaci: distantissima dall’Instagram di Virginia Raggi, per esempio, ansiogeno e basico come direbbero a Milano, ma più da sindaco, e dunque forse “antico”, fatto di cartelli “Nuovi bus a metano”; “Centro off limits agli autobus turistici”, scritte cubitali gialle di impegni poi quasi mai mantenuti, “Rinasce deposito Atac San Paolo”, “Roma avanti nel turismo di lusso”, compattatori di bottiglie di plastica, in una valanga di foto anche cromaticamente incoerenti (ma la Raggi ha 250 mila follower, il doppio di Beppesala).



Anche offline la comunicazione di Beppesala è efficiente, giovane, top. Non sbaglia un colpo: incontra e capta tutte le manifestazioni di figaggine varia – appena Mahmood vince Sanremo, lui se lo accaparra subito: “Unico cantautore che si ricordi a essere stato intervistato da un sindaco di Milano” strilla subito l’ufficio stampa collettivo della città-stato, una delle forze della Milano di oggi, un centro di positività che dirama e irraggia il resto del paese e il mondo intero di good news milanesi.

Beppesala ha incontrato in primavera il cantante in un evento già leggendario nella costruzione del mito della nuova Milano: “Per una volta non sarò io l’intervistato – ha detto – ma chiederò a lui di parlarmi di come vive Milano e di cosa può fare la nostra città per i giovani”. Beppesala intervista anche Marracash, altro rapper, altro segmento della Milano inclusiva e partecipata. Poi Ghali, poi Jovanotti. Beppesala partecipa a tutti i gay pride, a tutte le manifestazioni, per la pace, per la Segre, le sagre, e i milanesi si fanno il selfie con Beppesala. Top.

Da Roma ha traslocato Sky, alla periferia coreana di Rogoredo, e poi Netflix, che non ha una sede ma è come se l’avesse: oltre a vestire il sindaco veste
la fermata della metro di porta Venezia, col suo arcobaleno,
che doveva essere transitorio invece rimarrà (e a Roma, invece,
rimane solo ’a Rai, e ’a Raggi)
 
Ma il Beppesala beach party definitivo è stato quando ha distribuito borracce d’acqua naturalmente “del sindaco” ai ragazzi delle elementari e medie. A metà settembre si è dotato di contenitori di alluminio e insieme al cantante (quanti cantanti) Marco Mengoni si è fatto ritrarre insieme a bambini festanti in pose un po’ nordcoreane. Caption: “Con il mio amico @mengonimarcoofficial a consegnare borracce #amomilano #plasticfree” (e pazienza se qualche professore lamenta che le borracce sono un po’ pericolose e i bambini se le danno in testa, che diventano ricettacoli di germi), l’ufficio stampa collettivo copre tutto il rumore di fondo. A Milano si sta bene. A Milano sono tutti felici.

Qualche volta Beppesala, perché è umano, perde la brocca anche lui, a causa del male oscuro milanese, la übris: così c’è stato il già famoso schiaffo di Avellino, che a Milano si tende a dimenticare, ma tocca qui ricordare, invece, un anno fa, quando Beppesala a un convegno “in” Bicocca, rispondeva all’allora in voga tematica delle chiusure domenicali dei negozi, idea avanzata dall’allora ministro dello Sviluppo economico Di Maio; e Beppesala rispondeva, ovviamente, giustamente, che trattavasi di “follia”. E poi perché i negozi sì, e non i giornali, ad esempio? Ma non sazio del buonsenso, si scatenava in un pensiero un poco razzista: “Se la vogliono fare in provincia di Avellino la facciano, questa chiusura. Ma a Milano è contro il senso comune. Pensassero alle grandi questioni politiche, non a rompere le palle a noi che abbiamo un modello che funziona e 9 milioni di turisti”.

La sparata di Beppesala stupiva per quel riferimento ad Avellino, paese di nascita di Di Maio, che però trova la costituency soprattutto a Pomigliano d’Arco, e il riferimento alla rottura di palle, e ai turisti pure (il turismo a Milano continua a crescere, ha battuto Roma, è cresciuto del 17 per cento anche a settembre). “Mi rende particolarmente orgoglioso”, dice Beppesala.

Ma quello su Avellino era un tipico sbrocco da milanese, toccato oltretutto nel sacro graal del lavurà. “Lavoro guadagno pago pretendo”, era Milano contro il sud tutto intero, a partire da Roma, Franca Valeri contro Alberto Sordi nel “Vedovo”. Avellino era una metonimia, la parte per il tutto (il più illustre avellinese della storia d’Italia è Ciriaco De Mita, oggi 91 anni, già definito da Gianni Agnelli “un intellettuale della Magna Grecia”). Il simmetrico di Beppesala.

De Mita però è un uomo del secolo scorso, Beppesala è l’uomo dei nostri tempi. Beppesala si ricandiderà, Beppesala guiderà il Pd, Beppesala può fare ciò che vuole: forse però non in Italia, perché l’Italia – Provenzano was right – è un’altra cosa. Milano è ormai una città stato, un emirato felice, una bolla. E’ il secolo delle città, e Milano è la città più città di tutte. Lo teorizza lo stesso Beppesala, nel suo libro, “Milano e il secolo delle città” (La nave di Teseo). Lo ha ammesso anche Antonio Calabrò, giornalista e vicepresidente di Assolombarda; nel 2025, secondo una ricerca McKinsey, in 600 città globali il 66 per cento della popolazione del mondo produrrà due terzi del pil mondiale. E se la competizione internazionale già adesso non è più tra nazioni, ma tra grandi aree metropolitane ricche di connessioni, tra “sistemi territoriali integrati”, la “grande Milano”, con la rete di relazioni e di flussi di persone, idee e affari “nel raggio di cento chilometri”, ha tutte le caratteristiche per giocare un ruolo di primo piano. Anche “in termini di smart city, di economia circolare e civile, di quel green new deal caro anche alla Commissione Ue”.

E però il Guardian, forse eterodiretto da Peppe Provenzano: “Questo posto è cambiato enormemente negli ultimi anni. E’ molto più internazionale”, fa dire a un Pierluigi Dialuce, giovane economista émigré romano a Milano, intervistato dal giornale inglese. “Ci sono stati così tanti investimenti e c’è così tanta cultura. Roba che non trovi in altre parti d’Italia. Il milanese non esiste più. Milano è fatta da professionisti che sono venuti a vivere qui perché qui ci sono opportunità che non ci sono lì da dove vengono. Questi sono il meglio che l’Italia offre. E’ una specie di selezione naturale, che sta creando una comunità che è molto più europea come mentalità. Milano non è l’Italia”, dice Dialuce, commentando un sondaggio Eumetra dell’anno scorso, secondo cui l’85 per cento dei milanesi non sceglierebbe un’altra città in cui vivere. Questa quota aumenta fino al 90 per cento tra i più giovani, in particolare tra i 18-24enni (95 per cento) e tra i 25-34enni (91 per cento). Città stato, città bolla, con gioventù coreana, che sfila per il suo sindaco.

