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lunedì 3 maggio 2021

Non si può costruire una società sul diritto penale

POLITICA 03/05/2021 10:10 CEST Ergastolo ostativo, ddl Zan, arresto dei terroristi. Il problema di distinguere giustizia e morale By Alessandro Barbano Che accade quando un Paese si convince che con la legge penale si può fare tutto? Si può garantire la sicurezza, si possono affermare nuovi diritti e, da ultimo, si può costruire una memoria condivisa? Accade che nessuno di questi obiettivi si realizzerà davvero, ma ciascuno di essi dovrà farsi carico del peso insostenibile di un diritto che, volgendosi da mezzo a fine, è diventato un gigantesco moloch. In cui non distingui la giustizia dalla vendetta. Se questa regressione civile si è compiuta, è perché la cultura costituzionale ha smesso di essere un valore. Nel senso che non ci si crede più. Non solo nelle piazze, ma nella coscienza di quegli uomini più illuminati che fanno le élite. Come Giuseppe Pignatone, già procuratore di Roma e ora a capo della magistratura vaticana. Capace di sostenere che lo Stato di diritto possa barattare pillole di umanità con la delazione del condannato. E che questo scambio non offenda quella dignità minima che la Carta riconosce come principio che la precede, e il cui rispetto è dovuto anche al peggiore degli uomini. Pignatone vuol garantire la sicurezza con l’ergastolo ostativo. Norma che vuol dire: fine pena mai, permessi premio mai, a meno che il condannato non accusi qualcuno, offrendo alla giustizia il risultato concreto di una collaborazione. Non conta che si sia dissociato dall’organizzazione criminale. Non conta che il suo comportamento in carcere sia prova di una redenzione. Senza baratto, non avrà diritto a un’oncia di libertà. Da trentacinque anni questo pezzo di Medioevo sta piantato nel cuore dell’ordinamento. Da due anni la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto all’Italia di cancellarlo, poiché lede eguaglianza e libertà in una misura inaccettabile per l’umano. Da due anni le istituzioni, le forze politiche e uomini come Pignatone, a cui il passaggio alla giustizia della Santa Sede non ha portato l’illuminazione della pietas cristiana, fanno finta di non sentire. La loro sordità si fonda su un sillogismo incoerente e contrario all’abbiccì del diritto: l’ergastolo ostativo – sostengono - è fondamentale per combattere la mafia. Anzi, per combattere le mafie, come si dice tradendo con il plurale l’idea di estendere un paradigma che mediaticamente funziona. Perché le mafie hanno seguito la traiettoria e la carriera dei magistrati combattenti: dalle caverne dell’Aspromonte si sono estese alle ridotte del Campidoglio. Ma se stanno davvero per ogni dove, se il loro ricatto è cresciuto, anziché ridursi, non vorrà dire che le leggi eccezionali e i rimedi spicci, con cui da cinquant’anni le sfidiamo, non funzionano come dovrebbero? Oppure, avvicinandosi per troppo tempo al fuoco del male, questi uomini di giustizia ne sono rimasti abbacinati, ne proiettano il riflesso visivo su tutto ciò che li circonda, mentre non riescono più a vedere l’immane prezzo che la democrazia paga alla barbarie? L’alibi di garantire la sicurezza è abusato quanto il proposito nobile di affermare nuovi diritti. Che ha indotto altre élite a imbracciare l’arma della condanna penale, prevista della legge Zan contro le discriminazioni sessuali o di genere. I torquemada nemici della vecchia morale sono attori, registi e rapper, con il candore e il vigore di Candide folgorati dalla verità. E perciò immuni al dubbio. Ma anche intellettuali autorevoli e illuminati, pronti a garantire che non tutte le parole omotransfobiche saranno punite, ma solo quelle che in concreto offendono, o istigano a offendere, la libertà e la dignità delle vittime. Perciò, rassicurano, chi ritiene il matrimonio omosessuale un peccato o una catastrofe morale non deve sentirsi minacciato. Nessuno di costoro si chiede che