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domenica 20 febbraio 2022

Giustizia ma anche libertà

Angelo Panebianco Nel campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: «È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti». Ne consegue che «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere». Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante — anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo — sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri. Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione. Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le «filosofie» che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso. In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale. Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo. All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera. Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe. Anche se lentamente, molto lentamente, muterebbero le mentalità. Si modificherebbero, per cominciare, gli atteggiamenti del pubblico, finirebbe la pessima abitudine di chiamare «giudici» i procuratori (con il terribile effetto pratico di scambiare gli atti delle procure per sentenze e tanti saluti, nella consapevolezza generale, alla presunzione di non colpevolezza). Alla fine costume e prassi giudiziarie si adeguerebbero. E forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere. Ma, appunto, ciò non si realizzerebbe dalla sera alla mattina. Ci vorrebbe tempo, molto tempo. Tuttavia, intorno a questo referendum più che agli altri si giocherà una partita decisiva per il futuro della democrazia italiana. Con questa prova referendaria decideremo se tutelare la libertà del cittadino sia altrettanto importante che assicurare alla giustizia i colpevoli di reati, decideremo in sostanza se ci interessa vivere in una autentica democrazia liberale oppure se, per perseguire altri nobili scopi (colpire la corruzione o la criminalità organizzata o altro) siamo disposti a sacrificare certe garanzie di libertà. Non c’è soltanto la strada scelta dall’Ungheria di Orbán. Ci sono molti e diversi modi per rendere illiberale una democrazia. Gli argomenti usati da coloro che difendono l’unità delle funzioni (e quindi anche delle carriere) sono chiari. Essi dicono che, proprio allo scopo di tutelare meglio il cittadino, occorre che il pubblico ministero partecipi di quella che essi chiamano la «cultura della giurisdizione», ossia che egli non sia distante, professionalmente e culturalmente, dal giudice. In controluce si scorge una concezione paternalistica dell’amministrazione della giustizia (e quindi anche della democrazia). È il pm che operando senza essere limitato da forti contrappesi, contempera, grazie alla sua cultura e alla sua professionalità, il perseguimento dei reati e la tutela delle libertà costituzionalmente garantite. La concentrazione del potere che si è realizzata a causa dell’unità delle carriere, per i sostenitori di questa tesi, non è affatto un pericolo. La salvaguardia per tutti è data, in sostanza, dalla professionalità del pubblico ministero. La tesi opposta è di chi, d’accordo con Montesquieu, pensa che la libertà sia tutelata quando, e solo quando, a un potere se ne contrappone un altro, quando le prerogative dell’uno sono bilanciate dalle prerogative di un altro, quando «il potere frena il potere». Se il pubblico ministero è solo l’avvocato dell’accusa con pari peso e dignità rispetto all’avvocato difensore e il giudice è davvero «terzo» non per buona volontà o per gentile concessione ma perché glielo impone l’assetto proprio dell’organizzazione giudiziaria, allora, e solo allora, è sperabile che l’amministrazione della giustizia si avvicini almeno un po’ a un antico ideale, che diventi possibile perseguire i reati senza passare come rulli compressori sulle libertà costituzionalmente garantite. Non è dalla «benevolenza» del pubblico ministero che dobbiamo aspettarci il rispetto di quelle libertà, è da un sistema di «pesi e contrappesi» ben funzionante. Ciò che l’unità delle carriere, come si è potuto constatare in tutti questi anni, non è stata in grado di assicurare. Ci sarà pure una ragione per la quale, con le sole eccezioni di Italia e Francia, la divisione delle carriere sia la regola in tutte le democrazie liberali. Separando le funzioni cominceremmo a incamminarci su quella strada. Magari il Parlamento che, diciamolo, negli ultimi tempi non ha sempre dato brillanti prove di sé, ci sorprenderà. Magari il referendum sulla separazione decadrà perché il Parlamento riuscirà a fare una buona legge ispirata al principio liberale sopra evocato. Forse arriverà un giorno in cui avremo un giudice compiutamente «terzo», al di sopra dell’accusa e della difesa, grazie alla scomparsa dei legami organizzativi fra giudici e pubblici ministeri. E i pubblici ministeri, a loro volta, dovranno fare i conti con un forte potere controbilanciante. Secondo le regole, sempre faticose e difficili, da cui dipende la tutela delle libertà.