Il titolo del pezzo del Guardian è: “Come le megacittà d’Europa hanno rubato la ricchezza del continente”. La tesi è affascinante ed è totally Provenzano: sempre più persone si concentrano in luoghi urbani iperqualificati, che a loro volta producono richiesta per un certo tipo di beni e servizi ad alto valore aggiunto. Diventando sempre più attrattive, risucchiano quello che c’è intorno. E’ anche un po’ la tesi di Enrico Moretti, il nostro economista di Stanford, che teorizza i cluster: luoghi come le abbazie benedettine nel medioevo, con tutti i talenti concentrati (e intorno il deserto).

Milano ha l’horror vacui e si prende tutto: è appena finita Bookcity, la settimana del libro, ma poi c’è piano city, e calcio city, e la settimana del mobile e della moda, e la photo week e la game week e digital week e la art week. Non tutte sullo stesso livello eccelso, ma comunque nulla sfugge all’idrovora milanese, il salone del libro tenta di resistere, le Olimpiadi non ce l’hanno fatta. Milano è un Dyson. Aspira tutto quello che c’è intorno: anche a livello giudiziario: la procura guidata da Francesco Greco ha appena aperto un’inchiesta su Taranto (più lontana di Avellino), non perché vi sia ipotesi di reato, ha precisato, ma perché c’è un interesse pubblico a difendere l’occupazione e l’economia. Insomma, Milano investita di competenza anche morale-giuridica sul resto d’Italia.

Nella città-stato a difendere occupazione ed economia ci pensano i milanesi, invece: albergatori e tassisti, baristi e Airbnb, finanzieri e architetti. I prezzi stanno diventando una cosa seria. Arrivare, nella città-stato, a volte è difficile (i treni veloci da Roma costano anche 90 euro a tariffa piena). Scapparne a volte impossibile, quelli del weekend vanno prenotati con anticipo. Rimanervi, pestilenziale. In questi giorni di Bookcity – ma le settimane in cui non c’è qualcosa sono ormai pochissime – impossibile trovare un Airbnb sotto i 120 euro. Per chi ha fatto il grande passo, e decide di stabilirvisi, millecinque è il prezzo per l’oggetto dei desideri, il “bilo”. Le agenzie immobiliari lo sanno e sfornano letteratura e branding e acronimi, “zona Fondazione Prada”, “Nolo”, Naba, i racconti di chi cerca casa in questi anni di trionfo milanese sono angoscianti, devi andare coi soldi in mano, altro che coeur in man.

In generale l’Instagram di Beppesala è astuto e aspirazionale,
mostra la vita di un signore felice, in belle case, una bellissima fidanzata (Chiara Bazoli), libri interessanti. In generale pare l’Instagram di un privato cittadino, più che di un amministratore,
e in questo c’è il successo e la contemporaneità


Micidiali periferie con microclimi lagunari sono vendute a 4/5 mila al metro, famigerati scali ferroviari vengono sottoposti a biechi ripristini da parte di primarie archistar mondiali ad attirare incauti forestieri in rigenerazioni urbane velocissime. Chi ha casa se la affitta su Airbnb nelle innumerevoli week e va a stare da amici. C’è un problema di spazio, fisico e metafisico, come ti raccontano gli imprenditori che tentano di aprire a Milano. A parte gli affitti terribili, bisogna ormai strapagare le maestranze; si studiano soluzioni, grazie anche o per colpa delle Frecce e della Tav che ha compiuto in questi anni il miracolo di Milano, agendo come vaso comunicante ha portato tutti dove si sta meglio.

Solo che ora non c’è più posto: la Lombardia, prima dell’Italia, sta facendo i conti con questa espansione quasi-tumorale; le città intorno sono polverizzate e risucchiate dal Dyson di Beppesala. Le più grosse stanno in campana. In tanti fanno il loro commuting da Brescia e Torino, belle città che non sono Milano (ma le case costano un terzo) e che lottano per non diventare sue periferie. La prima si pone come ben amministrato snodo verso l’oriente e verso il manifatturiero, collegata con l’unica autostrada business class d’Italia, la A35 o Brebemi. Gli imprenditori dell’acciaio bresciani vi sfrecciano verso Milano che considerano come loro piazza terziaria, ci sono gli avvocati, c’è l’aeroporto. Se non hai la macchina c’è il Frecciarossa, 36 minuti, 26 euro in classe basica. Chi non li ha prende il nigger train o il giargia, termini poco carini per indicare i regionali (“Ho preso il nigger delle 22.20”. “Sei matto”, è un dialogo frequente). Poi Torino, miseria e nobiltà, banche (grattacielo Intesa), OGR, derubata delle sue Olimpiadi, orfana della Fiat, un po’ Detroit. Tanti ci si trasferiscono per non morire d’affitto. Sessanta minuti di freccia, 36 euro.

Il troppopieno milanese preoccupa non solo Provenzano ma anche i milanesi intelligenti. Stefano Boeri, archistar identitaria, figlio della Cini, autore del Bosco verticale, patron della Triennale, studia con interesse che sta succedendo nel resto d’Italia; ha antenne nelle colonie. Ha un suo giovane seguace come assessore alla Cultura a Firenze, e fa accordi perfino col Maxxi a Roma. “Una città così interessante”, sibila qualcuno, sinceramente interessato, alla capitale, tipo Elon Musk che vuole andare a colonizzare Marte. Magari c’è ossigeno.

Nell’èra delle serie tv e di Instagram, nell’èra di Milano, Roma è stata tagliata fuori anche come fabbrica dei sogni; certo rimane il Papa, ma tanto Milano ha il suo cardinale. E da Roma ha traslocato Sky, alla periferia coreana di Rogoredo, e poi Netflix, che non ha una sede ma è come se l’avesse: oltre a vestire il sindaco veste la fermata della metro di porta Venezia, col suo arcobaleno, che doveva essere transitorio invece rimarrà (e a Roma, invece, rimane solo ‘a Rai, e ‘a Raggi, con le metropolitane stecchite). Netflix, l’emittente californiana simbolo dei tempi, delle serie che non sono più i telefilm, non c’è ma è come se ci fosse; la riprova è che la magistratura (di Milano) ha aperto un’inchiesta, per qualche presunto impiccio, e se lo dice la magistratura esisti.

