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venerdì 3 ottobre 2014

Pol Pot in Toscana ovvero la tirannia del paesaggio

Il dittatore cambogiano è risorto a Firenze, vive nel Palazzo Strozzi Sacrati, sede della presidenza regionale, e ha deciso di ridisegnare il territorio in nome della setta benecomunista. Ce l’ha con i vigneti e le monocolture, ma il popolo è in rivolta.

di Alessandro Giuli | 30 Settembre 2014 ore 20:57
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Non si è reincarnato soltanto in un uomo o in una donna, Pol Pot ha voluto subito materializzarsi in un progetto: Piano di indirizzo territoriale della Toscana (PIT)
“E anche tal follia vien da Dioniso”
    (Euripide, “Le Baccanti”)
Un bel giorno Pol Pot è risorto e come prima cosa ha deciso di ridisegnare la Toscana da cima a fondo: basta con i vigneti e le cantine della Val d’Orcia, via quei troppi campi larghi e biondi di cereali, addio filari di cipressi da cartolina fra cancelli e muretti di recinzione. Basta tutto: viva le argille incontaminate, i calanchi spogli, le terrazze alluvionali vergini, i pascoli vuoti, la vegetazione di proda. E gli umani? Dettaglio secondario, come ai bei tempi di Phnom Penh. Pol Pot ha preso domicilio a Firenze, nel Palazzo Strozzi Sacrati in piazza Duomo, civico 10, sede della presidenza regionale. Non si è reincarnato soltanto in un uomo o in una donna, Pol Pot ha voluto subito materializzarsi in un progetto: Piano di indirizzo territoriale della Toscana (PIT), circa tremila pagine con innumerevoli schede di piano e “abachi regionali delle invarianti” e direttive correlate che formano un labirinto minato in cui il territorio viene avviluppato in un reticolo di obblighi e divieti che si sovrappongono fra di loro, smembrandolo e rimembrandolo, rendendo il tutto leggibile secondo modelli morfotipici differenti, dunque illeggibile. Unica certezza: siamo al cospetto d’un piano ventennale di rivoluzione benecomunista in gestazione da anni, e che oggi vagisce assertiva con il timbro del presidente Enrico Rossi, sorretto dalle parole di Amartya Sen sulle “altre opzioni possibili nella società in cui viviamo”, dalle fantasticherie regressive di Vandana Shiva e Serge Latouche, e con il sigillo gruppettaro della setta dei Territorialisti guidati da Alberto Magnaghi, l’urbanista passato dalla rivolta di Potere Operaio all’utopia del Podere Operaio.

Pol Pot ha invero anche un volto femineo, occhi celesti trevigiani e fredda capigliatura elegantemente assortiti nella facies di Anna Marson, architetto, assessore regionale all’Urbanistica, pianificazione del territorio e paesaggio. Voluta e sostenuta in Giunta dai dipietristi (parlandone da vivi, ma in Toscana lo sono ancora) e dai Verdi, i cui voti sono indispensabili a Rossi, Marson s’è intestata il PIT e come contrappasso s’è presa l’odio interclassista dei suoi destinatari: consorzi vinicoli, sindacati agricoli, allevatori, sindaci, vivaisti e architetti perfino. Una Pallacorda improvvisata, riunita in via permanente, sorretta dal combustibile di una plebe inferocita. Lunedì scorso, 22 settembre, l’assessore ha incontrato una delegazione delle categorie interessate. Era presente anche il suo collega all’Agricoltura, Gianni Salvadori, che si è un po’ smarcato dal PIT, ha riconosciuto l’eccesso di solipsismo e ha proposto di ridiscutere il progetto non contro ma assieme ai diretti interessati. Eppure Rossi non se la sente di prendere una posizione definitiva. A lui conviene rinviare l’approvazione in pieno semestre bianco (nella primavera 2015 si tornerà al voto per eleggere la nuova giunta e il nuovo presidente). Marson ha sostenuto che non c’è da preoccuparsi perché il PIT è una norma, mica una legge! Lei vuole approvare tutto subito. Risultato: nulla di fatto, stallo.

