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sabato 7 dicembre 2019

"Effetti dirompenti sui processi".

POLITICA
07/12/2019 16:09 CET

Intervista ad Antonio D'Amato, togato del Csm

"Il processo non diventi una pena preventiva" afferma il consigliere primo degli eletti alle suppletive, critico sulla riforma Bonafede sulla prescrizione. "La voglia di manette non è mai un bene. Con la forca non si rimette in sesto un paese"

Antonio D'Amato
“Dirompente”. È la parola che più volte ripete il consigliere “togato” del Csm Antonio D’Amato, in questa sua intervista all’Huffpost. Originario di Torre del Greco, inizia il suo percorso a Palmi, dove procuratore è Agostino Cordova. Poi lo segue a Napoli, dove, negli anni di Tangentopoli, è nel pool che si occupa di uno dei filoni più importanti della Mani Pulite napoletana, quello sulle tangenti nel settore della sanità. Da sempre esponente della corrente di Magistratura Indipendente, non è mai stato vicino a Cosimo Ferri. Alle scorse elezioni suppletive del Csm è risultato il primo degli eletti, superando in termini di voti Nino Di Matteo. All’HuffPost affida il suo allarme sull’entrata in vigore della norma Bonafede sulla prescrizione: “Senza interventi sulla ragionevole durata del processo, il processo diventa una pena preventiva ai danni dell’imputato. Occorrono interventi di ampio respiro”. E sul clima e sulla filosofia che ispira alcune norme del Governo dice: “La voglia di manette non è mai un bene. Non è con la forca che si rimette in sesto un paese. Ciò che invece serve è una giustizia che funzioni”.
La prescrizione divide il governo e anche le toghe. Lei sta con Bonafede o col Pd?
Posta così, lei mi chiede una valutazione politica. Io sto al merito: l’istituto della prescrizione costituisce un tema fondamentale per il funzionamento della Giustizia. Ed è pericoloso strumentalizzarlo a fini politici, perché ha ricadute decisive sull’intero sistema giudiziario. 
Allora mettiamola così, sul merito. Mi dia un giudizio sulla norma Bonafede, sulla sua filosofia e sull’impatto che ha sui processi?
È una norma che non coglie l’obiettivo per la quale è stata ideata: velocizzare i processi e garantire la certezza del giudizio e dell’eventuale pena.
Molti suoi colleghi di Md hanno sostenuto che in fondo la proposta Bonafede è ciò che ha sostenuto l’Anm per anni, e anche la sinistra.
Andiamo con ordine: l’istituto della prescrizione risponde a molteplici esigenze di natura sostanziale e processuale. Attraverso questo strumento il legislatore ha inteso garantire la certezza dei rapporti giuridici, evitando che i processi abbiano durata illimitata, fermo restando l’interesse primario dello Stato ad assicurare una risposta di giustizia. Se è così, allora la prescrizione del reato è dunque, indissolubilmente, legata al principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Questo è il punto.
C’è chi ha parlato di “ergastolo processuale”, come effetto di questa norma che, di fatto, rischia di tenerti sotto processo a vita.
Ragionevole durata del processo significa evitare che la sanzione intervenga a notevole distanza di tempo dal fatto così da ottundere, se non addirittura escludere del tutto, l’effetto rieducativo della pena irrogata. Per evitare che lo Stato rinunci a svolgere correttamente la sua funzione giurisdizionale, occorre dunque un intervento mirato di ampio respiro.
Questo è anche il punto del dibattito politico: accompagnare la norma con misure che assicurino la ragionevole durata dei processi, tema di cui si parla da vent’anni. Torniamo agli effetti che produce lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.
Così com’è rischia di  creare effetti dirompenti per il sistema.
Effetti dirompenti è un giudizio non dissimile dalla “bomba” sui processi di cui parlò Giulia Bongiorno.
C’è un dato oggettivo. Così come è, non si tiene conto che molte disfunzionalità del sistema giudiziario derivano, da un lato, dal fatto che si è caricato prevalentemente sul diritto penale la funzione di risposta a molteplici fenomeni criminali; dall’altro, dalle lentezze della macchina giudiziaria in sé considerata. A sistema giudiziario invariato, non può escludersi che i gradi di giudizio successivi al primo si svolgano più lentamente che in passato, venendo meno uno dei principali fattori che determinano, di norma, un’accelerazione dei tempi di definizione dei processi, legato al pericolo di prescrizione del reato sub iudice.
Sintetizzo il suo ragionamento: non è un tabù mettere mano alla prescrizione, ma non così e occorrono interventi più organici. Lei cosa proporrebbe, o se preferisce, suggerirebbe?
Altre linee di intervento. Le faccio un esempio: nella fase delle indagini preliminari è maturata nel solo anno 2017 la prescrizione di diverse decine di migliaia di processi: siamo quasi al 60 per cento secondo le statistiche ministeriali. Bene, potrebbe essere utile intervenire in questa fase, così come accade negli altri ordinamenti europei, nei quali pure opera il meccanismo della sospensione/interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Si spieghi meglio.