Nei giorni scorsi una polemichetta istruttiva, su Twitter, tra giornalisti milanesi giovani, e un interessante cortocircuito sulla nuova Milano: sull’uso di Myss Keta come testimonial per l’ennesima serie, di Netflix. Il fatto è che Netflix per lanciare la seconda stagione della serie “The End of the F***ing World”, fa un promo con dentro Myss Keta. Uno diceva che il resto del paese chissà se avrebbe capito. Forse era una roba veramente troppo local. “Ma quello che va bene a Milano va bene per l’Italia”, rispondeva l’altro. Per chi sta a Pescara, o a Vasto, e comunque fuori dalla città stato, Myss Keta è un interessante “progetto” (tutto a Milano è un progetto) di performer-cantante con testi sociologici-urticanti e nata nel 2013 con singoli abbastanza geniali e molto underground che cercavano di centrare la Milano di quegli anni: una donnona postmoderna un po’ swag, che canta, a volto coperto, canzoni come “Milano sushi e coca” (“Dammi il tuo nigiri / mi piace come tiri”; “mi faccio un tempura / che notte da paura / bamba soldi e sesso / la strada di successo”).

Uno dei suoi singoli più celebri, “Le ragazze di Porta Venezia”, lanciato proprio nei giorni dell’Expo, mostrava questa gang di ragazze a spasso appunto nel quartiere milanese tra rapine, droga, e sfottò-omaggio a divinità locali – le ragazze si chiamavano Miuccia Panda, Donatella, la Prada, la Cha-Cha e la Iban. Adesso, tre anni dopo, è uscita una nuova versione di queste ragazze di Porta Venezia, depurata dai riferimenti alla coca e ai ribellismi, ripulita e sanificata. Nel quartiere brandizzato Netflix, Myss Keta e le sue ragazze sono diventate “Un inno a vivere senza vergogna, senza farsi influenzare da nessuno. Un manifesto per tutte le persone che hanno il coraggio di essere se stesse, indipendentemente dai giudizi e dai pregiudizi degli altri”. La moderna femminilità è un altro aspetto che fiorisce nella città stato e che probabilmente non sarebbe possibile fuori, cioè in Italia. Si narra anche di feste a tema in cui giovani intellettuali si riuniscono per abbattere a mazzate la pignatta del patriarcato. Nel frattempo Myss Keta è ormai completamente istituzionalizzata, messa a reddito. Beppesalizzata. Da fenomeno underground che denunciava la Milano arrembante della coca e del nuovo rampantismo, è ormai inglobata nel sistema (e Beppesala compare in un video con lei, in cui il sindaco fa una specie di mago).

Ciò che va bene a Milano va bene per l’Italia. La città stato è iperconnessa, ma sconnessa dal resto d’Italia. La città stato è arrogante. Genera isteria nel resto d’Italia. Il Provenzano’s complaint è sgangherato ma comprensibile: il Paese, è chiaro, è andato. Ilva, Mose, Alitalia, Roma Capitale: dove ti giri c’è lo sfacelo. In queste condizioni, Milano potrebbe essere più carina, invece bullizza tutti gli altri: l’aeroporto di Linate è stato ristrutturato e riaperto in tre mesi meno un giorno, in anticipo sui tempi previsti; è stato dotato pure di “riconoscimento facciale” (addio metal detector, addio primato morale di Fiumicino, l’unica cosa che funziona a Roma). Musei e ospedali e biblioteche verticali e orizzontali e vegetali aprono ogni giorno. Nasce lo Human Technopole, centro di ricerca farmaceutica sul luogo sacro in cui sorse il rito primigenio fondante della nuova Milano, l’Expo 2015. Ora è diventato Mind, il Milano Innovation District: “Questa è la nuova casa per le scienze della vita” ha detto il presidente di Human Technopole, Marco Simoni. E il premier Conte, inaugurandolo: “Milano è all’avanguardia”. Ma ha poi assicurato che quel luogo sarà “sempre aperto” al “paese”. Grazie, gentilissimi.

Dev’essere questo bullismo, perché di bullismo si tratta, ad aver scatenato Provenzano. C’è da capirlo. Del resto i milanesi simpatici non son stati mai. Sono come i tedeschi in Europa, tendono a strafare. Col ritorno della grande Milano è nata anche una nuova genia, il bauscia 2.0, figura che si credeva scomparsa con la scomparsa di una certa cinematografia, il “cumenda”, che può essere Guido Nicheli in “Vacanze di Natale”, Massimo Boldi in “Yuppies”, o il commendator Fenoglio nel “Vedovo”, o il Bibi nel “Sorpasso”), insomma il milanese non simpatico che parla solo di soldi vantandosi dei suoi affari. In più, una certa mancanza di ironia, la tendenza a prendersi terribilmente sul serio, una specie di arroganza che tutti constatiamo in chi si trasferisce a Milano (Milano fa qualcosa alle persone, lo sappiamo tutti). Abituato all’assenza di sfottò, il milanese è agitato, performante, mai domo. Il nuovo bauscia naturalmente non si vanta delle conquiste femminili né avrebbe la Porsche o la Mercedes, è ecologico, femminista, con la sua borraccetta e gli airpods perenni che gli pendono dagli orecchi come gioielli di un faraone. Controlla le luci e le caption del suo Instagram. Ti parla del suo progetto, della sua idea, della sua startup. E’ elegante, vezzoso, pluriaccessoriato, forse perché sa che deve mantenere in vita gli immani commerci cittadini che reggono la città stato; tutto è ammesso a Milano tranne la frugalità.

“Il milanese non esiste più. Milano è fatta da professionisti che sono venuti a vivere qui perché qui ci sono opportunità che non ci sono lì da dove vengono. E’ una specie di selezione naturale,
che sta creando una comunità che è molto più europea come mentalità. Milano non è l’Italia” (Pierluigi Dialuce)
 
E’ e rimane infatti una città di commerci, più che di industria, di qui un’eleganza e una mentalità da vetrinisti – il vetrinista, nobile professione; Giorgio Armani faceva le vetrine alla Rinascente, alle vetrine di Fiorucci in piazza Duomo ci si andava in pellegrinaggio; e uno dei miti fondativi di Milano, il commendator Bocconi, aveva il mall con le meglio vetrine di Milano e dunque d’Italia. Il gusto vetrinistico ha a che fare con le miniature e col presepe (presepi di pane, biscotti, tortellini, cravatte, cioccolatini; le disfide tra pasticcerie, le uova di pasqua e i fiocchetti. Un genere in cui Milano è maestra. Di qui lo strano e pervasivo feeling tra Milano e Napoli; Rizzoli che si trasferisce a Ischia; Berlusconi e Apicella, il culto dei milanesi per la napoletanità). L’estetica milanese non è dunque né da interno né da esterno, è un trionfo di usci, giardini, show room, insomma né dentro né fuori. In vetrina. E del resto il rito centrale della milanesità, il salone del Mobile, è trionfo appunto della vetrina, sia in senso metaforico, “vetrina dell’industria del settore”, per la fiera, sia proprio vetrina di negozio, per tutti i prosecchini e gli eventini cui le folle accorrono nella girandola del fuorisalone. Il culto delle merci si riverbera anche sul trionfo del calembour commerciante, nonsolopane, paninogiusto, pastamadre, il fornaio, el forner (quante panetterie, in una città di persone magrissime e fit che si sparerebbero pur di non ingerire carboidrati. Il trionfo del lievito non si spiega, eppure è ossessione cittadina almeno dal Seicento manzoniano, e ha incrociato in pieno la moda americana del baking, così è tutto un trafficare di paste madri e di semi rari e farri pregiati); e poi l’orgoglio della ferramenta, e l’uniforme per domestici, in un turbinio di cambi di insegna – la modernità di Milano sta anche nel cambiare velocissimo d’esercizi commerciali, quello che andava bene sei mesi fa è già completamente out. Tenersi informatissimi. Chi si ferma è perduto.