venerdì 11 febbraio 2022

Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa"

Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa" L'aria che tira, a Guido Crosetto basta una frase: "Qual è il reato?", zittito il manettaro Barbacetto L'Eredità, ridono alle sue spalle? Flavio Insinna li inchioda: "Quei due scavezzacollo...", clamoroso su Rai 1 Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani travolge Draghi: "Qual è la vera violenza, noi l'unico Paese al mondo", italiani prigionieri Dritto e Rovescio, Paragone e la rivelazione su Luc Montagnier: "La domanda più stupida". Poco prima di morire... Giorgia Meloni contro Roberto Saviano: "Mi dà della bast*** e scappa. Ma poiché non siamo un partito di imbecilli..." Mario Draghi? Contestare il premier non è reato: l'inquietante titolo di "un quotidiano di primario rilievo" Le Iene, Teo Mammucari-choc contro Belen Rodriguez. "Non sembri, sei una putt***" Bollette alle stelle, il nuovo tetto-famiglie: rumors sul piano del governo, chi può usufruirne Striscia la Notizia, il "tentato suicidio" di Rafa Leao: ciò che pochi hanno notato, disastro a San Siro PiazzaPulita, Romano Prodi e la confessione su Mario Draghi: "Perché è sceso in politica". Italia commissariata per sempre? Mani Pulite, Vittorio Feltri: "Ho creato Tangentopoli, perché oggi devo chiedere scusa" 00:00 Mi fido della mia antica memoria. Sono trascorsi 30 anni da quando scoppiò Mani Pulite. Era il 17 febbraio 1992 quando la magistratura avviò l'inchiesta giudiziaria che diede la stura a una sorta di rivoluzione. Venne pescato il capo del Pio Albergo Trivulzio mentre incassava una tangente in denaro contante, alcuni milioni di lire, mentre lui, Mario Chiesa, preso in castagna, per evitare guai si affrettò a gettare la mazzetta nel water. Furbata inutile, perché le forze dell'ordine capirono tutto e ripescarono i quattrini. Ciò bastò per aprire indagini che ebbero sviluppi clamorosi. Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all'epoca si usava in politica. Il Pci era finanziato dall'Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori. Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell'epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l'impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene. Le toghe cacciano Giuseppe Conte, il dubbio di Vittorio Feltri: è giusto che i magistrati scelgano i leader? Le toghe cacciano Giuseppe Conte, il dubbio di Vittorio Feltri: è giusto che i magistrati scelgano i leader? MASSACRO - La magistratura, con Antonio di Pietro in testa, organizzò un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato. L'intera compagine politica fu accusata di furti, cosicché sparirono la Dc, il Psi, i repubblicani e in socialdemocratici nonché i liberali. Un cimitero. Vi risparmio i dettagli della strage avvenuta secondo criteri che a distanza di anni appaiono grossolani. Craxi e Forlani, in particolare, furono massacrati. La Repubblica si inginocchiò alla magistratura, lasciando che l'impianto istituzionale che aveva favorito la rinascita postbellica del nostro Paese andasse a ramengo. Le conseguenze sono note e hanno provocato una crisi nel nostro sistema amministrativo da cui non siamo ancora riusciti a uscire. I CONSIGLI DI AFELTRA - La narrazione sommaria di questi fatti dimostra che la cosiddetta Prima Repubblica fu assassinata dalle toghe senza fatica, perché essa si arrese senza neanche tentare di reagire. L'unico che protestò con veemenza fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. All'epoca dirigevo da un paio di mesi L'Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempila prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po' di merda (testuale). La ricetta funzionò. Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo. Li denuncio, molestie sessuali: la bomba di Matteo Renzi contro i giudici che lo vogliono processare "Li denuncio", molestie sessuali: la bomba di Matteo Renzi contro i giudici che lo vogliono processare IL CINGHIALONE - Cominciarono gli arresti, i suicidi. Le vendite dell'Indipendente si impennarono e mi indussero ad insistere sul caso che divenne nazionale, internazionale addirittura. Scrivevo articoli al fulmicotone in appoggio alla procura di Milano, costringendo i miei colleghi a venirmi appresso, dapprima timidamente, poi usando la grancassa. Il mio giornale andava a ruba e io godevo, non mi importava nulla del pressappochismo delle toghe. Ero invasato, eccitato. Il soprannome Cinghialone affibbiato a Craxi lo inventai io, e ancora me ne vergogno. Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo "un tanto al chilo". In quegli anni covava nelle gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'. La mia indole di direttore in cerca di successo era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali. Renzi, Boschi e Lotti alla sbarra. Tsunami giudiziario su Italia Viva: finanziamenti, perché li vogliono processare "Renzi, Boschi e Lotti alla sbarra". Tsunami giudiziario su Italia Viva: finanziamenti, perché li vogliono processare FRUTTI PEGGIORI - Sta di fatto che quella stagione fu devastante, aprì le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima, quella in cui viviamo malamente con una classe politica assai peggiore della precedente. La parentesi berlusconiana ci ha illuso di essere tornati alla normalità, ma sappiamo come e perché Silvio innocente sia stato castigato con le stesse armi giudiziarie servite per uccidere la prima Repubblica. Oggi la classe politica è di infimo livello, la colpa è collettiva, anche mia. Mi scuso coi lettori se ho ecceduto nel menare le mani, ma ho qualche attenuante: mi prudevano.

