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mercoledì 20 dicembre 2017

De Rita: «Dove nasce l’odio? Nasce lì, nei giornali…»

"IL DUBBIO"
Francesco Lo Dico
19 Dec 2017 12:21 CET

La riflessione sull’odio portata avanti dal nostro giornale, dopo l’iniziativa del Cnf per il G7 dell’avvocatura, continua con l’intervista al fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, che proprio di recente ha parlato della società del rancore.

«Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia, è un delinquente», amava ripetere Bertolt Brecht. Un adagio che ben si accompagna ai trombettieri delle fake news e ai mestatori in servizio permanente effettivo nelle sentine dei social. Dalla testata di Spada a Ostia alle testate che ogni giorno si abbattono, non meno spregevoli, sulla dignità di cose e persone, è stato un crescendo. L’onda anomala del disprezzo ha travolto istituzioni, ong, calciatori. Ma anche migranti, donne, star e politici stessi, al di là di ogni ragionevole dubbio, e spesso in direzione ostinata e contraria alla verità delle cose. Così che l’iniziativa lanciata a settembre dal Consiglio nazionale forense contro il linguaggio dell’odio, sembra aver assunto – di linciaggio in linciaggio – il carattere di una premonizione. Di quel clima violento segnalato tre mesi fa dal Cnf al G7 dell’avvocatura, e combattuto con vigore su queste pagine da autorevoli interlocutori, l’Italia del rancore descritta di recente dal Censis appare la cartina di tornasole. Tanto che Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Centro studi che da più di mezzo secolo racconta il Paese, tiene a riconoscere al Dubbio un impegno costante ma solitario. «È l’unico giornale italiano – sottolinea il sociologo – che combatte l’odio e la deriva giustizialista che trionfano invece sul resto dei quotidiani nazionali, a colpi di titoloni e mostri in prima pagina che durano il tempo di un giorno, servono a fare qualche spicciolo in più, ma rovinano per sempre la vita agli sfortunati protagonisti della gogna».

Presidente, perché l’Italia e i giornali che oggi ben la rappresentano, è diventata la terra del risentimento?

Le ragioni che lo spiegano sono molteplici. Ma in primo luogo, si può ben dire che l’Italia del rancore descritta nel nostro rapporto è figlia di un incidente storicamente provato. Dopo aver garantito a milioni di persone prospettive di vita migliore negli anni 70, 80 e 90, il nostro ascensore sociale si è bloccato. Così che moltissimi italiani sono rimasti sospesi a mezza strada: non raggiungono il prestigio sociale che desiderano, non diventano qualcuno, e nonostante studi e sacrifici non hanno stipendi migliori né promozioni in vista. E questo li rende frustrati e risentiti: il rancore collettivo è il lutto per quel che non è stato.

Anche i lutti più dolorosi non durano per sempre: l’Italia può uscire dalla rabbia e dalla rassegnazione?

Il ciclo formidabile che per cinquant’anni ha garantito al Paese un certo grado di benessere si è concluso. Di fronte alla crisi, l’eredità di quella stagione prospera ci ha consentito di resistere ma al prezzo di vedere congelata la nostra condizione. Da tempo siamo entrati in una fase transitoria, che può essere superata soltanto con un cambio di prospettiva deciso. Un nuovo paradigma in grado di rompere le molte inerzie che hanno fermato l’ascensore sociale: l’inerzia dell’economia sommersa, l’inerzia delle piccole e medie imprese, l’inerzia del ceto pubblico e dell’urbanizzazione della popolazione.

Eppure la ripresa economica, seppure di entità modesta, è stata finalmente riagganciata da un anno a questa parte. Perché ancora non riesce a tradursi in benefici concreti per la nostra società?

