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venerdì 19 luglio 2019

La qualità perduta del dibattito pubblico

(iStockphoto)
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«Lo stato di disattenzione, sottoinformazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata». Lo scriveva quarant’anni fa Giovanni Sartori e questo potrebbe farci concludere che su tale terreno non c’è oggi nulla di veramente nuovo. Ma sbaglieremmo. Fino a qualche anno fa, la parte della popolazione in grado di discutere di una questione con qualche competenza era sì una minoranza, ma riusciva comunque a contribuire alla discussione pubblica con argomentazioni che, condivisibili o meno, avevano uno spessore, andavano oltre la battuta estemporanea o il tweet. Qualcosa di quelle argomentazioni — si trattasse di un discorso parlamentare, un dibattito in una sezione di partito, un corteo sindacale, un servizio televisivo, l’editoriale di un quotidiano — si diffondeva per mille rivoli nella società influenzando alla fine anche le proverbiali chiacchiere nei «bar dello Sport».
Oggi invece abbiamo superato la soglia di guardia, se gli stessi servizi dei Tg sono spesso incentrati sulla semplice riproduzione di un post o di un video dei due vicepresidenti del Consiglio. Se le discussioni politiche – che si tratti dei leader o dei follower poco cambia – riproducono di continuo una banale contrapposizione amico-nemico, dando forma a una realtà parallela e virtuale: secondo alcuni saremmo di fronte a un’invasione dei migranti, secondo altri saremmo invece sommersi da un’onda nera parafascista e così via. L’infantilizzazione della discussione deve aver proprio superato il livello di guardia se una vicenda in fondo marginale come quella dello sbarco della nave Sea Watch ha potuto essere considerata da alcuni l’equivalente di un atto di guerra e da altri come una prova di eroismo tale da scomodare un archetipo della cultura occidentale come l’Antigone di Sofocle. Se — ancora — tutto questo avviene senza che nessuno dei problemi effettivi del Paese — dal crollo delle nascite che forse ha superato il punto di non ritorno alla produttività ferma da vent’anni, da una macchina pubblica insieme opprimente e inefficiente all’incapacità di occuparsi dei problemi della scuola (se non aggravandoli, come da ultimo con i concorsi «facilitati», cioè finti, per i precari) — senza che nessuno di quei problemi, dicevo, venga mai fatto oggetto di qualche discussione. E la qualità di una democrazia è strettamente collegata alla qualità della discussione pubblica.
Ma questa, appunto, è la democrazia nell’epoca di internet e dei social media, del tempo reale e dell’immediatezza, quando forse per la prima volta è diventata integralmente vera la famosa affermazione coniata da Marshall McLuhan, e cioè che «il mezzo è il messaggio». Con i social la democrazia ha trovato lo strumento comunicativo perfettamente a sua misura, attraverso il quale tutti ma proprio tutti possono intervenire su tutto, sempre. Non era mai successo prima. In una democrazia, come possono votare anche gli analfabeti, così hanno sempre avuto lo stesso diritto di esprimere la loro opinione sapienti e ignoranti, competenti e incompetenti, chi si sforzava di essere informato e chi si rifiutava di farlo. Solo che in passato questo era vero solo in teoria, mentre ora c’è la effettiva possibilità, per ciascuno, di esprimere la propria opinione su tutto, avendo magari tanto più seguito quanto più è semplificato, banalizzato e magari infondato ciò che dice.
In realtà la qualità della discussione pubblica dipende sì dal pubblico, dalla totalità dei cittadini, ma anche da un altro fattore: la presenza o meno di élite in grado di introdurre elementi virtuosi nella discussione cercando di orientarla positivamente, in termini di diffusione di dati reali, di messa a fuoco di questioni rilevanti, di critica delle realtà parallele costruite facendo appello alle reazioni più emotive della gente. Il processo dovrebbe iniziare da chi del governo dei problemi del Paese anzitutto si occupa, cioè dal ceto politico e dall’esempio che esso è o meno in grado di fornire. E purtroppo qui siamo di fronte a una rinuncia totale, con dei leader – nel caso dell’Italia di oggi tanto di governo che di opposizione (se mai esiste) – che appaiono interamente prigionieri di una dimensione discorsiva insieme aggressiva e infantile, fatta di mezze idee (spesso sbagliate) ascoltate chissà dove e chissà da chi. E quando sono i leader a incrementare le opinioni fondate sull’ignoranza ma pronunciate con aggressiva perentorietà, dobbiamo forse cominciare a preoccuparci.

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