Forse questa attitudine a cambiare, insieme a ciò che deve cambiare per sopravvivere, la moda, portano quel gusto di prendere serissimamente tutte le manie e i trend del momento. Fare sempre tutti insieme la stessa cosa, tutti a vedere la nuova galleria di Massimo De Carlo lo stesso giorno, tutti al Piccolo a vedere lo stesso spettacolo, tutti a villa Necchi Campiglio, poi Louis CK e via a mangiare il poke o “in” fondazione Prada. Chi è nato in provincia riconosce quella sensazione di claustrofobia, insieme al culto dei consumi: Milano ha tutti i ritrovati di una moderna metropoli – trasporti efficienti, raccolta della spazzatura, attrazioni culturali, diversità, avocado toast. Però, una strana sensazione. “Si credono Copenhagen”, ha detto una volta un mio amico, “ma sono a Brescia”. Gli aspetti provinciali sono tutti lì: in più, prendere tutto assolutamente sul serio, che è la loro forza: la città stato, startup city con il suo ufficio stampa integrato tipo Israele. “Ho saputo che sei in città”, ti chiama appunto un ufficio stampa. Forse hanno già installato sistemi di riconoscimento facciale in Fondazione Prada. Quando apre un museo o una mostra sono tutti lì. Vai alla cena e trovi tutti. L’assimilazione avviene per base professionale, il mio progetto, la mia idea, il mio lavoro, e dopo un po’ è contagiosa (e di nuovo la claustrofobia: scordati di scomparire e d’essere lasciato in pace: quello succede nelle capitali). La Nuova Credulità Milanese prevede poi che anche a mostre modeste e a eventi riprovevoli, intellettuali normalmente ferocissimi non alzino il ciglio, terrorizzati forse dalle ritorsioni tribali o forse perché “non si fa”. Il culto di Beppesala, come tutti i culti milanesi, non ammette dubbi ed eresie; chi ne parla male viene molto vituperato (parlare male, in generale, è una cosa pochissimo milanese, considerata una perdita di tempo e dunque di denaro).

Chi non è milanese si adegua. C’è un patto esplicito. Consumi sofisticati e sospensione dell’incredulità. Un mio amico che abita a Milano, storicamente disinteressato all’estetica e ai social, quando lo metto alle strette perché invece da quando sta nella città stato passa ore a cercare la sua caption migliore di Instagram, o è in crisi perché non riesce a trovare delle lenzuola color tortora che si abbinino al pavimento, mi prega di non prenderlo in giro. Già è dura così, dice. Anche i romani, un tempo baldanzosi oppositori della milanesità, son mimetizzati e sono stati assimilati, non c’è più l’ombra dello sdegno di un tempo – “la cosa migliore di Milano è il treno per Roma”. Alcuni sono addirittura inseriti nei gangli della nuova Milano: soprattutto femmine come Lorenza Baroncelli, boss della Triennale; Irene Graziosi, autrice e agitatrice culturale e instagrammatica che presidia sui media della città-stato il prezioso segmento delle giovani donne. Spiega la gioventù milanese e dunque italiana insieme alla instagrammer baby Sofia Viscardi (sono celebrità a Milano prese molto sul serio, fuori chissà). Graziosi assomiglia molto peraltro a Pilar Fogliati, la ragazza romana che imita i vari accenti.

Abituato all’assenza di sfottò, il milanese è agitato, performante, mai domo. Il nuovo bauscia è ecologico, femminista, con la sua borraccetta e gli airpods perenni che gli pendono dagli orecchi come gioielli di un faraone. Controlla le luci e le caption del suo Instagram.
Ti parla del suo progetto, della sua idea, della sua startup
   
E poi il cibo, con Felice a Testaccio che ha aperto a Milano e presidia il food insieme al pizzettaro filologico Bonci che si inserisce nella temperie panettiera (ma poi, a contrario, ecco il milanese anzi pavese Max Pezzali a celebrare Roma, ormai simbolo dell’alterità deindustrializzata; nel suo nuovo brano “In questa città” uno sgangherato canto d’amore per Roma tra cinghiali, code ai taxi, e “In questa città c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo”. Insomma Roma come alterità possibile: vado a vivere a Roma è il nuovo vado a vivere in campagna.

E intanto Milano Provincia Capitale: il flusso di notizie in uscita è da Ventennio. Solo good news. Un turbinio di buone pratiche, record, dati positivi, studi entusiasmanti: ogni giorno apre un’università, un Emiro tira su un grattacielo. “Milano, ecco la biblioteca degli alberi: il nuovo mega parco di Milano, titola Milano Today: “Nessun cancello, ma solo verde, alberi, percorsi didattici e sentieri. Ha svelato finalmente il suo volto, sabato mattina, la “Biblioteca degli alberi, il nuovo mega parco di Milano sorto tra piazza Gae Aulenti, via Melchiorre Gioia e il quartiere Isola”. Il mega parco sono novantamila metri quadrati, terza area verde più grande di Milano (che non è proprio un vanto, diciamo). Però il mega parco, ai piedi del Bosco verticale a Porta nuova, rappresenta anche esteticamente la bolla milanese: un’area molto celebrata ma che ricorda paesaggi coreani o rumeni, anche con microclima micidiale, umidità gelida la sera, con grossi corvi che planano tra quei grattacieli da male di vivere e le residue cascine tipo Renato Pozzetto in “Il ragazzo di campagna”.

Valli a verificare, poi, questi novantamila metri quadri. Vai a verificare che sia tutto vero, reale, tutto ciò che Milano si vanta di essere oggi; i manager che incontri agli aperitivi in terrazza e poi vivono nelle stanze a Lambrate con tre coinquilini. Ma già a dire così passi per traditore della Patria. Il patto è talmente forte e pervasivo che ho un po’ paura a scrivere queste cose. La prossima volta, magari all’uscita dalla Centrale quando sfioro la mia carta di credito contact al tornello qualcuno mi rimanderà indietro o degli squadroni dell’Atm mi condurranno in una località segreta e poi mi smembreranno tipo consolato saudita.

Ormai il percepito è reale, cosa conta se questa biblioteca vegetale sarà grande quanto un parchetto. Lo spettacolo deve andare avanti. I giochi d’acqua nella darsena bellissimi. In mezzo alla sospensione dell’incredulità ogni tanto però qualche crepa: durante quell’Halloween milanese in cui tutto è concesso che è il salone del Mobile, è come se l’ombra, l’inconscio cittadino venisse fuori tutto: nei tassì per esempio.