accade se il giudizio penale diventa un mezzo coercitivo per consolidare nuovi valori. Per giusti che siano, come pure chi scrive pienamente ritiene. Se cioè la condanna sia il modo per convincere la società che una certa scelta di vita debba essere accettata in quanto conforme al progresso dell’umanità. Hanno tutti dimenticato che il diritto penale liberale non è, per la Costituzione, una pedagogia sociale. Ma piuttosto un rimedio estremo. È violenza istituzionale che interviene a protezione di beni giuridici riconosciuti dal senso comune, a prescindere dall’esistenza e dalla conoscenza di una sanzione. Non a caso nessuno dubita che l’omicidio, lo stupro, la rapina siano reati, anche se non ha mai letto il codice. Se però chiediamo alla condanna il compito di far interiorizzare nuovi principi nel corpo sociale, abbattiamo un limite che è un pilastro della democrazia. Quello che oggi impedirebbe a un legislatore illiberale e autoritario di comprimere la libertà dei cittadini con la forza dell’ordinamento. Quale libertà, quale dignità può garantire un’emancipazione imposta coattivamente come un conformismo etico? Il Paese che vuol liberare la società dai suoi vecchi pregiudizi, traghettandola nel futuro con le sanzioni della legge Zan, è lo stesso che vuole incatenare il presente al passato, punendo oggi reati commessi quaranta o cinquant’anni fa. Sarà un caso che i Fedez e i Salvini facciano lo stesso abuso del diritto penale? Oppure è la prova che élite che si pretendono diverse, progressiste le prime, conservatrici le seconde, hanno allo stesso modo smarrito i principi della Costituzione? Non è uno schiaffo alla Costituzione l’entusiasmo che circonda l’arresto degli ex terroristi in Francia? Non è uno schiaffo alla Costituzione l’abiura che si fa, in questi tempi, della prescrizione? Che non è solo una garanzia per l’imputato vessato da un’indagine interminabile. Ma è soprattutto il rapporto tra la giustizia e il tempo della vita. Perfino i giuristi fascisti come Alfredo Rocco, autore dell’omonimo codice, riconoscevano che l’azione erosiva del tempo fa venire meno la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di imputati o condannati, che non siano più le stesse persone che commisero il reato. Solo la legge del taglione prevede una pena che non può mai mancare. Perché cristallizza il rancore sociale e coincide con la vendetta. È espressione di un diritto cosiddetto retributivo, che è ancora un imperativo morale e categorico, come al tempo di Kant. Per il quale, a costo di dover estinguere la specie umana, anche l’ultimo abitante di un’isola avrebbe dovuto espiare la sua pena capitale, se colpevole di un omicidio. Kant è morto prima che gli ideali della Rivoluzione francese separassero definitivamente il diritto dalla morale in Occidente. Dove l’irretrattabilità della sanzione penale è un’esasperazione logica, inaccettabile per lo Stato costituzionale. Che non solo usa come extrema ratio il bazooka del diritto penale contro la libertà dei singoli, non solo lo subordina alla difesa di rilevanti interessi sociali, tra i quali c’è prima di tutto la rieducazione del condannato. Ma soprattutto sa che, oltre un certo tempo, il risarcimento morale del torto è vano, perché la punizione di un colpevole, che non sia più la stessa persona che commise il reato, non restituisce alle vittime nulla di ciò che il reato tolse. Lo ha compreso e spiegato con parole illuminate Gemma Calabresi, vedova del commissario ucciso dai terroristi, il cui perdono coincide con la virtù laica di mettere una pietra sopra. Non gli indignati professionisti della vendetta, che fanno e disfano la democrazia con il diritto penale. Ora suggerendo la delazione, ora perseguendo le opinioni, ora abusando della pena oltre il tempo in cui avrebbe ancora un senso. Perché non hanno alcun rispetto e alcuna memoria della Costituzione, di cui pure si fanno ipocritamente vanto.

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