Le liti nei partiti e tra alleati, insulti a chilometro zero

di Antonio Polito | 10 febbraio 2022 Nessuno si fida di nessuno: forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia La pugnalata alle spalle, il tradimento, il complotto, l’abiura, l’autocritica. Il dizionario della lotta politica, in pieno XXI secolo e nonostante un governo di unità nazionale, rispolvera le parole e i toni della guerra fredda. Di un tempo in cui la delegittimazione tra avversari poteva almeno essere giustificata dallo scontro epocale tra visioni del mondo contrapposte. Così, se Di Maio non è d’accordo con il capo del suo partito, è perché è un essere «a forma di poltrona», è un «traditore», è «il Renzi del M5S» (non è chiaro se nella similitudine Conte ne sia il Bersani). E Di Maio, per difendersi, deve metterla anche lui sul piano della dirittura morale, per spiegare che pur avendo contrastato l’elezione di Elisabetta Belloni, capo dei Servizi, a capo dello Stato, lei è sua «sorella» (addirittura!), e garantire che le è stata sempre «leale», in un singolare capovolgimento dei ruoli per cui è il ministro della Repubblica che giura lealtà al funzionario. Giorgia Meloni, d’altra parte, non è più «disposta a fare buon viso a cattivo gioco», dove il cattivo giocatore, si direbbe quasi il baro, è Salvini, perché prende i voti del centrodestra e poi se li spende col centrosinistra, e d’ora in poi, se vuole ancora avere rapporti con lei, deve dare «garanzie» di non tradirla di nuovo alla prima occasione. «Stia all’opposizione senza romperci troppo i coglioni», aveva dal canto suo intimato il Capitano, anche lui incline all’uso politico dell’indignazione. E lo scontro non risparmia nemmeno i minori. Perché se la Meloni dice che non vaccina la figlia, vuoi che Salvini non corra ad annunciare che nemmeno lui vaccina la figlia, e Tajani invece che la vaccinerebbe subito, se solo ce l’avesse una figlia piccola? Poveri ragazzi, privati della privacy fin dalla più tenera età. Non si capisce fino a che punto i politici stiano imitando lo stile dei social, o i social abbiano assorbito quello dei politici; in una logica paranoica che prima o poi porterà qualcuno a definire gli avversari «pulci nella criniera del cavallo di razza», come fece Togliatti settanta anni fa con due dirigenti del Pci in dissenso, Magnani e Cucchi, bollati come «magnacucchi» (la infamia sul «venduto» funziona sempre: la colf di uno dei due espulsi si licenziò pur di non restare al servizio di un «traditore»). Ma mentre nel passato di solito ci si insultava tra nemici, oggi lo si fa molto spesso tra alleati o anche tra compagni dello stesso partito. Con il risultato che gli elettori, il popolo costantemente evocato e vezzeggiato, viene indotto a ritirarsi sdegnato da una competizione politica sempre più vuota di idee e piena di potere. Perché se Conte e Di Maio non si fidano l’uno