I rappresentanti delle categorie sono usciti dal Palazzo basiti (erano già contrariati all’ingresso, quando si son trovati davanti il tavolo della presidenza e le sedie sparse: “Pensavamo fosse una tavola rotonda, non una conferenza della Marson”) e incupiti da quella che percepiscono come una recita surreale. Daranno tutti battaglia a Pol Pot, compresi quelli della Cia (Confederazione italiana agricoltori) Toscana, dapprincipio più morbidi, lo faranno se necessario sul trattore, marciando su Firenze. Oppure no? Rossi tornerebbe volentieri indietro, ma non può. La Marson è decisa a difendere il provvedimento cambiando solo pochi dettagli ininfluenti.

“Si trovava da quelle parti un bosco sacro, in cui nessuno aveva messo piede da lunghissimo tempo, e che cingeva con i suoi rami intrecciati l’aria oscura ed ombre gelide, dal momento che la luce del sole risultava incredibilmente lontana. Lì non avevano sede i Pani abitatori dei campi o i Silvani sovrani delle selve o le Ninfe, ben sì i barbari riti sacri alle divinità: lì erano innalzati altari sinistri e ogni albero era purificato con sangue umano” (Lucano, “Pharsalia”).

Dalla Pallacorda alla plebe inferocita
La voce ufficiale della Pallacorda ha il suo epicentro presso il Consorzio del Chianti a Firenze, non c’è dubbio. Il presidente e primus inter pares è Giovanni Busi. Ma un luogo appropriato per discettare in modo smagatamente serio della resurrezione polpottiana è la Fattoria dei Barbi, trecentosei ettari tra Montalcino e Scansano sotto le insegne del casato di Stefano Cinelli Colombini, unico erede di un’antica famiglia senese che ha ricoperto cariche di governo da poco dopo l’anno Mille, il cui blasone ha il colore del cielo fin dal 1200, quattro colombe d’oro in campo azzurro divise da una croce d’oro (“Il tempo si è portato via il Motivo della croce, oggi non sappiamo se fu per via di una crociata o, più semplicemente, per segnalare la particolare pietà della famiglia”) ma nelle cui vene scorre vino di rango, a cominciare dal Brunello ovviamente.

(Tanto per capire: la produzione media annua del Brunello di Montalcino è pari a 10-11 milioni di bottiglie: grosso modo 80 volte il Colosseo).

Fu Giovanni Colombini, nato nel 1906, ad aprire la prima enoteca pubblica italiana, realizzata nel 1938 nella fortezza di Montalcino da lui restaurata come Podestà; sua è negli anni 30 del secolo scorso la prima vendita per corrispondenza del vino toscano, sue le prime esportazioni di Brunello nei più importanti mercati del mondo, sua l’idea di trasformare il nettare di Bacco in prodotto di massa. Oggi suo nipote Stefano è un onorevole soldato della Pallacorda che sfida il PIT. Lui è socio del Consorzio del Brunello che mercoledì scorso ha fatto recapitare ad Anna Marson una lettera di venticinque pagine dense di ulteriori e rispettosi rilievi sul PIT (“in ossequio alle finalità di tutela e valorizzazione della Denominazione Vino Brunello di Montalcino e del suo territorio di origine, così come prevede il proprio statuto, con l’intento di offrire un apporto collaborativo per una migliore formulazione degli strumenti di governo del territorio”). Perché – dice Cinelli Colombini – “il PIT non è un normale piano di tutela di ambiente e monumenti, è molto più invasivo; è il progetto della Toscana del futuro”. Un piano di ingegneria sociale mascherato dall’ansia di tutelare la biodiversità, ma già chiaro, fin dal lessico che rievoca le risoluzioni strategiche di sanguinaria memoria, nei suoi presupposti totalitari: “Quale che sia la titolarità dei suoli e dei beni immobili che vi insistono, il territorio è comunque e pregiudizialmente il nostro patrimonio pubblico” per cui è “bene comune” che “pubblicamente e a fini pubblici va custodito, manutenuto e messo in valore” per sottrarlo alle “visioni auto-referenziali” dei privati e al “municipalismo” con le “sue illusorie autarchie”.