E’ chiaro che i trasporti sono un altro tormentone della Milano Città Stato, città green e inclusiva, città dove abbandonare le auto – tra Area C e poi B e i sensori sparsi ovunque; l’orgoglio trasportistico prevede biglietto a due euro, la Lilla, Linate record, la metropolitana che si apre con la carta di credito, il rinnovato culto del tram tirato a lucido. Però, anche qui, la nemesi: per essere una capitale internazionale ed europea Milano dovrebbe avere Uber, e già qui la stranezza: ma poi i tassisti milanesi sembrano aver introiettato un’italianità riottosa e ‘nu poco levantina, napoletana, un’aggressività, che li porta a essere (apriti cielo) peggiori dei loro colleghi romani. Perché a Milano, dove tutti sono felici e dove i diamanti crescono sotto la Fondazione Prada, ti aspetteresti caramelle al miele e borracce d’acqua del sindaco a bordo. Invece il tassista milanese è leghista, incarognito, e partecipare al grande sabba milanese non lo placa comunque. Arriva con dieci euro di tassametro, e alla tua vaga protesta non avrà l’accidia del romano, bensì la protervia lombarda. “Ah non le va bene? Ne prenda pure un altro”, ti dice, sapendo che dopo averlo aspettato all’ombra di qualche Isozaki o Zaha Hadid inquietante nell’ombra umida serale, per accompagnarti in qualche tragica taverna o Airbnb coi prezzi raddoppiati causa salone, tu cederai al ricatto, e lui, vestito meglio di certo e con una macchina più nuova del collega romano, ti turlupinerà peggio di quello. Pur di non rimanere lì tu cedi e odi Milano e odi anche te stesso perchè pensi male di Milano (è la sera, la sera, che vien fuori l’angoscia di Milano, col troppo cemento, con le umidità, i grattacieli – ma chi ci abiterà mai in tutti quei grattacieli? La faccia che ti devi lavare causa smog, i ristoranti affollati con le vetrine appannate (ristoranti, tanti, di ogni tipo, naturalmente il pesce più fresco d’Italia. Essere poveri a Milano dev’essere una cosa tremenda).

Il tassista milanese sembra aver raccolto su di sé l’ombra, l’inconscio milanese; non può andar tutto bene; ecco allora che il tassì si carica degli spiriti oscuri. Ma anche la stazione centrale è un altro buco nero della nuova Milano: la distesa di africani baldanzosi si offre al passante e lo avvolge come ala di folla; la pericolosità dello scalo è superiore a quella romana: sono già celebri gli stormi di rapinatori zingari che si danno appuntamento per il Salone del mobile, a gruppi di trenta, anche loro attirati da quella kermesse. E poi le statistiche, di dieci giorni fa; per cui Milano è la città italiana con più reati denunciati (7.017 denunce ogni 100 mila abitanti, davanti a Rimini e poi Firenze, Roma non pervenuta). Ma si dirà che i reati si compiono dove i soldi stanno; o che i milanesi son grandi denunciatori. E dunque sulle pagine locali: vasi di fiori che cadono, gattini persi e subito ritrovati, Mahmood in lizza per l’Ambrogino d’oro. Tecnopoli che aprono. Emiri che arrivano. Tutto è depotenziato e soft: solo soft news a Milano. Certo c’è il Corriere, ci sono altri quotidiani e magazine, ma la città stato è fatta di giovani, e dunque è la città stato del giornalismo che non è carta e che è passato a Instagram. La civiltà delle immagini in movimento. Freeda. Le influencer academy. Powered by. “Pensiamo a una collaborazione”. “Mi occupo di contenuti”. Rubriche molto seguite che si chiamano “Appuntini”. Milano fabbrica dei sogni, dunque di Instagram con gli instagrammatori tutti che vengono dalla provincia, le Ferragni, e giù a scendere i Paolo Stella, l’Estetista cinica; i dj-stilisti-influencer come Marcelo Burlon (che ha chiamato il suo marchio “county of Milan”, come contea ma anche come paese). Poi, nella catena alimentare milanese, più in basso, anche tanti mostri, sòla, cialtroni, uffici stampa, pr, organizzatori di eventi e splendide cornici.

Il problema è che Milano funziona troppo, e Beppe Sala, anzi Beppesala, come il suo profilo Instagram, è parte del problema

Tutto va bene a Milano ed è attutito in una bolla di rispetto e polveri sottili. Tutto è piccino e attutito e nulla può far davvero paura in questa città stato dagli alti muri. Forse Milano alla fine non ha alcun merito di questo suo nuovo status sovranazionale. Forse era semplicemente lì pronta a sbocciare, in attesa della concatenazione di eventi: 1) l’alta velocità; 2) il cambiamento climatico, che ha reso azzurro il cielo e visibili le architetture magnifiche e meno lugubri i risvegli; anche se la Pianura padana è uno dei posti che si sta riscaldando più velocemente nel mondo: negli ultimi cent’anni, dicono, la temperatura media è cresciuta di altri 2,5 gradi. E diventerà “come il Pakistan, o un deserto africano”, di qui ai prossimi cento; 3) iI secolo in cui si prendono sul serio le stronzate e l’ironia è sospesa. Il discorso sulle serie, i giornalisti delle serie, le serate a guardare le serie. Era come se Milano con la sua attenzione per l’effimero e la sua mancanza di ironia fosse lì pronta a sbocciare per cibo, piante, telefilm. Gli instagram dei trentenni milanesi, nelle loro stanze in affitto a seicento euro al mese, son pieni di raccontini, pisolini, vetrine, piscine (misteriose). Dicono che si scopi comunque poco. Si passa moltissimo tempo su Instagram, del resto. Tutto questo, è ovvio, è detto solo per invidia.

sabato 23 novembre 2019

PREVENZIONE Pressione, quando è davvero alta? E come fare per abbassarla? Tutti i consigli

Fino a qualche tempo fa si parlava di pressione alta quando i valori erano superiori a 140 millimetri di mercurio per la «massima» e 90 per la «minima». Oggi qualcosa è cambiato 
di Elena Meli

Massima e minima

Fino a qualche tempo fa si parlava di pressione alta quando i valori erano uguali o superiori a 140 millimetri di mercurio per la «massima» e i 90 per la «minima». Oggi ci sono un bel po’ di distinguo e perfino una certa dose di disaccordo su che cosa si intenda per ipertensione, come ha sottolineato un recente studio pubblicato sul Journal of American College of Cardiology, che ha messo a confronto le ultime linee guida sull’argomento stilate dagli esperti statunitensi e dai loro colleghi europei. L’American College of Cardiology e l’American Heart Association infatti hanno messo nero su bianco che oltre il limite di 130/80 bisogna intervenire, perché la pressione è già da considerare troppo alta; l’European Society of Cardiology e l’European Society of Hypertension ribattono che la vecchia indicazione di tenersi sotto i 140/90 come obiettivo funziona ancora e sottolineano che non serve puntare troppo in basso, perché in alcuni casi scendere al di sotto di 120/70 potrebbe essere controproducente.

