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giovedì 3 giugno 2021

Dal Csm alla separazione delle carriere: guida ai referendum di Lega e Radicali

Depositati 6 quesiti sulla giustizia. Si chiede anche di modificare la norma sulla responsabilità civile dei magistrati By Federica Olivo Uno striscione celeste con scritta blu - referendum giustizia - davanti al Palazzaccio nel giorno del deposito dei quesiti. Sono sei quelli messi a punto dall’insolita coppia Radicali-Lega. In mattinata sono stati portati alla corte di Cassazione e a luglio inizierà la raccolta di firme - ne servono 500mila - perché il referendum possa effettivamente svolgersi. Previo, naturalmente, via libera della della Suprema corte e della Corte costituzionale. La prima, attraverso l’ufficio centrale per il referendum, dovrà accertare che ci siano tutti i requisiti formali perché questo possa svolgersi. Pensiamo ad esempio al numero delle firme, alla loro autenticità. La seconda, invece, dovrà valutare l’ammissibilità dei quesiti. Accertando, quindi, che gli interrogativi che si vogliono proporre ai cittadini non siano contrari alle regole stabilite dalla Costituzione per il referendum. Solo a quel punto la consultazione potrà effettivamente svolgersi. L’iter insomma è lungo e non sempre arriva agli ultimi step. Quello del referendum proposto dai Radicali e da Salvini è solo al principio, ma l’iniziativa sta già facendo molto discutere. Con una parte del Pd che apre all’idea e un’altra parte che si oppone. Ricordando che ci sono già delle riforme, tre, in cantiere sulla giustizia. Nello specifico i progetti andrebbero a intervenire sul processo penale - da poco più di una settimana è stata presentata la relazione della commissione nominata da Marta Cartabia, sul processo civile - il governo ha già presentato un maxiemendamento - e sul Csm - oggi scade il termine per gli emendamenti, domani ci sarà un incontro tra la Guardasigilli e i capigruppo. Ma cosa prevedono i quesiti che già stanno facendo tanto discutere? Sono sei e abbracciano alcuni dei temi più spinosi e divisivi nel mondo della giustizia. Vediamoli uno a uno. 1 - Il primo quesito riguarda la responsabilità civile dei giudici. Quello della responsabilità delle toghe che, nell’emettere una sentenza o comunque nel corso del processo, creano un danno alla persona che subisce quell’iter processuale è un tema molto dibattuto. Ad oggi la legge prevede che la persona a cui è arrecato un danno possa rivalersi solo contro lo stato. Se la maggioranza dei votanti rispondesse “sì” a questo quesito il riferimento allo Stato andrebbe eliminato, chiamando direttamente in causa il magistrato che ha commesso questo errore. Con questa operazione si andrebbe ad allargare il raggio della responsabilità. È prevista, infatti, l’eliminazione della dicitura “limitatamente ai fatti che costituiscono reato”. Chi si oppone alla modifica della legge sulla responsabilità civile dei magistrati sottolinea che previsioni diverse potrebbero mettere a rischio l’indipendenza del potere giudiziario e la serenità delle decisioni. C’è chi, invece, da tempo sostiene che la norma vada cambiata. Tra questi Enrico Costa, parlamentare prima di Forza Italia e ora di Azione, che ha fatto sapere che negli emendamenti presentati dalla sua formazione politica alla riforma del Csm c’è anche un intervento sul tema. Questo il testo: Volete Voi che sia abrogata la l. 13 aprile 1988, n. 117 (“Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. art. 13, rubrica, limitatamente alle parole “per fatti costituenti reato”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa”; comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”? 2 - Il secondo quesito riguarda un altro tema estremamente divisivo: quello della separazione delle carriere. Sono decenni che si dibatte sull’eventualità di dividere le strade della magistratura requirente - le procure - e della magistratura giudicante. E di impedire il passaggio - che ad oggi può avvenire al massimo quattro volte e non nello stesso distretto di corte d’appello - da pm a giudice e viceversa. Le toghe sono in linea di massima contrarie a questa eventualità perché lamentano il rischio che i pm possano essere sottoposti al potere politico. I fautori della separazione, invece, sostengono che dividere le strade di queste due figure, sarebbe utile. Perché spezzerebbe un legame, tra pm e magistratura giudicante che - in alcuni, immaginiamo rari, casi - potrebbe essere dannoso per gli imputati. Pensiamo, in astratto, al pm che accusa un indagato e ne chiede la custodia cautelare e al gip che deve esprimersi nel merito. Per i fautori della separazione delle carriere, fare in modo che tra queste due figure non ci sia un rapporto confidenziale renderebbe più sana tutta la macchina processuale. Un intervento interessante in questo senso è stato fatto di recente da Henry John Woodcock, noto pm che - a sorpresa - ha sposato la possibilità di separare le carriere perché, ha scritto in un editoriale sul Fatto quotidiano, renderebbe il sistema più trasparente. Il testo del secondo quesito è molto lungo, se ne riporta un estratto: Volete Voi che siano abrogati: il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, di approvazione dell’“Ordinamento giudiziario” nel testo allegato al medesimo regio decreto e altresì risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della la magistratura”; la l. 4 gennaio 1963, n. 1 (....) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il d. lgs 30 gennaio 2006, n. 26 (...) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: Art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il d. lgs. 5 aprile 2006, n.160 (....), della legge 25 luglio 2005, n. 150) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, relativamente alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti”; art. 13 comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non e` consentito all’interno dello stesso distretto, ne´ all’interno di altri distretti della stessa regione, ne´ con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. 3 - Il terzo quesito riguarda la custodia cautelare. Ci sono dei casi in cui il giudice può stabilire che l’indagato - o una persona condannata non in via definitiva - resti in carcere nel corso delle indagini, o prima che la sentenza a suo carico si cristallizzi. Ciò accade se si ritiene che ci sia un pericolo di fuga del soggetto, il rischio di reiterazione del reato o il pericolo di inquinamento prove. C’è però un problema: il numero di persone che sono in custodia cautelare. Troppe, secondo chi a questi temi è attento. In un’intervista ad Huffpost di qualche mese fa, il garante dei detenuti, Mauro Palma, aveva evidenziato come le persone messe in carcere in attesa della sentenza di primo grado fossero il 13/14% di tutta la popolazione detenuta. Una cifra consistente. Se il conteggio si estende a chi è istato condannato in primo grado ed è in attesa di un giudizio definitivo, il numero sale di molto. Arrivando addirittura a un terzo dei detenuti. Alcuni di loro si rivelano poi - a fine processo - innocenti. E si ‘scopre’ sono stati in carcere senza alcuna ragione. Solo nel 2020 lo Stato ha riconosciuto il diritto al risarcimento a ben 750 persone che erano state ingiustamente detenute. In trent’anni in questa situazione si sono trovate almeno 30mila persone. Sono cifre a ribasso, che escludono i soggetti a cui - per un cavillo normativo - il risarcimento non è stato riconosciuto. Il quesito proposto dai Radicali e dalla Lega ha l’obiettivo di ridurre i casi in cui può essere concessa la custodia cautelare. Ecco il testo: Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 22 settembre 1988 n. 447, “Approvazione del Codice di Procedura Penale” e successive modificazioni, limitatamente all’articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali é prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni.”’? 4 - Il quarto quesito va invece a incidere sulla cosiddetta Legge Severino. Si tratta del provvedimento, datato 2012, che vieta a chi è stato condannato in via definitiva per delitti non colposi di poter ricoprire incarichi di governo o di candidarsi alle elezioni. Si tratta della legge che comportò la decadenza da senatore per Silvio Berlusconi, dopo la sentenza Mediaset (ora al vaglio della Corte europea dei diritti dell’Uomo). L’ex premier poi è stato riabilitato ed ha potuto candidarsi al Parlamento europeo. Nel quesito referendario si propone l’abrogazione di questa legge, ecco il testo: Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190»? 5 - Il quinto quesito riguarda le elezioni del Consiglio superiore della magistratura. Nello specifico si chiede di abrogare la previsione delle liste (di almeno 25 toghe) a sostegno delle candidature di chi aspira a diventare consigliere del Csm. Una proposta che pare una diretta conseguenza dello scandalo Palamara e delle logiche di corrente che ha contribuito a svelare. Ecco il testo: Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura”), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, all’articolo 25, comma 3 limitatamente a “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, né possono candidarsi a loro volta”? 6 - Il sesto e ultimo quesito riguarda i Consigli giudiziari. Sono degli organi, istituiti in ogni distretto di corte d’Appello, che hanno come compito principale quello di valutare l’operato dei singoli magistrati. Possono essere composti sia da avvocati che da magistrati, ma solo questi ultimi hanno il diritto di voto. I fautori del referendum propongono che anche ai membri “laici” sia concesso di votare. Sul tema c’è già stato dibattito nei giorni scorsi, quando anche il Pd ha aperto a una modifica di questo genere. Assolutamente contraria a tale eventualità l’Anm. In una recente intervista ad HuffPost il segretario generale, Salvatore Casciaro, ha spiegato il punto di vista del sindacato dei magistrati. Ma ecco il testo dell’ultimo quesito: Volete voi che sia abrogato l’art. 16 (Composizione dei consigli giudiziari in relazione alle competenze) del Decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 che reca “Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lett. c) della legge 25 luglio 2005 n. 150?

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