“Se dobbiamo dare un qualche credito all’antichità, che si è sempre inchinata con meraviglia di fronte al divino, perfino gli uccelli avevano timore di fermarsi su quei rami e le belve di riposarsi in quelle tane; né il vento o i fulmini, sprigionatisi dalle fosche nubi, si abbattevano su quella selva: un brivido pervadeva ogni albero senza che soffiasse alcuna brezza tra le foglie. Inoltre una gran quantità di acqua cadeva da tetre fonti e sinistre statue di dèi erano ricavate, con un procedimento rozzo e approssimativo, dai tronchi intagliati. La stessa muffa e il pallore del legno putrescente provocavano terrore negli uomini sbigottiti, che non hanno paura delle divinità rappresentate in raffigurazioni fissate dalla consuetudine: tanto lo spavento è ingigantito dal fatto di non conoscere gli dèi, di cui si deve aver timore” (Lucano, “Pharsalia”).

Risoluzioni strategiche benecomuniste
Cinelli Colombini, cordiale anima secentesca (tendenza Controriforma, due beati e molta devozione cattolica nell’albero genealogico) in un corpo epicureo, parla di cose gravi con la faconda levità di chi esibisce distacco nel mezzo di una tempesta molto eccitante: “Siamo senesi, ci piace litigare”, affetta festoso come il volpino candido che gli saetta tra le gambe mentre insegue una barboncina giunta lì ospite (nome: Luli X°, “li prendo tutti uguali, con pedigree sicuro, così il lutto è meno traumatico”), e a modo suo spiega il PIT: “Campi, terme, edifici, serre e cipressi, tutto è parte del territorio per cui tutto va normato per adeguarlo a una ‘immagine ideale della Toscana’ dedotta da venti studi sull’evoluzione dei vari paesaggi nel tempo, conditi con dati geologici e ambientali”. Messa così… “Ma attenzione, se tutto è territorio chi stabilisce cosa si può fare nel territorio determina il futuro; le vigne di parte delle più famose aree vinicole come Montalcino o il Chianti non si potranno reimpiantare, e così tra dieci o vent’anni non ci saranno più. In altre zone della Toscana invece si potrà piantare liberamente, e così intere economie cambieranno. Vincoli analoghi limitano o impediscono (non ovunque, e questo crea squilibri ingiusti) nuove edificazioni o cambi d’uso di edifici e opifici agricoli di ogni tipo e anche i vivai, gli oliveti e i frutteti; col tempo l’intera Toscana sarà come la vuole il PIT”.

Sembra il capriccio d’un re tiranno e annoiato, oppure un incubo giacobino: basta sostituire i diritti del territorio ai diritti dell’uomo, quelli che nell’ideologia sans culotte contano più delle teste umane che rotolano. In ogni caso siamo in pieno Settecento. “Come ha dichiarato alla recente Festa dell’Unità a Siena l’assessore prof.ssa arch. Marson – dice Cinelli Colombini –, il PIT è stato scritto solo in base a paesaggio, storia e cultura. In effetti, al di là di qualche frase di rito nei testi preliminari, in tremila pagine di testi, mappe e foto non c’è nulla di economia, occupazione e sviluppo delle produzioni locali. Non hanno neppure valutato se la sua applicazione è ‘sostenibile’ per le popolazioni locali. Ma chi pretende di limitare le attività produttive di un territorio solo in base a criteri ‘estetici’, ignorando i bisogni degli abitanti, ha dimenticato l’apologo di Menenio Agrippa; senza lo stomaco la testa non vive. Una visione così ‘sbilenca’ porta a conseguenze paradossali; se una coltura ha successo ovviamente cresce, ma più cresce più consuma suolo, più cambia il paesaggio storico, più riduce la diversità e più erosione e inquinamento potrebbe generare. E’ inevitabile. Ergo, più una coltura ha successo e più (per il PIT) è negativa per il paesaggio. Così se Pescia è più coerente con il suo paesaggio del passato senza vivai, i più importanti vivai d’Europa devono ridimensionarsi. E chi ci lavora? Di esempi così ne potrei fare tanti. Ma attenzione, questi non sono errori del PIT; è solo coerenza con valori diversi da quelli comunemente condivisi”. Quando sento parlare di valori metto la mano al revolver. Quali sarebbero dunque i valori che ispirano il PIT?