È molto semplice: la nostra è una ripresa per pochi, trainata da pochi. Ne sono protagoniste alcune medie imprese manifatturiere, realtà di respiro internazionale legate alla logistica e industrie vocate all’export che hanno tirato a ritmo indiavolato anche grazie agli specifici incentivi dell’Industria 4.0. Ma in parallelo, è stato fatto molto poco per far ripartire le botteghe dietro l’angolo. Il mercato interno, decisivo per le sorti della maggioranza degli italiani, non ha ripreso slancio. Invece di prenderla di petto, la questione è stata presa di sguincio grazie ai bonus per casalinghe e dipendenti che non hanno funzionato: la maggior parte degli italiani, insomma, non è tornata a sorridere ed è perciò rimasta rancorosa.

È forse questo il limite che non ha premiato l’azione del governo Renzi. C’è un problema di errata percezione politica, dietro l’odio che alimenta la grancassa delle forze populiste?

Il problema di questi ultimi anni è evidente. Prima di agire, chi governa dovrebbe capire quali sono le attese. Ma la politica ha fatto l’esatto contrario. Prima ha fatto gli interventi, e poi li ha comunicati nell’idea che, se venivano presentati bene, andassero incontro ai desideri della gente. Dire che hai dato tanti soldi ma che la campagna di comunicazione non ha funzionato, è un suicidio mediatico e intellettuale. Significa ammettere che dietro le misure non c’era una strategia lungimirante di rilancio, ma solo l’idea che per scatenare la ripresa dei consumi bastasse la propaganda.

E invece si è scatenata ancora di più la rabbia sociale che trova nel linguaggio dell’odio di Lega e Cinque Stelle.

L’ascesa delle forze populiste non è recente. La forza del rancore si è accresciuta negli ultimi dieci anni, quando l’opinione pubblica ha scelto di montare sul cavallo dell’anti- casta, a prescindere da ragioni di appartenenza politica. Non si tratta più di attaccare la casta per motivazioni ideologiche come accadeva negli anni 50, o in funzione di una strategia economica come avveniva al tempo delle liberalizzazioni di Berlusconi e di Bersani. Contro la casta si è scatenato un odio cieco e totalizzante, che ha unificato i risentimenti di tutti gli indignati e ha fatto perdere di vista i veri problemi che alimentano l’insoddisfazione.

Dice quindi che chi oggi miete consensi sull’odio per gli avversari politici, per i migranti, per le riforme domani non sarà capace di placare al governo il risentimento sul quale hanno lucrato?

Dico che fare politica in nome della semplice idea di abbattere i privilegi è inutile e illusorio: la storia insegna che abbattuta una casta, ne arriva subito un’altra. Il problema del Paese non è nella casta, ma nella classe dirigente che oggi è priva di professionalità e strategia, non ha il senso del futuro e non è all’altezza dei suoi compiti. Tolta di mezzo la casta, la classe dirigente resta quella che è. Ecco perché sostenevo poc’anzi che per uscire dalla spirale dell’odio occorre un ciclo, anche breve, di radicale rinnovamento.

E come si potrebbe, dato il generale scadimento che descrive?

La politica non è un’arte. La politica è un mestieraccio. Ed è proprio degli odiati mestieranti che ha bisogno prima di tutto. Bisogna ridare spazio a chi ha fatto gavetta nei comuni e nelle sezioni di provincia, riaprire le porte a chi il mestiere lo conosce davvero. Ricordo ancora quello che gridava nelle stanze l’ex ministro Francesco Compagna: “Ladri li vogliamo, ma bravi! ”.

È un tema che ci porta dritti a un’altra variazione sul tema dell’odio. Non è stata forse la furia giustizialista di Tangentopoli a innescare un simmetrico populismo penale che oggi dai tribunali irrompe sui giornali e sui social?

