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domenica 23 febbraio 2020

Indifesi perché smemorati: chi ignora il passato non sa affrontare l’oggi


Una riflessione di Claudio Magris sull’«Alzheimer culturale» che colpisce i giovani: impressiona constatare quanti non sappiano chi fossero Stalin, Hitler, Craxi

Anche le epoche storiche hanno le loro malattie, che contribuiscono non soltanto a far soffrire e morire gli uomini ma pure a caratterizzare la mentalità, la cultura, la visione della vita e del mondo di una civiltà. La peste, dall’antichità di Tucidide a Boccaccio a Manzoni o a Camus; la sifilide che ancora ai tempi di Ibsen si credeva trasmissibile per via ereditaria; l’epilessia e la follia quale morbi sacri pure rivelatori di ineffabili verità; la tisi, l’alcoolismo, l’assuefazione alla droga, il cancro. La penultima malattia epocale, in ordine di tempo, è stata l’Aids. Le devastanti epidemie influenzali — come la spagnola, che fece più vittime della Prima guerra mondiale, e l’odierna paura del coronavirus — creano psicosi e isterie ma non «cultura», non sembrano influire sulla concezione del mondo.

L’ultima malattia epocale in ordine di tempo, quella attuale, sembra essere l’Alzheimer, che — come le precedenti — è all’ordine del giorno con inchieste, statistiche, testimonianze, proposte e tante confusioni relative all’età, ai sintomi, ai rimedi. Al pari delle grandi malattie del passato, pure l’Alzheimer investe il senso della vita, del tempo, dell’amore, come ad esempio nell’ultimo romanzo di Yehoshua. Ma accanto all’Alzheimer individuale o generazionale esiste pure un Alzheimer culturale, sempre più diffuso; una vera malattia mortale per la vita, la società, la politica, l’intelligenza.

Una decina di giorni fa la televisione mostrava alcuni giovani, per strada, cui veniva chiesto chi era — giusto sarebbe dire chi è — Craxi. Nessuno lo sapeva; qualcuno, dubbioso, accennava ad un possibile cantante. Anni fa ho insegnato per qualche mese al Bard College, un illustre College americano non molto lontano da New York, dove a suo tempo era stata — ed è sepolta — Hannah Arendt e dove insegnano tuttora docenti di prim’ordine. Il corso verteva sul romanzo politico del Novecento; Orwell, Koestler, i libri sui lager e sui gulag e così via. Ad un certo punto, durante la discussione al seminario, è emerso che su circa trentacinque studenti soltanto quattro o cinque sapevano chi fosse Stalin. Uno scrittore ebreo ungherese, i cui nonni erano morti ad Auschwitz, mi disse una volta che una sua nipote diciottenne, figlia di suo fratello, sapeva vagamente che Hitler era stato un uomo malvagio ma quasi niente di più.
Si tratta di un vero Alzheimer culturale collettivo, che spappola non solo e non tanto la cultura quale conoscenza della Storia o delle varie arti e scienze, bensì la conoscenza del presente che si vive. Non sapere, per un italiano, chi sia Craxi e per chiunque chi sia Hitler o Stalin non è tanto crassa ignoranza — come chi non sapesse chi sono Traiano o Caravaggio — ma è ignoranza, incoscienza, inconsapevolezza del proprio presente e dunque totale, sprovveduta impossibilità di viverlo e di affrontarlo.
Il presente, di una persona e di una società, non è soltanto il secondo o il minuto di quel momento subito svanito; è il contesto generale che avvolge, precede e continua la realtà in atto della nostra vita.
Anche il primo governo Conte è passato, non c’è più, ma è impossibile capire, valutare la situazione di oggi e quella fluttuante che si profila per domani se non si sa chi e cosa lo hanno fatto cadere. Questo presente, che non si annienta in ogni attimo ma abbraccia una fetta ben più larga di realtà, non si limita a pochi mesi. Craxi ad esempio vuol dire anche il radicale cambiamento politico in cui ancora viviamo, la trasformazione della Repubblica Italiana tuttora in corso; chi non lo sa non è solo un ignorante, ma è uno che va per strada senza sapere dove esattamente si trova, come chi ha perso la memoria e non sa tornare a casa.
La fetta di tempo che dobbiamo chiamare presente, e dunque sia pur superficialmente conoscere, è difficile da delimitare con precisione, ma è o dovrebbe essere ben chiara all’immediata, sensibile consapevolezza. I miei figli, ovviamente, non hanno vissuto la Seconda guerra mondiale, l’8 settembre, il fascismo e la Resistenza, la spaccatura dell’Italia. Ma quegli anni e quei decenni in cui essi non c’erano fanno parte del loro mondo e delle loro prese di posizione dinanzi al mondo di oggi, in cui quegli eventi sono ancora una minestra che bolle, che piace e disgusta. Per fortuna ci sono giovani e giovanissimi che sentono la necessità di appropriarsi di un tempo che li riguarda pur essendo lontano. Come ad esempio Sofia, ragazzina di tredici anni, che in un vivace dialogo con il nonno Roberto Finzi, pubblicato di recente da Einaudi, vuole capire come e perché sia stata possibile la Shoah, come e perché sia successo e cosa significhi oggi.
Ignorare chi siano stati Stalin o Hitler non è come ignorare chi sia stato Pericle — cosa certo assai grave sul piano culturale, mancanza che impoverisce la vita e l’intelligenza, ma non impedisce di attraversare la strada come l’ignoranza del semaforo rosso. La mancanza di memoria che riduce la vita a un pugno di mesi o di anni impedisce di guardarsi intorno, di orientarsi nel caos della vita e della storia e rende meno improbabile finire schiacciati. O Italiani, diceva Foscolo, vi esorto alle storie. Non voleva creare professori, ma semplicemente persone più consapevoli e dunque più agguerrite.
Questa memoria, madre delle Muse e di tutto, non ha nulla a che vedere con la registrazione meccanica di ogni granello del pulviscolo che fluttua intorno né con l’ossessiva e vendicativa memoria che rimesta tutti i torti subiti da anni o da secoli per poterli restituire con gli interessi di un rancore stratificato.
La memoria autentica non guarda indietro, perché guardare indietro è mortale. Orfeo perde Euridice perché nella tenebra degli inferi si volta verso di lei; la moglie di Lot diventa una statua di sale perché trasgredisce il divieto divino di voltarsi, di guardare solo la catastrofe della sua città. La cultura greca e quella ebraica — che hanno capito pressoché tutto della vita, della morte e della Storia — guardano avanti. Ma guardano e procedono avanti portandosi dietro il senso e il valore della propria vita, ciò che non muore. Anche Enea va a fondare un grande impero del futuro, ma portandosi dietro suo padre sulle spalle.















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