I rivoltosi dicono che alla base del PIT c’è la discussa teoria del “bene comune”, e per capire di che si tratti suggeriscono di dare un occhio al sito internet della Società dei Territorialisti, presieduta dal professor architetto Alberto Magnaghi, che è il marito della promotrice del PIT assessore arch. prof.ssa Marson. Nel comitato scientifico spiccano i personaggi simbolo della “decrescita felice” e “no OGM” come Vandana Shiva e Serge Latouche. Molti di quelli che hanno lavorato al PIT, corre voce, aderiscono o si ispirano a questo gruppo. Un esempio del loro lavoro è il Parco agrario di Montespertoli (la Marson abita qui), un “laboratorio sull’agricoltura del futuro” pieno di buoni propositi ma privo di piano dei conti. Questa sarebbe la Toscana del futuro, la Toscana del PIT.

“Il disinteresse per chi paga che trasuda da tutti questi documenti è degno di Luigi XVI – dicono quelli della Pallacorda – e rende naturale una domanda; ma gli aristocratici da ‘bastigliare’ oggi sono i ricchi borghesi e i nobili residui dalle tasche vuote oppure questi influenti intellettuali, nutriti di lauti stipendi e grasse commende pubbliche? I politici almeno rischiano la trombatura, loro sopravvivono a ogni errore. Per l’assessore Marson ogni contestazione è una bugia, una leggenda metropolitana o un’interpretazione fantasiosa del testo. Si crede bersagliata da una stampa malevola e oggetto di un attacco politico. No, contro di lei si sono schierate tutte le organizzazioni degli agricoltori e dei lavoratori agricoli, tutti gli ordini professionali degli agronomi ed enologi, tutti i consorzi vinicoli e di ogni altro prodotto e moltissimi sindaci. Perfino qualche suo collega assessore non la sostiene. Troppo facile dire che è un attacco politico, in realtà nessuno di questi è mai stato ostile alla Giunta di cui lei fa parte. Per caso non sarà che chi la attacca valuta il PIT in base alle leggi vigenti e non in base alla sua personalissima interpretazione? E non sarà che in base alle leggi vigenti il PIT impone vincoli insostenibili e assurdi?”.
Il PIT ha un solo precedente e in calce reca la medesima rivendicazione ideologica: in Puglia, dove vige il principato poetico dell’altermondista Nichi Vendola (ma ancora manca un voto definitivo). “Il PIT è il manifesto di un’utopia, che può creare un precedente pericolosissimo per l’intera Italia. Questa non è una normale legge per l’ambiente con molti refusi da correggere, è l’opera coerente (e in tal senso ben fatta) di un gruppo di intellettuali molto minoritari nella società ma molto à la page, che una volta volevano cambiare il mondo con la rivoluzione e ora lo fanno per decreto. Ieri in Puglia, oggi in Toscana”. E domani?

