Pagine

domenica 27 giugno 2021

Staino: "A un certo punto quel miliardo di cinesi sparì"

CULTURA 26/06/2021 16:39 CEST Il vignettista all'HuffPost rievoca il suo periodo maoista in occasione dei cent'anni del Partito Comunista cinese:" Ci dicevano: siete quattro gatti. Rispondevamo: al nostro fianco c’è un miliardo di cinesi..." By Federica Fantozzi - STAINO - “A fine anni Sessanta mi ero iscritto al Partito Comunista d’Italia Marxista Leninista, andavo in piazza agitando il libretto rosso di Mao. Ci dicevano: siete quattro gatti. Rispondevamo: al nostro fianco c’è un miliardo di cinesi. Ma a un certo punto quel miliardo sparì”. Sergio Staino, classe 1940, è uno dei più famosi vignettisti politici italiani. Dalla sua penna è uscito Bobo, il militante comunista (e post-comunista) che da quarant’anni sopporta sospirando le decisioni dei vertici. Ama le sfide: critico da sinistra, nel 2016 ha accettato di dirigere l’Unità renziana (non è finita bene); ateo dichiarato, pubblica la serie Hello Jesus su “Avvenire”. Nel suo ultimo libro “Storia sentimentale del Pci. Anche i comunisti avevano un cuore” (Piemme) ripercorre – tra incanto e disincanto - la sua lunga formazione politica: Togliatti e Berlinguer, Castro e Che Guevara, l’Urss e la Cina. Il Partito Comunista cinese compie cent’anni di vita. Lei no, ma Bobo gli auguri glieli farà? Mi viene in mente la prima vignetta di Bobo in assoluto. Mi misi al tavolino da disegno la mattina del 10 ottobre 1979. Ero uscito a maggio dal Partito Marxista-Leninista e avevo passato mesi in campeggio con i compagni. Volevo disintossicarmi, pensare ai bagni e non alla politica. Ma non ero in condizioni economiche floride: insegnavo educazione tecnica a scuola, non potevo ancora sposare Bruna, che è peruviana… Pensai di fare il disegnatore satirico, non politica ma umorismo sociale. Mi dissi: tra un anno tirerò le somme e vedrò se riesco a sbarcare il lunario. Insomma, non era il momento più felice. Povero Bobo. Gli ho trasmesso il mio atteggiamento dell’epoca: avevo 39 anni, ne avevo trascorsi dieci a propagandare la Cina in lungo in largo ed ero rimasto con un pugno di mosche. Avevo la sensazione di aver perso tutti i treni. Lo disegnai alla macchina da scrivere un po’ frustrato. Diceva: “Tizio lo hanno assunto in banca, Caio a Panorama...”. Insomma, tutti si erano piazzati tranne Bobo: “Mi sento come Gastone di Petrolini. Solo che a lui lo ha rovinato la guerra, a me la Cina”. Il suo alter ego a fumetti è nato maledicendo la Cina. Una bella nemesi. È stato difficile? Sono rimasto mezz’ora con la penna sospesa prima di disegnarlo. Mi vergognavo tantissimo di essere stato fregato dalla Cina, ma era vero. Mi avevano spinto a una visione assurda come se la rivoluzione fosse dietro l’angolo. Quando ho scritto la parola Cina è stato come stappare una bottiglia di champagne. A quel punto ho disegnato 50 strisce in 15 giorni, una più efficace dell’altra. Una liberazione. Come era nato quell’amore finito così male? La mia famiglia era piccolissimo-borghese, in casa c’era un’atmosfera comunista, a 16 anni mi schierai con l’Urss contro gli operai a Budapest. Un po’ più tardi guardai altri lidi: Cuba, Castro e Che Guevara, poi la guerra del Vietnam. Certi dirigenti del partito che con gli occhi di oggi trovo bravi, mi sembravano troppo socialdemocratici, “miglioristi”. E nell’elemento estremo della gioventù si incuneò la propaganda cinese: mi abbonai alla loro rivista, mi arrivava a casa in francese, “La Chine”. Era il ’67, mi stavo laureando con una tesi sulla contrapposizione tra città e campagna. Conobbi due donne fondamentali che mi appassionarono alla Cina: Enrica Collotti e Joyce Lussu. Credevo a tutto quello che sentivo. E si iscrisse al Partito Comunista d’Italia Marxista Leninista. Era l’unico su quelle posizioni, il segretario era Fosco Dinucci. Era una setta, ma veniva ricevuta da Mao in persona. Alle pareti c’erano le foto con tutti i mandarini del partito cinese. Ne nacquero altri, anche “Servire il Popolo” di Brandirali, ma le uniche delegazioni ricevute a Pechino erano le nostre. C’è stato un momento in cui l’illusione è crollata di fronte alla realtà? O è stato un percorso graduale? Per me è stata la visita di Nixon in Cina nel ’72, l’alba di una diversa direzione del Paese verso Occidente. A quell’epoca noi andavamo in piazza a brandire il libretto rosso, che è una somma di luoghi comuni del settarismo ma ci sembrava meraviglioso. Persino nella semplicità del linguaggio che – pensavamo – poteva essere compreso dai contadini e dai proletari. Ci dicevano: siete quattro gatti. Rispondevamo: macché, abbiamo a fianco un miliardo di cinesi. A un certo punto quel miliardo sparì. Non ci chiamavano più, non ci invitavano più. Con noi rimase solo l’Albania. Lei ha scritto un libro molto critico su quell’esperienza. Ma il progresso non ha bisogno anche delle utopie? Non mi sono più riconosciuto in nulla della storia di Mao, ma ho riscoperto l’utopia solidale negli anarchici. Noi italiani ed europei abbiamo un’utopia splendida, da lì sono nati i partiti socialisti e comunisti. Non rinnego niente, ma oggi mi sento anarchico-riformista. Sono due ideologie che si compensano: l’anarchia da sola finisce nelle Brigate Rosse, il riformismo da solo finisce in corruzione. Sembra un ossimoro ma non lo è. A proposto di ossimori, a fare gli auguri al Partito comunista di Pechino sono stati Grillo e D’Alema… Considero Grillo una calamità politica, mi dispiace che anche persone stimabili non ne colgano l’egoismo e i valori anti-solidali. Nonostante l’impegno, da quel lato non verrà nulla di buono. A D’Alema ho creduto, mi ha fregato e l’ho perdonato tante volte, ma alla fine ho capito che è stato il peggior danno per la sinistra italiana del Novecento. Lo ha perduto la sua presunzione, come Renzi. Ma rispetto a quest’ultimo, almeno D’Alema pensava di agire per il bene del popolo.

Nessun commento:

Posta un commento