dell’altro, se Meloni e Salvini non si fidano l’una dell’altro, se Renzi non si fida dei magistrati che lo stanno indagando, e i sovranisti non si fidano dei centristi che non votano la Casellati, e i leader non si fidano dei loro stessi ministri in odore di «poltronisti»; ma come pensate che gli elettori possano fidarsi di tutti loro, e fidarsi del Parlamento e del processo democratico, e affollare le urne quando è il momento? È infatti sulla fiducia che è basata la «grandiosa invenzione del sistema rappresentativo», il frutto migliore della Rivoluzione francese: il popolo esercita la sovranità attraverso una delega ai suoi rappresentanti, confermandogliela o ritirandola a scadenze fissate dalla legge. Forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia. Gli elettori vengono trattati da spettatori di un numero circense, eseguito da quegli stessi leader che ogni giorno rivendicano «il primato della politica», il bisogno che «torni in cattedra», e denunciano il complotto tecnocratico che mira a screditarla per prenderne il potere. Medico, cura te stesso, dice il Vangelo. E di certo i partiti sembrano tutti aver bisogno di un bagno di umiltà e di identità. Umiltà per ricordarsi che la vita pubblica di una nazione è più grande delle loro pretese. Identità per fermarsi un attimo a riflettere su chi sono (visto che le coalizioni non ce lo dicono più), che cosa vogliono (non basta volere ciò che i sondaggi dicono che la gente vuole), e quali regole si danno per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come prescrive la Costituzione (invece di passare il tempo dai notai, come se fossero società a responsabilità limitata).

domenica 6 febbraio 2022

Si dice "ciliege" o "ciliegie?

Marta Alicja Folęga Ha studiato presso Università di Bologna10 mesi Si dice "ciliege" o "ciliegie? Nei plurali dei sostantivi femminili terminanti con le sillabe -cia o -gia non accentate, la grafia segue di solito una regola pratica: – si conserva la i quando la c e la g sono precedute da vocale acacia ▶ acacie ciliegia ▶ ciliegie – si elimina la i quando c e g sono precedute da consonante goccia ▶ gocce spiaggia ▶ spiagge -CIA, -GIA, -SCIA, PLURALE DEI NOMI IN in "La grammatica italiana" Nei plurali dei sostantivi femminili terminanti con le sillabe -cia o -gia non accentate, la grafia segue di solito una regola pratica: – si conserva la i quando la c e la g sono precedute da vocale acacia ▶ acacie ciliegia ▶ ciliegie – si elimina la i quando c e g sono precedute da consonante goccia ▶ gocce spiaggia ▶ spiagge Si tratta di una questione puramente ortografica: al plurale, infatti, la i non viene pronunciata (come nel singolare) e non serve neanche a indicare la corret https://www.treccani.it/enciclopedia/cia-gia-scia-plurale-dei-nomi-in_%28La-grammatica-italiana%29/ 117.903 visualizzazioniVisualizza 232 voti positiviVisualizza 2 condivisioni

