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domenica 21 giugno 2020

Gli Stati Uniti e le tante crisi: una tempesta quasi perfetta

L’ANALISI

di Beppe Severgnini | 20 giu 2020
Le crisi concentriche nell’America sempre più divisa. Dalla pandemia al crollo dell’occupazione, lo scontro razziale, le rivolte nelle strade, gli assalti ai monumenti e alla storia, le tensioni di genere, il dilettantismo di Donald Trump. Solo una coincidenza?

Negli ultimi novant’anni, gli Stati Uniti hanno attraversato momenti drammatici: dallo sconforto della Grande Depressione alle incognite della Seconda Guerra Mondiale, dal trauma dell’omicidio di John F. Kennedy alla sconfitta in Vietnam, dalla Guerra Fredda agli attentati dell’11 settembre. Erano crisi separate una dall’altra, anche nel tempo.

Ma sono state affrontate con una certa coesione nazionale; ed esisteva, ogni volta, un fattore esterno. Oggi tutto si mescola e si concentra dentro gli Stati Uniti, sempre più divisi: la pandemia, il crollo dell’occupazione, lo scontro razziale, le rivolte nelle strade, gli assalti ai monumenti e alla storia, le tensioni di genere, il dilettantismo di Donald Trump. Solo una coincidenza?

La risposta è no. Nella storia le coincidenze sono rare. Più comuni sono le connessioni e le concause. Ma gli essere umani tendono a non vederle, perché sono dolorose, e richiedono un’assunzione di responsabilità. Gli stessi media americani evitano di addentrarsi in certe questioni, perché sono spinose, e le vittime di questa vastissima crisi sono suscettibili. Ognuno è impegnato a incolpare gli altri; ma non tollera che gli venga chiesto un esame di coscienza. Una nazione che grida con la testa dentro un sacco. Difficile capire e farsi capire. Quasi impossibile trovare soluzioni.

Il punto di partenza — non la causa di tutto, sia chiaro — è l’elezione alla presidenza di Donald Trump, inadeguato ad affrontare le grandi questioni della nostra epoca: il cambiamento climatico, i rapporti tra grandi potenze, le frustrazioni delle minoranze, le inquietudini della metà femminile della popolazione. Il 45° presidente possiede capacità seduttive, che ha usato con abilità e cinismo. Ma non ha la forza di carattere, né la struttura intellettuale, per affrontare sfide così impegnative. C’è chi lo ha paragonato a Ronald Reagan, a lungo incompreso. Ma Reagan era un semplificatore, capace di sintesi; Trump è un semplicista, incapace di analisi. C’è una differenza.

L’inadeguatezza della Casa Bianca è un elemento centrale, ma non l’unico. Ed è, a sua volta, il frutto di un meccanismo politico anchilosato, che — accantonata l’illusione della presidenza Obama — favorisce persone bianche, anziane e ricche di sponsor (anche Joe Biden rientra nella categoria). Un sistema elettorale obsoleto consente a pochi Stati — Ohio, Michigan, Florida, Pennsylvania, Virginia — di scegliere chi guiderà il Paese per quattro anni. Il voto in California, a New York, nel New England e nel Sud è scontato, quindi irrilevante: questo porta i due grandi partiti a trascurare grandi settori dell’elettorato. Perché preoccuparsi della confusione e dell’inquietudine nelle grandi università, ragionano i repubblicani, se quel mondo voterà comunque democratico? O interrogarsi sul movimento #metoo che, partito come una sacrosanta ribellione femminile, ha sviluppato estremismi e intolleranze? Lo stesso sta accadendo con Black Lives Matter. Partito come la giusta protesta degli afroamericani e di chi ha a cuore i diritti civili, il movimento deve stare attento a non lasciarsi tentare dalla violenza e dall’intolleranza, nonostante le provocazioni. La decisione del presidente Trump di scegliere Tulsa, Oklahoma per un grande comizio non lascia presagire nulla di buono. La città, il 19 giugno 1921, vide il massacro di centinaia di African-Americans che avevano faticosamente raggiunto il benessere economico. Una tragedia che nessuno negli Usa ha dimenticato.

Perché affrontare la questione della brutalità della polizia, se l’elettorato del Presidente non la considera un problema? Malcom Gladwell apre il nuovo libro Il dilemma dello sconosciuto con il suicidio nel 2014 in Texas di Sandra Bland, una brillante ragazza afroamericana di Chicago, in seguito a un controllo della polizia finito male. «Il pregiudizio e l’incompetenza sono due categorie molto utili quando si tratta di spiegare il disagio sociale negli Stati Uniti. (...) Esistono i cattivi poliziotti, esistono i poliziotti prevenuti. I conservatori preferiscono la prima interpretazione, i progressisti la seconda. Alla fine le due posizioni si annullano a vicenda», scrive. Potremmo aggiungere: la grande diffusione delle armi personali rende imprevedibile ogni incontro con la polizia. Gli agenti sono sospettosi e diventano aggressivi; i cittadini reagiscono al sospetto e all’aggressività. L’America sta parlando di questo? No: il tema è tabù per i repubblicani, e scontato per i democratici.

Su questa situazione magmatica è planata la pandemia: prima sottovalutata, poi malgestita. Gli Stati Uniti sono arrivati a 2,3 milioni di contagi e a 121 mila vittime del Covid19. I neri muoiono tre volte più dei bianchi, e il loro dolore s’è aggiunto alla rabbia per i continui soprusi. Ma le manifestazioni nelle strade sono potenziali focolai, ha ammonito l’immunologo Anthony Fauci, consigliere spesso inascoltato. Gli Usa non dispongono di un sistema sanitario simile a quello europeo; molto dipende dagli individui, dai denari, dalle assicurazioni e dal posto di lavoro, che garantisce la copertura assicurativa (ecco perché il crollo dell’occupazione è un dramma nel dramma). A gestire tutto ciò, un uomo come Donald Trump.

Si risolleverà, l’America? Certamente sì: ma è difficile capire quanto, come e quando. Nessuno sa se tornerà quella di prima. Anche gli imperi passano, prima o poi. Ma una cosa è certa: se non ammetterà che i suoi problemi sono collegati, e imparerà ad affrontarli insieme, non ne uscirà.

20 giugno 2020 (modifica il 21 giugno 2020 | 00:01)

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