Non sono, come è noto, un nemico dei giornali. Ma devo dire che ci sono ampie responsabilità dei giornalisti, dietro la cultura della politica poliziesca che ha scelto come agenda quotidiana il casellario giudiziario. Molti procuratori coltivano rapporti privilegiati con certa carta stampata, nella banale necessità di mostrare la sera, agli altri soci dei loro Rotary club, di aver fatto qualcosa di importante di cui sui giornali si parla in termini allarmanti. Ai giornalisti del Dubbio va tuttavia il mio attestato di stima: sono i paladini solitari di un’inversione di tendenza che richiede coraggio. Per ristabilire l’equilibrio di giudizio, occorre che i giornali si impongano di rinunciare a qualche copia, in nome di valutazioni più approfondite e intellettualmente oneste.

L’odio e la sproporzione sono dunque gli effetti collaterali di pure strategie commerciali, o c’è anche una matrice culturale dietro la deriva giustizialista?

Quante volte leggiamo che Tizio rischia cinque anni di carcere, salvo poi svanire nel nulla il giorno dopo insieme alla storia allarmante di cui è il temibile protagonista? Il problema che affligge i nostri quotidiani è la smania del titolo, la logica pervasiva dell’evento. Lo aveva capito bene uno dei nuovi filosofi francesi, Jean Baudrillard. “L’evento – diceva – scava la fossa in cui verrà seppellito il giorno dopo”. Ed è proprio così. L’evento prende per un giorno tutto lo spazio possibile, poi il giorno dopo viene sepolto e nessuno se ne occupa più. Quella dei giornali è una catena di eventi che costruisce una storia evenemenziale, e cioè una storia fatta di eventi, che ha un’ottica parziale. La storia non è fatta solo di eventi. È fatta anche da processi lenti, commerciali, tecnologici, religiosi che nessuno sembra aver più voglia di indagare. È per questa ragione che in prima pagina non finiscono i fatti, ma le cose che hanno fatto “evento”. Per il giornalista è una tentazione, una coazione, quasi un obbligo. La necessità di “fare evento” alimenta ogni giorno nuovo risentimento: l’Italia del rancore.

L’Italia del rancore ha trovato nei social la sua più intensa e preoccupante bocca di fuoco: insulti e atti di sciacallaggio rivolti allo zimbello di turno diventano su Twitter trending topic, salvo poi scomparire nel nulla sostituiti da raffiche di mitra verso il prossimo obiettivo.

Nel rapporto del Censis lo abbiamo scritto chiaramente: i social sono l’arena del rancore, il Colosseo del rancore, il circo equestre del rancore. Ma allo stesso tempo osservo che i tweet indignati scompaiono nel nulla dopo pochi minuti. In fondo milioni di cinguetti che spariscono ogni giorno indicano che non servono a niente e a nessuno, se non alla piattaforma che li ospita. Il problema vero non sono i social, ma la società che li popola. Che probabilmente, tweet dopo tweet comincerà a capire quali “eventi” vale davvero la pena discutere, e quali sono invece montati ad arte per fare discutere. Io credo che valga per i social la stessa parabola che ha accompagnato i talkshow: prima hanno spopolato, poi sono diventati marginali perché sono diventati noiosi. Tutti hanno capito che erano piccoli spettacoli da cui non usciva niente di utile per la società e la politica.

Spesso però escono dai palinsesti social cose false e molto dannose che arrecano danni duraturi e riescono a influenzare la politica stessa, come dimostra il caso delle ultime elezioni negli Stati Uniti. Che idea si è fatto delle fake news, che ormai convogliano molti rancori anche nella Penisola?

È un fenomeno recente, di cui confesso di non essermi ancora fatto un’idea precisa. Sono però allo stesso tempo convinto che, da Biden a Renzi, l’argomento è stato finora trattato in modo confuso, e forse anche strumentale. Nutro per l’argomento delle bufale una certa resistenza psicologica. Ho il sospetto che, ancora una volta, quello delle fake news sia un “evento”, un argomento alla moda che come molti altri è destinato a finire nel nulla cosmico dei tweet perduti. Io credo che i social siano la patria del rancore, e che questa patria sia stata fondata dal “vaffa”. Ma credo anche che l’Italia del rancore non sia destinata a durare ancora per molto.

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