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sabato 28 agosto 2021

Perché la razza non esiste

di Marino Niola È il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita 03 AGOSTO 2021 Al mondo non ci sono che due razze, quella di chi ha e quella di chi non ha. Sono parole che Cervantes nel Don Chisciotte, mette in bocca alla nonna di Sancho Panza per riassumere i fondamentali della condizione umana. Siamo nel 1605, al tempo delle colonizzazioni e delle scoperte geografiche, e fra le persone veramente intelligenti il concetto di razza è già obsoleto, un vecchio arnese del pensiero. Buono solo per chi vuol farne un uso contundente. Ieri come oggi. Una “parola malata”, l’ha definita il direttore di questo giornale nel suo editoriale del 30 luglio scorso, proponendo opportunamente di cancellarla dal lessico delle istituzioni. Anche per neutralizzare la tossicità allo stato inerziale che si trova al fondo di questo vocabolo maledetto. Perfino quando viene usato con le migliori intenzioni, come nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Dove il termine viene impugnato dai Padri Costituenti come antidoto esplicito contro quella viralità, quella infezione che aveva ammalato le coscienze al tempo delle leggi razziali. O, meglio, razziste. Come una zavorra della storia, una patologia del linguaggio in grado di resistere agli anticorpi della civiltà e della conoscenza. Che siano le evidenze della ragione. O che siano le certe dimostrazioni della scienza. Che ha un bell’affannarsi a scodellare prove che la razza non spiega un bel niente delle differenze tra gli uomini. Che i nostri comportamenti non sono un prodotto di madre natura ma di madre cultura. Perché gusti e tendenze, passioni e vocazioni, consuetudini e attitudini, eredità e identità sono il risultato dell’ambiente in cui viviamo, dell’educazione che riceviamo, delle influenze che subiamo, delle esperienze che facciamo. E di quello che ciascuno di noi sceglie di essere. Etichettare e trattare gli altri come inferiori, peggiori, traditori, malfattori e “meno umani” di noi, è un atteggiamento che si ripete. Al quale il francese Joseph Arthur Gobineau, nel 1853 offre una sponda teorica pubblicando il Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, vera bibbia del razzismo. Che applica ai popoli e alle società un termine in precedenza usato solo per le razze animali. La “parola malata” infatti deriva dal francese medievale haraz, riferito agli allevamenti degli stalloni da riproduzione. Un’etimologia “bestiale”, che applicata agli umani finisce per produrre una de-umanizzazione della persona. In realtà la questione di fondo resta l’enorme sproporzione tra l’assoluta inconsistenza scientifica della nozione di razza e la sua straordinaria capacità di resistenza storica e politica. A denunciare per primo questa sproporzione è stato Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo di sempre. Che nel 1952, a pochi anni dall’orrore della Shoah, scrive su invito dell’Unesco Razza e storia, un illuminato discorso sugli usi ed abusi della parola razza. E torna sull’argomento nel 1971, sempre su incarico dell’Unesco, con un testo, tradotto immediatamente in italiano da L’Espresso col titolo Il colore delle idee. Dove il grande studioso smonta, uno dopo l’altro, i falsi sillogismi razziali, fondandosi sui risultati delle ricerche scientifiche, unanimi nell’affermare che la razza non esiste. È la cultura invece che determina quel che chiamiamo erroneamente razza e non il contrario. Insomma, è il modo in cui viviamo che ci fa essere ciò che siamo. Non una presunta origine biologica. E comunque l’origine, come diceva il grande filosofo berlinese Walter Benjamin, sta nel fiume delle trasformazioni e rimescola continuamente i materiali della nostra nascita. Li fonde, li confonde, li trasfonde. Lo prova il fatto che il 99% del nostro Dna è comune a tutti gli altri individui del pianeta. E quell’1% è quel che distingue me da mio fratello. E anche me da Beyoncé. E, per venire a noi, quello che ci fa italiani — lingua, tradizioni, costumi, valori, gusti — non si eredita dai geni, ma si acquisisce vivendo con altre persone che tramandano questo patrimonio immateriale. Peraltro, in continuo cambiamento per effetto di scambi, prestiti, ibridazioni, migrazioni, contatti. In sostanza, la razza non esiste sul piano scientifico, ma purtroppo resiste come mito, soprattutto come mito politico. Un motivo in più per cancellarla dal vocabolario del marketing, delle statistiche, delle leggi. E anche dalla Costituzione. Perché è un lemma infetto, una tara inemendabile, un primordiale algoritmo dell’esclusione. Che sposta ogni volta la soglia della differenza per trasformarla in disuguaglianza, individuando continuamente nuovi bersagli. Ebrei o armeni, meridionali o immigrati e via all’infinito. Con l’effetto devastante di sdoganare atteggiamenti inqualificabili. Che adesso una politica che ha perso il senso del pudore difende e diffonde, come l’ennesima mutazione di un virus antico. La variante delta della barbarie. ------- L’iniziativa Un editoriale per dire basta Lo scorso 30 luglio il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha chiesto di bandire la parola “razza” da ogni testo europeo, compreso l’articolo 3 della nostra Costituzione. La redazione aveva infatti rinvenuto tale termine in un regolamento della Ue. Dopo l’articolo di Molinari sono intervenuti Chiara Valerio, Linda Laura Sabbadini, Umberto Gentiloni, Corrado Augias.

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