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lunedì 24 agosto 2020

Il Pd e la sindrome della subalternità

 

23 AGOSTO 2020

Il vero pericolo che sta correndo il centrosinistra è quello di mostrarsi costantemente "vassallo" di un signore più forte, più convinto delle proprie idee. Ciò che sta accandendo sulla riforma elettorale e sul taglio dei parlamentari ne è una prova evidente
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La subalternità. È questo il vero pericolo che stanno correndo il Pd e il centrosinistra. Mostrarsi costantemente vassallo di un "signore" più forte. Più convinto delle proprie idee. Dal 2018 i Democratici sembrano avvilupparsi in una spirale che porta alla sottomissione culturale. Raramente vivono di luce propria, spesso di quella riflessa. O, per meglio dire, di ombra riflessa.

Senza dubbio il sistema politico del nostro Paese ha subito negli anni una perversa involuzione, che l'ha reso sempre più primitivo. In particolare nel rapporto con l'opinione pubblica sempre più costruito sulla accondiscendenza anziché sulla persuasione. Ma il Pd ha rinunciato al tentativo di fermare o almeno di frenare questa trasformazione. Ha imboccato una scorciatoia. Ha preferito modulare i propri comportamenti e le proprie scelte sulla base dell'avversario di turno. Si rifugia nel concetto del "meno peggio" come se non ci fosse o, purtroppo, non fosse in grado di definire un "meglio".

Per un periodo la destra italiana ha finito per condizionare la sinistra. Una destra che ora è sovranista antieuropeista populista radicale e soprattutto incapace di essere normale come in Germania o in Gran Bretagna. La semplicità del messaggio lo ha reso efficace. Il centrosinistra allora si è sagomato su di essa per fermarla, giustamente. Dimenticandosi che quando ha vinto, lo ha fatto con le proprie ragioni. Adesso la dinamica appare la medesima. Il profilo cui si conforma è quello del Movimento 5 Stelle. Stenta così ad emergere il nucleo della sua natura. Svanisce l'ambizione di una politica originale. Quel che sta accadendo sulla riforma elettorale e sul cosiddetto taglio dei parlamentari ne è una prova evidente.

Il Partito democratico ha votato per ben tre volte in un anno contro la riduzione del numero dei senatori e dei deputati. E solo nel passaggio finale si è espresso a favore. Una capriola incredibile. Apertamente giustificata solo dalla nascita del governo Conte 2. Motivata dallo spettro di un ritorno alla vittoria di Salvini e dall'intesa per il ritorno ad un sistema elettorale proporzionale che avrebbe allontanato quello spettro. Un accordo, peraltro, che ancora non si è realizzato. Molti esponenti del Pd sostanziano questa scelta citando una frase che Alcide De Gasperi pronunciò nel 1946 contro l'opzione presidenzialista durante una riunione dei costituenti democristiani: "Nel contesto politico italiano la scelta presidenzialista favorirebbe l'elezione a presidente di un socialista, sostenuto dall'intero blocco dei voti socialcomunisti". A parte che il quadro di quella fase è imparagonabile all'attuale, il punto è che il segretario Dc non rinunciò alla propria politica per la paura di perdere. Proprio come fece, dall'altra parte di quella barricata, Palmiro Togliatti. Le leadership in politica non contemplano abdicazioni su valori e principi, semmai indicano prospettive e non si adagiano su una sorta di comfort zone che tutela esclusivamente l'esistente.

Tutto questo, allora, non cancella ma ingigantisce l'incoerenza. In particolare non allontana la debolezza degli argomenti addotti per sostenere un eventuale Sì al prossimo referendum costituzionale. Questa cosiddetta riforma sortisce solo l'effetto di mutilare la Costituzione e di renderla irragionevole in alcune sue parti. Ad esempio negli articoli che disciplinano l'elezione del Capo dello Stato (peraltro prossima) in cui la presenza dei delegati regionali sarebbe del tutto sproporzionata rispetto ai parlamentari. Come spesso accade nella nostra storia, siamo un unicum. Stavolta con una miscela di propaganda e demagogia. In Francia dal 1962 al 1988 i componenti dell'Assemblea Nazionale sono addirittura cresciuti da 482 a 577 e i senatori da 321 a 346. In Germania i membri del Bundestag sono 709 e nessuno si chiede se siano troppi.

Senza contare che l'attuale Parlamento non sembra affatto in grado di procedere con una ulteriore riforma che possa limitare questo colpo di scimitarra. Il Pd, dunque, ora deve decidere cosa fare il prossimo 20 settembre. Stabilire se è il partito dei primi tre No o quello dell'ultimo Sì. Deve valutare se stare al governo sia una ragione sufficiente per deflettere dalla propria identità e per acconciarsi su una linea caudataria. O se al contrario sia possibile fare politica senza farsi soffocare dal complesso di essere figli di un Dio minore. Ormai diversi anni fa Norberto Bobbio avvertiva la sinistra italiana: "Discutono del loro destino senza capire che dipende dalla loro natura. Risolvano il problema della loro natura e avranno risolto il loro destino". Il Pd deve ancora fare i conti con la sua natura.

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