IO GRIDO 5 stelle polari

Febbraio 5, 2022 Focus di Beppe Grillo – Il movimento è nato nel 2009, ma è stato concepito sul volgere del millennio. Oggi è un giovane Post-Millennial con le paure e le speranze della sua generazione. Le prime per un mondo sempre più precario e fragile, devastato dallo sfruttamento delle risorse, intriso di un’avidità straripante, incapace di dare prospettive ai giovani. Le seconde per le persone semplici, la passione civile, il rifiuto di un modello di sviluppo basato sulla dissipazione. La vecchia classe dirigente non comprendeva – né comprende ancora – queste istanze, anche perché sono tutte in opposizione alla cultura dei Boomers, da cui dipendono molte ragioni del nostro disfacimento: da idealisti di un mondo più equo, solidale e sostenibile hanno finito per tradire sé stessi – e tradirsi fra loro – fino al punto di saccheggiare il presente come se non esistesse il futuro. Oggi assistono sbigottiti e increduli alla Great Resignation di chi ha lasciato il lavoro per vivere, piuttosto che vivere per lavorare. Siamo stati accusati di toni aspri verso la vecchia classe dirigente, ma non abbiamo fatto altro che esprimere ciò che pensava (e pensa ancora) la gente comune, che non ne poteva (e ancora non ne può) più. Tant’è che spunta sempre qualche “vecchia volpe” che – ora promettendo una scarpa o un condono, ora minacciando una rottamazione senza incentivi, ora inghiottendo un’italica salsiccia e tuonando contro i wurstel – sfrutta questo sentimento popolare per salire al potere e chiudersi nella fortezza al posto di (o insieme a) chi lo ha preceduto. Il movimento è stato accusato della stessa involuzione e di aver rinnegato i valori su cui è nato. Quest’accusa ricorda la parabola della trave e della pagliuzza, come se gli errori degli altri giustificassero i propri. E ben più gravi, tra l’altro, perché fatti da adulti smaliziati e non da giovani visionari e ingenui. E se l’alternativa deve essere il cinismo, rivendichiamo pure la nostra ingenuità, che potrà forse inciampare in una realtà più prosaica, ma resta anche il presupposto imprescindibile di un cambiamento che “appare impossibile, fino a quando non è fatto”. Così chi mai avrebbe potuto immaginare che le nostre visioni del mondo sarebbero state le stesse del piano di rilancio dell’Unione Europea e del PNRR? Chi mai avrebbe previsto che una nuova forza riuscisse ad avviare un percorso di autoriforma della classe politica al punto di farla rinunciare ad alcuni dei (sebbene non tutti i) suoi privilegi più insopportabili? Chi avrebbe sospettato che un’idea visionaria come quella del reddito di cittadinanza – sostenuta perfino dagli economisti più liberali – avrebbe trovato “cittadinanza” proprio in uno dei paesi più corporativi dell’occidente? Non tutto è andato come avremmo voluto, ma nessuno può negare che molti dei cambiamenti realizzati siano stati rivoluzionari. Alla spocchia e alla sufficienza di chi ci disprezza opponiamo la semplicità di chi ci ringrazia. Che è poi la semplicità nostra e delle nostre idee, rispetto alla presunta competenza di sedicenti ottimati che vivono di politica da quando hanno i calzoni corti, senza avere mai fatto uno dei lavori umili dei nostri, che per questo vengono pure derisi. Fra i tanti travisamenti – se non mistificazioni – di questa nostra identità, c’è il teorema del nostro rifiuto della competenza, come se la competenza fosse inconciliabile con i desideri della gente comune. A prescindere dal fatto che l’istruzione media dei nostri è superiore a quella dei nostri avversari, la competenza non è certo l’arguzia delle “vecchie volpi”, la cui unica capacità dimostrata è di aggrapparsi al potere, se non di restare sulla linea di galleggiamento. La vera competenza, per noi, deve essere