Ad esempio, le soluzioni adottate in altri ordinamenti come l’imprescrittibilità di alcune fattispecie criminose particolarmente gravi e lo spostamento ‘in avanti’ del decorso del termine di prescrizione per i cosiddetti reati nascosti. Ove applicate in Italia, verosimilmente, impedirebbero il maturare della prescrizione già nella fase delle indagini preliminari. Inoltre, sarebbe auspicabile l’adozione di misure per fronteggiare la peculiarità del sistema processuale italiano, caratterizzato da un enorme numero di processi pendenti nella fase dibattimentale.
Un’ipotesi sul campo che piace molto al Pd è quella di Bruti Liberati, ex procuratore di Milano ed ex presidente dell’Anm. Che prevede una prescrizione per gradi: un tempo per le indagini preliminari, un tempo per l’appello, un tempo per la Cassazione”.  È d’accordo?
Non entro in questa o in altre proposte. Mi limito a sottolineare, proprio in un momento in cui c’è un acceso dibattito politico in materia, che il processo non può diventare una sorta di pena preventiva ai danni dell’imputato, e occorre garantire alla collettività che lo Stato eserciti la sua funzione giudiziale in tempi certi. Con gli interventi previsti al momento questo equilibrio non c’è.
Però il processo è lungo, e non è solo un problema di risorse, ma di procedure, diciamo le cose come stanno.
Questo è vero. Io, ad esempio, nell’affrontare questo tema immagino un pacchetto di misure così articolato: incentivare il ricorso ai riti alternativi, irrobustendo le premialità negoziali e potenziando il ricorso al rito abbreviato; rimeditare l’udienza preliminare, con intenti deflattivi della fase dibattimentale, riconoscendo al giudice poteri integrativi delle indagini più ampi e poteri valutativi, anche di merito, ai fini dell’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Questo ovviamente comporta un potenziamento degli organici dei giudici delle indagini preliminari.
Sono tutte questioni che potrebbero, ad esempio, rientrare nel decreto legislativo che il governo sta discutendo.
Non so se in quello o in altri provvedimenti, ma andrebbero affrontate. E ne aggiungo altre: occorrerebbe semplificare avvisi, comunicazioni e notificazioni alle parti e ai difensori; abolire il divieto di reformatio in pejus in appello, ovvero limitare a pochi casi l’appellabilità delle sentenze di assoluzione, nonché una profonda rivisitazione della disciplina normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato; e, soprattutto, limitare l’area della rilevanza penale ai fenomeni delittuosi più gravi, con massiccia depenalizzazione delle condotte che, per il minor connotato di offensività, possono trovare rilevanza nel settore degli illeciti amministrativi, con previsione di sanzioni amministrative pecuniarie con maggiore efficacia deterrente.
Depenalizzare. A me sembra invece che la filosofia di questa fase risente molto della “panpenalizzazione” che tanto piace ai Cinque stelle. Nel decreto fiscale c’è il sequestro delle aziende che evadono oltre 100mila euro. Non le pare eccessivo?
A onor del vero, la panpenalizzazione è la filosofia che ha ispirato la legislazione dell’ultimo ventennio. Nel merito, sono sostanzialmente d’accordo con lei, quella norma mi pare eccessiva. Soprattutto in un paese come il nostro è la grossa evasione fiscale che produce effetti dirompenti sul benessere collettivo e va punita duramente, anche in ragione degli effetti di prevenzione speciale e generale che le sanzioni penali irrogate ingenerano. Ma, anche sulla lotta all’evasione, non basta la repressione penale, occorrerebbero dei sistemi di premialità per chi paga le tasse e incrementare la logica dei controlli preventivi sui modelli di organizzazione aziendale.
Che ne pensa di questa voglia di manette che è nell’aria?
La voglia di manette non è mai un bene. Non è con la forca che si rimette in sesto un paese. Ciò che invece serve è una giustizia che funzioni, bene e in tempi ragionevoli.
Un’ultima domanda. Il Csm era partito con Magistratura Indipendente dominante. Adesso è residuale. Cosa è successo?
Ciò che è successo ce lo hanno raccontato, in parte, le cronache e sui fatti emersi nei mesi scorsi auspico che sia fatta piena chiarezza. Quanto a Magistratura Indipendente, gli orientamenti culturali che la animano la rendono, da sempre, particolarmente sensibile alle prerogative dello Stato di diritto, è un patrimonio prezioso per il paese. Aggiungo che Magistratura Indipendente non è affatto marginale e la mia recente elezione lo dimostra. Nella magistratura italiana resta fortissima l’esigenza di garantire un ordine giudiziario indipendente e rispettoso degli altri poteri dello Stato e che rifugga dai clamori mediatici. 
Facciamo che era la penultima di domanda. L’ultima è questa: la maggioranza dei togati ce l’ha Piercamillo Davigo. È un Csm di sinistra o “manettaro”?
Non so se Davigo sia di sinistra. So per certo, invece, che il Csm, proprio dopo i recenti scandali, deve essere in grado di garantire piena rappresentanza alle varie sensibilità culturali di categoria, privilegiando, al tempo stesso, il merito e rifuggendo dalle logiche dell’appartenenza nelle scelte che è deputato a prendere. Solo così si può garantire l’autonomia interna. In caso contrario risulterebbero vani gli opportuni richiami del capo dello Stato e, da ultimo, quello al Congresso dell’Anm del vice presidente Ermini alla necessità di garantire la piena fiducia dei cittadini italiani nell’operato della “loro” 

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