Il valore-soglia

Ma allora dove sta la verità? E quando ci si può dire ipertesi per davvero? Gianfranco Parati, coautore del confronto fra le linee guida americane ed europee e già presidente della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa, spiega: «L’idea che si debba puntare più decisamente sotto il classico limite dei 140/90 è nata negli ultimi anni, quando è emerso che molti eventi cardiovascolari si registrano negli ipertesi in trattamento che hanno raggiunto valori attorno o appena inferiori a 140/90 e a seguito di studi che hanno mostrato come scendere al di sotto di 130 di massima conferisca un ulteriore, piccolo beneficio in termini di rischio cardiovascolare. Così gli americani hanno cambiato il valore-soglia dell’ipertensione e il target da raggiungere con le cure, senza però considerare che quando si opta per terapie più aggressive c’è un prezzo da pagare: aumentano infatti gli effetti collaterali, tanto che molti pazienti interrompono i farmaci, perdendone così ogni vantaggio e ritrovandosi fuori controllo, quindi ad alto rischio: ecco perché gli europei hanno mantenuto la soglia di 140/90 e un obiettivo terapeutico sotto i 140/90, possibilmente vicino a 130/80, consigliando di scendere più giù solo se il trattamento è ben tollerato e valutando sempre caso per caso se e quando sia opportuno essere un po’ più aggressivi. È stato fissato anche un limite inferiore: non si deve scendere al di sotto di 120/70 con una terapia, perché i rischi supererebbero i possibili vantaggi».

L’età

L’intervento deve tener conto dell’età e del profilo di rischio globale, come la presenza di altre patologie: negli anziani fragili per esempio è meglio essere «morbidi» perché potrebbero avere crolli di pressione troppo repentini col rischio di cadute e fratture; in chi ha una malattia renale cronica si può stare fra 130-140 e 70-79; nei diabetici, in chi ha avuto un ictus o un infarto e nei pazienti con coronaropatie è giusto puntare a 130/80 e anche più sotto, se ci si riesce senza andare incontro a guai.

Tempestività

«Più che focalizzarsi ad abbassare la pressione quanto più possibile in un iperteso, però, è bene cercare di correggerla appena la individuiamo: il messaggio non deve essere “più bassa è, meglio è”, ma “prima è, meglio è”», specifica Parati. «Iniziare una terapia tardi, quando la pressione ha già provocato danni irreversibili e il pericolo di eventi cardiovascolari è molto alto, significa solo tamponare le falle: si ottiene un beneficio, ma resta un rischio residuo di complicanze non indifferente perché l’ipertensione ha già avuto modo di creare danni agli organi. Curare la pressione alta quando non ha ancora fatto troppi guai e i valori sono solo di poco superiori alla norma significa avere un successo maggiore con la terapia, che funziona meglio se le arterie non sono già troppo irrigidite, e soprattutto consente di fare vera prevenzione e rimanere sani, perché non ci sono ancora alterazioni strutturali dell’apparato cardiovascolare e si può tornare alla normalità».

Stile di vita

Se si interviene con tempestività è anche più probabile evitare resistenze alla terapia e risolvere tutto migliorando lo stile di vita: come spiega Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia: «Cambiare le abitudini è indispensabile se si ha la pressione alta e spesso basta se il problema non è troppo grave o viene affrontato per tempo. La pressione scende in misura significativa se si perde il peso in eccesso, si riduce l’alcol, si passa a una dieta ricca di vegetali, cereali integrali e a basso contenuto di grassi. Serve ovviamente anche contenere l’apporto di sodio e aumentare quello di potassio. Infine, è necessario l’esercizio fisico: ogni volta che si fa attività aerobica la pressione cala visibilmente, se la si pratica con regolarità i benefici sono evidenti». Purtroppo dati raccolti di recente dal Sindacato Nazionale Autonomo Medici Italiani dimostrano che il 62% degli ipertesi non fa alcuna attività fisica e l’82% ha una circonferenza vita superiore alla soglia di sicurezza per le patologie metaboliche e cardiovascolari, indice di un peso elevato, alimentazione scorretta e sedentarietà.

Farmaci

Se migliorare lo stile di vita non basta bisogna passare ai farmaci e qui le linee guida americane ed europee concordano: è spesso opportuno scegliere una pillola con combinazioni di principi attivi. Sottolinea Parati: «Se la pressione è solo lievemente elevata all’inizio può andare bene un singolo medicinale, altrimenti le pillole “combinate” possono aiutare: l’associazione di farmaci con meccanismi d’azione diversi ha infatti una maggior probabilità di funzionare, inoltre consente di diminuire le dosi necessarie per ogni singolo farmaco e quindi i possibili effetti collaterali, semplifica la cura e aumenta le chance che venga seguita. La scarsa aderenza al trattamento infatti è un problema. Dati raccolti in Lombardia mostrano che dopo un anno la metà degli ipertesi già non si cura più, spesso proprio per colpa degli effetti collaterali della terapia. Calibrarla bene in modo che sia più tollerabile è essenziale e oggi le combinazioni aiutano, perché non ci sono più soltanto quelle ad alto dosaggio ma ne esistono di vari tipi e a dosi differenti, anche basse». Resta il fatto che per intervenire contro l’ipertensione è essenziale diagnosticarla: pian piano la consapevolezza degli italiani sta aumentando, ma sono ancora troppi gli ipertesi che non sanno di esserlo e tuttora si stima che gli ignari siano circa un terzo del totale. «L’ipertensione è uno dei fattori di rischio cardiovascolare più importanti, aumenta infatti il rischio di infarto, scompenso cardiaco, ictus e fibrillazione atriale. Però non dà sintomi, a parte rarissimi casi (quando la pressione alta procura per esempio mal di testa e la perdita di sangue dal naso, ndr), così tuttora spesso si scopre di essere ipertesi in occasione di un ricovero per eventi cardiaci traumatici, come un infarto o un ictus. Per poter correre prima ai ripari è indispensabile misurare la pressione regolarmente, almeno una volta l’anno durante l’età adulta e ovviamente anche più spesso in caso di fattori di rischio come diabete, sovrappeso, sindrome metabolica», conclude Indolfi.