cercata nella società civile da cui proveniamo, fra i professionisti, gli imprenditori e i manager, vale a dire fra chi ha dimostrato di saper fare, e non di far sapere. Questa nostra rivoluzione democratica è oggi chiamata a passare dai suoi ardori giovanili alla sua maturità, senza rinnegare le sue radici ma individuando percorsi più strutturati per realizzarne il disegno. La nostra visione del mondo è sempre la stessa: vogliamo costruire un futuro più sostenibile, equo, partecipato, accessibile e digitale. Cinque stelle polari che ricordano le cinque parole chiave delle proposte di Italo Calvino per il nuovo millennio, e che vorremmo oggi realizzare con indicazioni concrete e strutturate. 1. Leggerezza Ripensare al modello di sviluppo, passando da un modello “pesante” e ipertrofico – che potremmo chiamare dalla “culla alla discarica” – a un modello “leggero” e sostenibile – che potremmo chiamare “dalla culla alla culla” – da non confondere con un modello di “decrescita felice” ma da identificare piuttosto nell’economia circolare. Proposte: (1) tassa automobilistica basata sui consumi effettivi (di strada, di combustibili fossili, etc.) e non sulla cilindrata delle vetture. Grazie alla geolocalizzazione delle vetture il suo gettito potrebbe essere indirizzato, in tutto o in parte, alla manutenzione delle strade su cui più viaggiano, anche per dare un senso di partecipazione al costo sociale del trasporto su gomma; (2) imposta sui rifiuti proporzionale ai rifiuti (non riciclabili) generati, come avviene in Svizzera; (3) IVA proporzionale all’impronta ambientale dei prodotti e servizi acquistati; (4) incentivi per le imprese che realizzino centri di smart working vicini ai propri dipendenti 2. Rapidità Realizzare un sistema di attuazione delle regole rapido e decentrato, anche attraverso la mobilitazione e la partecipazione dei cittadini. Proposte: (1) incentivi privati per la tutela di interessi pubblici, analogamente a ciò che avviene negli Stati Uniti con le class actions, le azioni sociali di responsabilità dei soci di minoranza e i whistleblowers; (2) favorire la sussidiarietà orizzontale nell’erogazione di servizi pubblici, anche attraverso enti del terzo settore e/o risorse umane che godono di ammortizzatori. 3. Esattezza Realizzare un sistema di regole certe e prevedibili. Proposte: (1) realizzare sistema le cui sentenze siano più coerenti per favorire una migliore previsione dell’esisto dei contenziosi; (2) estendere l’istituto dell’interpello in materia fiscale ad altri ambiti della pubblica amministrazione; (3) libertà di accesso ai fornitori di servizi pubblici di diversi territori per favorire la competizione anche nel settore pubblico. 4. Visibilità Assicurare trasparenza dei (e accesso ai) dati personali. Proposte: (1) obbligo di comunicare i dati personali degli interessati a una “casella digitale” (repository) certificata da cui gli interessati potrebbero: (a) trovare in un unico indirizzo i titolari di trattamento dei dati che li riguardano; (b) esercitare tramite il medesimo indirizzo i diritti che già spettano loro in base al GDPR o che potrebbero spettar loro ai sensi di nuove norme; (c) rendere disponibili tali dati ai soggetti che ne facciano richiesta; (2) riordinare gli obblighi informativi al fine di alimentare database pubblici fruibili da imprese in un regime di accesso aperto. 5. Molteplicità Estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alla crescita della società civile. Proposte: (1) estensione dei referendum consultivi, per esempio come avviene in Svizzera da decenni; (2) rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione; (3) coinvolgimento dei percettori di ammortizzatori sociali in attività di utilità sociale. image_pdfScarica la pagina in PDF

