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martedì 14 maggio 2019

Allarme Censis: Italia stritolata dal dumping europeo

Focus per i 100 anni di Confcooperative, che punta il dito contro «aliquote da paradisi fiscali» e «salari da caporalato» e lancia un appello ai futuri europarlamentari: fermate questa giostra

ROMA
Stretta tra aliquote da paradisi fiscali (in Lussemburgo la pressione fiscale reale è addirittura negativa) e retribuzioni da caporalato (in Bulgaria il salario minimo orario non supera i 2 euro), il nostro Paese rischia di trasformarsi nella terra dei sogni traditi e delle opportunità mancate. L’Italia nei fatti è stritolata dal «dumping europeo» e quindi continua a perdere investimenti esteri e capitale umano. È quanto emerge dal Focus Censis-Confcooperative diffuso in occasione dell’assemblea celebrativa dei 100 anni dalla costituzione della principale associazione di rappresentanza del movimento cooperativo (che oggi conta 18.500 imprese associate (in particolare nei settori del food, del credito e del welfare) , 525.000 occupati, 3,2 milioni di soci e 66 miliardi di euro di fatturato), che per l’occasione lancia un appello ai prossimi europarlamentari contro questa «giostra del dumping».
Nella Ue a 28 il Belpaese – ricorda lo studio - è in coda alla classifica per capacità di attrarre investimenti esteri, peggio di noi fa solo la Grecia. Mentre svetta, occupando il terzo posto dietro solo a Romania e Polonia, nella graduatoria stilata contando chi lascia il paese di origine per cercare lavoro in un altro paese Ue28. «Questa situazione sta determinando una pressione al ribasso – sottolinea il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini – una condizione di sperequazione su cui si deve necessariamente intervenire, pena il rinvio sine die dell’Unione politica prima ancora che economica e fiscale. Non possiamo difenderci dalla concorrenza sleale dei paesi extra Ue, ma dobbiamo almeno regolare il cortile di casa nostra. La tolleranza fin qui ammessa, nei confronti di questo stato di cose, ha alimentato molti danni economici. Secondo il Parlamento europeo, nell’Unione a 28, si perdono ogni anno, circa 1.000 miliardi di euro, come mancato gettito a causa dell’evasione e dell’elusione fiscale».
La giungla del Fisco europeo 
Attualmente nell’Unione europea esistono, grazie anche all’obbligo dell’unanimità del voto, 28 sistemi fiscali.
 Secondo i dati della Commissione europea, quattro di questi si collocano sotto l’11% (Lussemburgo, Lituania, Irlanda, Romania), mentre altri cinque restano sotto il 15% (Polonia, Ungheria, Estonia, Lettonia e Bulgaria). Per Malta, invece, non sono disponibili i dati relativi al proprio sistema di imposizione, mentre per il Lussemburgo, il valore negativo dell’imposta si configura a tutti gli effetti come un incentivo anziché un prelievo. Un altro aspetto di indeterminatezza è dato dalla distanza fra le aliquote nominali e quelle effettive. In molti casi la distanza risulta molto ampia, pur partendo da una base tutt’altro che elevata, come mostrano i dati relativi alla Polonia, l’Ungheria, l’Estonia (intorno ai 9 punti percentuali).
L’approccio “aggressivo” di alcuni sistemi fiscali e la capacità di attrazione di attività economiche e di gettito fiscale ha chiaramente dei riflessi sugli investimenti esteri sul prodotto interno lordo. Per gli investimenti in entrata, l’ammontare in termini di consistenze risulta superiore al 100% del Pil in ben sette paesi, con quote nove volte maggiore a Cipro, quindici volte maggiore a Malta e ben sessanta volte nel Lussemburgo. Come base di confronto, possono essere presi paesi come la Germania, la Francia o l’Italia: nel primo caso la quota di investimenti in entrata sul Pil è del 24,2%, mentre per la Francia raggiunge il 31,8% e per l’Italia si ferma al 20,3%.
«Alla situazione di indeterminatezza, nei livelli istituzionali di diversi stati membri, che ha origine in comportamenti, sul piano fiscale, che la Commissione europea non ha esitato a definire “aggressivi” si aggiunge la percezione di insicurezza che crisi, salari fermi e fenomeni di delocalizzazione hanno generato negli ultimi anni in larghe fasce della popolazione e dell’occupazione», specifica il focus.
La fuga del capitale umano
Nel 2017 sono 17 milioni i cittadini dell’Unione europea che vivono in paesi diversi dalla propria origine.
 Fatto 100 il totale dei cittadini dell’Unione che lavorano o cercano lavoro in altri paesi comunitari, il 21% proviene dalla Romania e il 17% dalla Polonia. L’Italia occupa, in questa speciale classifica della mobilità, il terzo posto con una quota pari all’8%, seguita dal Portogallo (7%), dalla Bulgaria e dalla Germania (entrambe con il 5%), cui si aggiungono con il 4% la Francia e la Spagna. Queste «differenti modalità di attuare, nei confronti del lavoro, una eterogenea piattaforma di diritti e di prestazioni, in un contesto di scambi, di investimenti e, quindi, di concorrenza fra imprese – è scritto nel rapporto - porta necessariamente a una competizione sul costo del lavoro, producendo fenomeni di delocalizzazione che stressano gli equilibri occupazionali interni e producono reazioni che minano i processi di convergenza economica dell’Europa».
Le delocalizzazioni
Il fenomeno della delocalizzazione, visto nell’arco di tempo fra il 2003 e il 2016 nel settore manifatturiero, conferma infine la rilevanza della perdita di posti del lavoro nell’Europa a 15. Fatto 100 il totale dei posti di lavori perduti, l’83,9% è riconducibile all’area occidentale e il restante 16,1% all’area a 13 paesi. Negli ultimi anni (2015 e 2016), si è potuta osservare una leggera ricomposizione: la quota occidentale scende sotto l’80%, e ciò è dovuto agli effetti di reshoring, o di «rilocalizzazione» nelle aree di provenienza, che nello stesso tempo prodotto un ridimensionamento dell’occupazione nei paesi Ue 13.

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