Nuovi fattori di rischio

La pressione alta? Tutta colpa di uno stile di vita sbagliato, fatto di sedentarietà, dieta scorretta, fumo. Vero, ma c’è anche altro: gli studi scientifici hanno di recente individuato altri elementi che favoriscono l’ipertensione, assai meno noti. Prima arriva il ciclo mestruale, più sale la possibilità di ritrovarsi ipertese una volta superata la menopausa: lo ha rivelato uno studio su 8mila donne cinesi e secondo gli autori, epidemiologi dell’università della Georgia, potrebbe dipendere dall’associazione del menarca precoce con uno sviluppo del sistema cardiovascolare non ottimale, che poi nel corso della vita si manifesta con una maggior probabilità di disturbi fra cui l’ipertensione. Anche i frequenti «viaggi» notturni alla toilette potrebbero essere un segno di ipertensione, stando a uno studio giapponese su 4mila persone: chi va spesso in bagno ha una probabilità del 40% maggiore di avere la pressione alta, che cresce all’aumentare del numero di risvegli per far pipì. «Il bisogno di urinare infatti potrebbe essere associato a un eccessivo incremento dei fluidi, si tratta perciò di un segnale da non sottovalutare», raccomandano gli autori. E poi i pesticidi: sono pericolosi quelli usati per la floricoltura, stando a un’indagine dell’università di San Diego condotta su ragazzini residenti in Ecuador in aree dedicate alla coltivazione delle rose raccogliendo i dati a maggio, quando la produzione è ai massimi per la festa della mamma: in questo periodo l’esposizione ai pesticidi sale e con lei pure i valori di pressione dei bimbi, che per questo poi potrebbero andare incontro più facilmente a ipertensione. E infine la liquirizia. Anche un apparentemente innocuo tè alla liquirizia può portare a una crisi ipertensiva chi è più fragile, per esempio perché anziano: lo segnala uno studio canadese che rinnova la raccomandazione a non esagerare con liquirizia e derivati se si soffre di pressione alta. Questa radice ha infatti un effetto ipertensivo molto netto, per cui è bene limitarne l’uso sia come tale sia sotto forma di caramelle, tè o infusi.



giovedì 21 novembre 2019

Come valutare un immobile: ecco quali sono i fattori per stabilire il prezzo di una casa di Gino Pagliuca

Nella valutazione di una casa non sempre il web basta

Di uno strumento finanziario quotato si sa sempre il prezzo di mercato: se si vuole comprare un’azione x o un’obbligazione y basta collegarsi a un qualsiasi servizio di Borsa che opera in tempo reale per sapere a quanto viene offerto il titolo. Sta poi al potenziale investitore valutare se il prezzo è conveniente. Per gli immobili le cose non sono così semplici e definire un valore credibile per una casa è spesso un problema sia per chi deve vendere sia per chi deve comprare, soprattutto se si vuol fare da soli. E questo anche se l’abbondanza di informazioni grazie al web rende comunque più facile avere un’idea dei prezzi richiesti per un’abitazione.
Innanzitutto, per poter valutare al meglio un immobile è bene partire dalla sezione del sito dell’Agenzia delle Entrate dedicata all’Osservatorio del mercato immobiliare, che scandaglia le zone e le tipologie di immobili dandone una quotazione puntuale.
Di seguito, cosa si deve tenere presente per una valutazione corretta di una casa o di un appartamento:

L’«età» della casa incide sul prezzo

I primi due aspetti da considerare per valutare una casa sono ovviamente la dimensione (anche se le case abitualmente si vendono a corpo e non a misura) e la sua posizione. Basta consultare un qualsiasi listino immobiliare, un giornale o un sito specializzato in annunci di vendita, per verificare che nel giro di poche centinaia di metri i prezzi possono variare anche del 100%. Le caratteristiche dell’edificio in cui si trova l’appartamento sono a loro volta fondamentali, a partire dall’epoca di costruzione del palazzo. Le case con oltre venti-trent’anni di vita, a meno che non siano state completamente ristrutturate, hanno un valore ridotto, se non si tratta di edifici di particolare valore storico, artistico o architettonico. Per dare un’indicazione di massima una casa del tutto nuova costa circa il 30% in più rispetto a un immobile di 25-40 anni e circa il 50% in più rispetto a uno più vecchio.

Il quartiere dove si trova l’abitazione fa la differenza

Anche lo stato di manutenzione del condominio è uno dei fattori che può fare guadagnare (o perdere) appeal. La necessità di intervenire pesantemente sulle parti comuni o di rifare la facciata incide infatti sul prezzo anche del 10%. Ma ancora più importante il contesto ambientale in cui si inserisce l’edificio. Ad esempio il rumore può diventare una discriminante. In alcuni casi estremi non si può nemmeno parlare di deprezzamento dell’immobile ma di quasi impossibilità a venderlo. Se una casa è a dieci metri da un locale dove i giovani stazionano schiamazzanti per buona parte delle notte non si trova nessuno disposto ad acquistarla, così come è difficile vendere case vicino alle stazioni ferroviarie o agli aeroporti. Al contrario, una casa situata in un complesso ricco di verde e di viali pedonali, isolata dal traffico cittadino, offre un plus molto apprezzato oggi.

L’appartamento

Sono vari i fattori che incidono sul valore di un appartamento.
1) Molto importante è il piano su cui si trova l’appartamento: per ogni piano che si sale, sale il valore della casa di circa il 5%. Beninteso: se c’è l’ascensore; se invece non c’è, a partire dal secondo piano l’alloggio si deprezza.
2) L’esposizione su due o più lati aumenta il valore.
3) Per quanto riguarda il riscaldamento, è più economico meglio l’impianto centrale con il contatore che quello del tutto autonomo.
4) Gli acquirenti più accorti guardano sempre a che cosa dice l’Attestazione energetica della casa (il venditore deve obbligatoriamente fornirla): la classe G, quella delle case energivore, deprezza l’immobile, così come la presenza di riscaldamenti a pannelli che non consentano la contabilizzazione dei consumi.

Box e terrazzo

Ci sono poi due “accessori” che almeno nelle grandi città non solo hanno un valore di per sé ma fanno aumentare il valore della casa.
1) Il box: non è raro il caso che la possibilità di avere un parcheggio privato sia addirittura discriminante per la scelta della casa.
2) Il terrazzo, che contribuisce al prezzo di una casa per una quota che varia dal 25 al 40% della superficie (è come dire che se un metro quadrato di appartamento vale 4.000 euro, quello di balcone è calcolato da 1.000 a 1.600 euro). Se il terrazzo può essere sfruttato per mangiare all’aria aperta e la sua dimensione è contenuta in 20-25 metri quadrati (oppure è interamente coperto) ed è allo stesso piano dell’appartamento la valutazione può essere vicina al 35-40%. Mentre se è molto grande oppure è posto al primo piano, con relativo affaccio di tutti i condomini dei piani superiori, il suo valore scende fino al 20%. Una veranda abitabile può valere dal 50 al 95% del valore pieno dell’appartamento. Mentre un soppalco agibile e in regola con le norme urbanistiche può essere calcolato al 50%. Mentre un metro quadrato di cantina o solaio è da calcolare al 15-20%.

