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martedì 19 novembre 2019

La fine dell’industria italiana

ECONOMIA /
Andrea Muratore
19 NOVEMBRE 2019

 
Nei giorni in cui la crisi dell’Ilva fa sentire con sempre maggior forza i suoi effetti sul tessuto industriale italiano e sul governo Conte emerge in maniera crescente l’ampiezza del vuoto politico che ha contribuito a produrre situazioni problematiche tanto difficili da gestire. Ferite aperte nell’economia e nella società nazionale dalla progressiva desertificazione di qualsiasi ragionamento serio sulla politica industriale post Prima Repubblica.

Industria, programmazione strategica, infrastrutture: la fine del sistema costruito nella Prima repubblica e lo smantellamento dell’architettura di economia mista incentrata sull’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) ha portato con sé non il miglioramento dell’efficienza dei settori liberalizzati e privatizzati ma un deperimento della qualità dei servizi, della programmazione economica, del livello di investimenti. Con conseguenze produttive, occupazionali, ambientali e securitarie. E ricadute enormi sul posizionamento strategico dell’Italia in Europa e nel mondo. Con tutti i limiti progressivamente emersi, legati principalmente alla progressiva irreggimentazione politica, l’economia mista incentrata sull’Iri riusciva a complementare le esigenze pubbliche con quelle del settore privato.


Manager illuminati come Enrico Mattei, Oscar Sinigaglia e Adriano Olivetti capirono che i due mondi non dovevano essere conflittuali ma capaci di sovrapporsi attivamente. “L’economia privata era basata su un’imprenditoria diffusa, quella pubblica sostenuta dallo Stato aveva lo scopo di investire nel lungo periodo e creare concentrazioni di più grande dimensione”, ha dichiarato all’Osservatorio Globalizzazione lo storico dell’economia Giuseppe Berta.

E nel quarantennio di consolidamento dell’Italia repubblicana, c’è da dire che tale funzione è stata ampiamente assolta. Si è precedentemente citato Mattei: ma la parabola dell’Eni globale del manager marchigiano non è stata una storia a sé. Che cos’era fino a una ventina di anni fa l’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, se non il frutto dell’opera della vecchia Finsider dell’Iri guidata da Sinigaglia? La Finsider fu capace di realizzare gli impianti in grado di permettere a tutti i Paesi europei la conquista dell’indipendenza nella produzione della materia più strategica per l’industria moderna. L’uscita dall’orbita pubblica dell’Ilva è stata fatale, perché ha fatto perdere la necessaria coordinazione tra impianti e la ratio di fondo della politica industriale.

Dai Riva ad ArcelorMittal, il Paese ha perso credibilità industriale e ora vede a rischio decine di migliaia di posti di lavoro

Avevamo anche il visionario “impero romano” della Stet, “costruttrice di cavi e reti che hanno garantito all’Italia”, scrive il direttore del Quotidiano del Sud Roberto Napoletano, “il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale”, prima che Telecom-Tim venisse privatizzata. Così come Ilva, anche sulla società di telefonia si è scatenata una gara geoeconomica coinvolgente Paesi stranieri interessati ad aumentare la propria proiezione nell’economia italiana. La Francia, attraverso Vincent Bolloré e Vivendi, è in questo caso intenta in un braccio di ferro con gli Stati Uniti impegnati attraverso il Fondo Elliott. Nonostante tutto, attraverso Sparkle, la Telecom gestisce e costruisce ancora una rete significativa e strategica di cavi sottomarini di telecomunicazione. Ma senza il controllo nazionale questo risultato rischia di ridurre i dividendi positivi per il Paese. Risulta strano constatare il rifiuto del governo di appoggiare, recentemente, la proposta di Fabio Rampelli (Fdi) su una convergenza di Tim con OpenFiber per l’istituzione di un “golden power” pubblico sulle reti.

L’azione di politica economica e industriale è discontinua, spezzettata e confusa. E la radice del problema sta nella scelta, compiuta negli anni Novanta, di smantellare il sistema di partecipazioni incentrato sull’Iri per venire incontro al nuovo vento della globalizzazione, della liberalizzazione e delle regole europee. Le privatizzazioni furono giustificate ideologicamente con l’obiettivo di modernizzare il Paese, ottenere valuta e risorse da utilizzare per conformarsi alle regole europee dei parametri di Maastricht e aprire il Paese agli investitori stranieri. Principale fautore dello smantellamento dell’Iri e del sistema dell’economia mista, dopo il 1992, fu il suo ultimo direttore e futuro presidente del Consiglio Romano Prodi. L’Iri, che ancora nel 1993 era il settimo conglomerato al mondo con un fatturato complessivo delle sue imprese superiore ai 67 miliardi di euro, fu smantellato nel decennio successivo e il suo patrimonio disperso.

Alcune imprese (Fincantieri e Finmeccanica) non affondarono, altre (Autostrade) furono privatizzate attraverso manovre che dettero ai concessionari posizioni di rendita, altre ancora ebbero la storia travagliata che abbiamo narrato. A decenni di distanza possiamo solo rammaricarci di quanto questo capitale disperso avrebbe potuto contribuire alla crescita del Paese e di quanto lo smantellamento dell’economia mista abbia contribuito al depauperamento della cultura strategica in campo industriale. Un gioco sfacciato sulla pelle delle decine di migliaia di persone portate in difficoltà da queste dinamiche, ultime in linea temporale le maestranze di Ilva e del suo indotto, a cui ha contribuito anche una grande imprenditoria italiana scarsamente incisiva.

Di questo gap di capacità e programmazione il Paese ha avuto più volte di che dolersi

In una fase storica in cui la competizione economica internazionale si intensifica e l’omogeneità strategica dei sistemi-Paese è più che mai necessaria, l’Italia naviga priva di bussola. Incapace di determinare quali settori industriali siano davvero strategici o di rafforzare politicamente i suoi campioni nazionali. Terra di conquista per capitali stranieri. Uno stato di cose che contribuisce a renderci oggetto, e non soggetto, della partita dello sviluppo industriale, finanziario e tecnologico che deciderà gli equilibri del prossimo futuro.

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