Lo Stato, l’incuria e l’italiano oscuro delle leggi

OPINIONI di Sabino Cassese | 05 febbraio 2022 Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di «antilingua», che arriva persino a produrre «mostri linguistici La Gazzetta ufficiale di venerdì 4 febbraio ha pubblicato il decreto legge sulle certificazioni verdi Covid-19. Questo regola tre materie: la durata della validità dei certificati per chi risiede in Italia e per chi viene dall’estero e la loro efficacia nella zona rossa; gli spostamenti da e per le isole e il trasporto scolastico; la gestione dei casi di positività nelle scuole. Si tratta di materie che non presentano un grado di difficoltà simile a quello affrontato dal Georg Wilhelm Friedrich Hegel nella «Fenomenologia dello spirito». Tuttavia, i redattori del decreto sono riusciti nell’ardua impresa di rendere la lettura del decreto altrettanto difficile a quella dello studio dell’opera del grande filosofo tedesco. Per farlo, hanno dovuto condensare nei soli sette articoli del decreto ben dieci rinvii ad altri articoli di ben sette altri decreti o leggi e scrivere frasi ricche di parole, che in qualche caso, sfiorano il centinaio. Questo richiede al lettore di procurarsi altri sette atti con forza di legge per comprendere questo decreto, nonché uno sforzo particolare per giungere al termine delle centinaia di parole costrette in una frase (il noto linguista Tullio De Mauro aveva scritto che per esser leggibili le frasi non dovrebbero superare le 25 parole). È importante sapere che il decreto, datato 4 febbraio, è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione, quindi ieri 5 febbraio, e che fa «obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare». Quindi, ha richiesto a una cinquantina di milioni di residenti nel territorio della Repubblica italiana di dotarsi in ore notturne di una piccola biblioteca giuridica e di molta pazienza per completare il «puzzle» degli incastri di norme che rinviano l’una all’altra. Per frapporre maggiori difficoltà all’accesso alle norme, poi, il sito ufficiale del governo, alle ore 17 di ieri 5 febbraio, nella sezione intitolata «Covid-19 le misure adottate dal governo» non conteneva alcun riferimento al decreto legge del 4 febbraio. Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di «antilingua», che arriva persino a produrre «mostri linguistici» (queste sono espressioni che possono trovarsi nel libro di Michele Cortellazzo, Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione, Roma, Carocci, 2021; lo stesso autore aveva pubblicato, con Federica Pellegrino, una Guida alla scrittura istituzionale, Roma – Bari, Laterza, 2003). Altri linguisti si sono anche affacciati fuori d’Italia e hanno studiato l’italiano giuridico dell’Unione europea e della Svizzera (così Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci, 2021). Infine, lo Stato italiano, nel 1994, aveva pubblicato un Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposte e materiali di studio, edito dal Poligrafico dello Stato ed ora facilmente rintracciabile «on line», nel quale era spiegato come scrivere le leggi e i regolamenti. Questo ulteriore esempio di incuria dello Stato suscita alcune domande. La prima è: se lo Stato comunica in questo modo con i cittadini, che può aspettarsi dai cittadini? La seconda è: se questo non è un argomento che divide i cittadini (penso che non vi sia forza politica che ritenga che la legge debba essere oscura) come è possibile che si continui con questo pessimo andazzo? Poiché il lupo perde il pelo ma non il vizio, termino con tre proposte. Primo: distribuire questo o un altro similare decreto nelle scuole e invitare gli insegnanti di italiano a chiedere alle scolaresche di riscrivere in italiano comprensibile queste norme. Secondo: acquistare, a spese del Tesoro, duecento copie di una decina di libri di linguisti sul linguaggio legislativo e burocratico, regalarli agli autori di questi scempi, invitarli a leggerli e interrogarli dopo un mese, per accertarsi che abbiano appreso. Terza sommessa e trepida proposta: uomini politici e alte autorità dello Stato, prima di firmare questi decreti legge, oltre a interrogarvi sulla loro opportunità e legittimità, perché non vi chiedete come potrebbero essere resi comprensibili? COVID 19 LINGUAGGIO