mercoledì 20 novembre 2019

IL MARMO DEI BIN LADEN

IL MARMO DEI BIN LADEN - FORSE NON LO SAPEVATE, MA I PARENTI DI OSAMA DA UN PO’ DI TEMPO PREFERISCONO LE CAVE DI CARRARA ALLA JIHAD: CINQUE ANNI FA IL FRATELLO DEL "PRINCIPE DEL TERRORE", BAKR, HA INVESTITO 45 MILIONI DI EURO PER IL 50% DELLA “MARMI CARRARA”, CHE A SUA VOLTA HA LA METÀ DI "SAM", TITOLARE DI UNA BUONA FETTA DEL DISTRETTO MARMIFERO DELLA CITTÀ TOSCANA – SUL SETTORE DELLE LAPIDI, DEL RESTO, LA FAMIGLIA HA UNA LUNGA ESPERIENZA…
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bakr e osama bin ladenBAKR E OSAMA BIN LADEN


Brunella Bolloli per “Libero quotidiano”

La pietra tombale sul destino della Versilia potrebbero metterla gli eredi di Osama Bin Laden che hanno trovato decisamente più redditizio investire sul marmo delle Alpi Apuane piuttosto che sulla jihad tanto cara al defunto parente, le cui spoglie tra l' altro vennero cremate e disperse in mare altrimenti una lapide da queste parti si sarebbe facilmente trovata.

maria teresa baldini 2MARIA TERESA BALDINI 2
Ma a parte l' ironia macabra, chi sta combattendo una battaglia pancia a terra per difendere l' economia del territorio è la deputata di Fratelli d' Italia, Maria Teresa Baldini, scultorea presenza in Parlamento (è stata una delle componenti della Geas Basket nonché membro della Nazionale di pallacanestro femminile), la quale ha deciso che bisogna salvaguardare con i fatti e non soltanto a parole il settore lapideo e soprattutto chi vi lavora da sempre: 10mila addetti in 2.522 imprese, stando ai dati delle Camere di Commercio, nelle province di La Spezia, Massa e Lucca.

cave di marmo a carraraCAVE DI MARMO A CARRARA
Baldini, che è prima di tutto medico, è nata a Pietrasanta e conosce bene il territorio in cui Bakr Bin Laden, fratello del trapassato Osama principe del terrore, dal 2014 fa affari nelle cavi del pregiato marmo. Cinque anni orsono, infatti, la famiglia Bin Laden ha investito la bellezza di 45 milioni di euro per assicurarsi il 50% della Marmi Carrara, che detiene a sua volta il 50% di Sam (Società Apuana Marmi), titolare di una buona fetta del distretto marmifero della città toscana. In sintesi, gli storici imprenditori locali hanno venduto le loro quote e la Cpc Marble & Granite Ltd, con sede a Cipro, le ha rilevate fiutando le potenzialità del settore.
cave di marmo a carrara 1CAVE DI MARMO A CARRARA 1

COLOSSO DELLE LAPIDI
Il gruppo arabo, del resto, terzo al mondo nel comparto delle costruzioni e con un fatturato stellare, già da trent' anni si riforniva da noi: è sempre stato il principale acquirente. Ma se fino al 2014 era solo un cliente, seppur facoltoso e da trattare con i guanti bianchi, un ospite di riguardo che attingeva dalle cave apuane per ornare i già sontuosi palazzi sauditi, ora il gruppo è diventato una sorta di padrone a casa nostra e, capite bene, non a tutti garba.
bakr bin ladenBAKR BIN LADEN

Perché dove un tempo Michelangelo andava a scegliere il marmo per i propri capolavori, ora ci vanno i fratelli e i cugini del fondatore di Al Qaeda, internazionalmente riconosciuto responsabile degli attentati delle Torri Gemelle e di molti altri attacchi che hanno causato vittime. Osama poi è stato ucciso, i parenti hanno preso le distanze da lui e dai suoi crimini (era il 17esimo figlio, considerato la pecora nera), eppure la questione del comparto lapideo e del futuro di tante imprese e lavoratori italiani è una faccenda che preoccupa. La filiera, è la denuncia, sta diventando sempre più preda di produttori esteri, India e Cina in primis, oltre agli arabi.
cave di marmo a carrara 3CAVE DI MARMO A CARRARA 3

Due anni fa, il settantenne Bakr Bin Laden, già presidente del gruppo Saudi Bin Laden, da cui dipende Cpc Marble e Granite, una potenza da 55.700 dipendenti e 38 miliardi di fatturato, è stato arrestato per corruzione. Il fratellastro di Osama è finito in una retata ordinata dal principe ereditario Mohammed bin Salman con l' accusa di avere intralciato la manovra di modernizzazione a cui mirava il nuovo governo: più che in prigione sono stati tutti chiusi nelle lussuose stanze dell' hotel Ritz-Carlton di Riyad e liberati solo dietro il pagamento di un ingente riscatto versato nelle casse dello Stato insieme alla confisca di ville, jet e Maserati. Contro Bakr, poi, la vendetta di Salman è stata particolarmente cinica e l' impero dei Bin Laden ne ha risentito, almeno laggiù.
cave di marmo a carrara 6CAVE DI MARMO A CARRARA 6

In Versilia, invece, è l' intero settore lapideo a subire i contraccolpi di nuove dinamiche di mercato legate all' immissione di prodotti finiti a basso costo di lavorazione estera. Nel primo semestre del 2019 le esportazioni italiane di pietra naturale si attestano su 1.679.295 tonnellate per un valore di 906 milioni di euro, con una riduzione del 7,63% rispetto allo stesso periodo del 2018.
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E in quanto all' esportazione di marmo lavorato, nei primi 6 mesi di quest' anno si è registrata una riduzione del 14,59%, sebbene vi sia stato un aumento del valore unitario pari al 6,06% che ha compensato in parte il calo complessivo.

SERVE UN MARCHIO DOP
cave di marmo carraraCAVE DI MARMO CARRARA
Per l' onorevole Baldini non vi è dubbio: bisogna «creare un marchio del Marmo Italiano Dop che tuteli tutta la filiera, dall' estrazione, trasformazione e lavorazione del marmo del distretto Apuo-versiliese».

cave di marmo a carrara 5CAVE DI MARMO A CARRARA 5
La deputata ha presentato una risoluzione in commissione Attività produttive della Camera con la quale sollecita il governo a intervenire al fine di proteggere un settore che sta diventando sempre più preda di produttori stranieri. «Occorre impedire che il marmo venga venduto tutto all' estero per poi essere rivenduto all' Italia come prodotto già lavorato», spiega. E bisogna tutelare la pietra naturale italiana dal "falso marmo" di derivazione sintetica messo in commercio.
maria teresa baldini 1MARIA TERESA BALDINI 1bakr bin laden 2BAKR BIN LADEN 2maria teresa baldiniMARIA TERESA BALDINImarmi carraraMARMI CARRARAcave di marmo a carrara 2CAVE DI MARMO A CARRARA 2il fratello di bin laden e le cave di marmo a carraraIL FRATELLO DI BIN LADEN E LE CAVE DI MARMO A CARRARAosama bin ladenOSAMA BIN LADENhamza bin ladenHAMZA BIN LADENhamza bin ladenHAMZA BIN LADEN

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