“E ormai correva voce che sovente profonde caverne mugghiavano a causa di movimenti tellurici, che i tassi piombavano a terra e subito dopo si drizzavano nuovamente, che incendi sembravano appiccarsi ai boschi, i quali però non bruciavano, e che mostruosi serpenti si avvinghiavano ai tronchi e strisciavano tutto intorno. Gli uomini non affollavano quel luogo per partecipare direttamente alle cerimonie del culto, ma lo abbandonavano agli dèi: allorché il sole è a metà del suo cammino o la cupa notte invade il cielo, lo stesso sacerdote paventa l’ingresso nel bosco e teme di incontrarne il signore” (Lucano, “Pharsalia”).

Lucifero faceva l’architetto del paesaggio
“Pochi lo sanno, ma Lucifero era un architetto del paesaggio”, anatemizza il Cinelli Colombini. Sono poeti, azzardo. “Sono pagani!”, osa lui. Magari lo fossero, non avrebbero paura della natura, riconoscerebbero la funzione cosmicizzante dell’uomo che modella il suo mondo-ambiente giorno per giorno e che, appunto, alla natura comanda obbedendo alle sue ragionevoli leggi. Ma sopra tutto non parlerebbero come l’architetto potoppista Alberto Magnaghi, del quale bisogna assolutamente ascoltare la conferenza di presentazione del suo movimento, una conferenza organizzata il 27 aprile 2012 a Brescia dall’associazione “Ripensare il mondo” e intitolata: “Il Manifesto dei Territorialisti: che cos’è?” (è su YouTube). Magnaghi è stato uno tosto. La quarta di copertina d’un suo recente libro (“Un’idea di libertà”, Derive e Approdi, 2014) recita così: “Fu tra i fondatori di Potere operaio. Dopo lo scioglimento del gruppo, nel 1973, abbandonò la militanza politica attiva e si dedicò alla ricerca e all’insegnamento universitario divenendo direttore del Dipartimento di Scienze del Territorio della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Il 21 dicembre 1979 si ritrovò inaspettatamente arrestato nel quadro dell’inchiesta giudiziaria cosiddetta ‘7 aprile’ contro l’Autonomia operaia. Scontò così tre anni di carcerazione preventiva…”. Oggi ha conservato un che di boschivo nell’ovale del volto, da roditore di libri, parla con la calma, criptica destrezza del teologo. In un certo senso è il sacerdote capo di una nuova religione. Il suo obiettivo è “rifondare una scienza unitaria del territorio” attraverso la crescita e diffusione pandemica di una “coscienza di luogo” più antica della lotta di classe, eppure a lei consanguinea come può esserlo una presenza avita. Fallita l’espropriazione degli espropriatori capitalisti, oggi Magnaghi vuole ri-ruralizzare l’Italia secondo il vecchio “modo di produzione contadino che chiude il ciclo ambientale e non produce rifiuti”; e vuole il “ripopolamento della montagna come sicurezza strategica del territorio”: il fascismo portò grandi masse di popolazione dalle campagne alle città, nella sua ansia di bonifica e fondazione, Magnaghi sogna il contrario. Ma lo schema sembra identico, cambia la direzione d’arrivo. E Pol Pot è sempre lì che scruta sorridente dagli inferi della sua Cambogia rimodellata a forza di deportazioni.

Magnaghi chiama tutto questo “processi di re-identificazione” e “fenomeni di ri-acculturazione”; lui vuole che le microcomunità si mettano in rete e passino “dalla vertenza specifica (vedi i No Tav, ndr) alla coscienza di luogo, per costruire una nuova geografia della nostra popolazione”. Vaste programme, ma espresso (ripetersi giova) come una risoluzione strategica degli anni Settanta depurata dallo “Stato imperialista delle multinazionali” (ma in realtà le multinazionali sono spesso citate negli scritti dei Territorialisti e anche il PIT diabolizza il “paradigma valido per ogni sistema di produzione, anche quello delle multinazionali e dei gruppi oligopolistici a livello mondiale”). Esempio: “Ogni volta che, nelle grandi crisi strutturali, occorre trasformare il modello socio-economico, è proprio la ricostruzione delle basi materiali della produzione il passaggio necessario, fondamentale, rifondativo di una nuova forma di sviluppo economico. Prima ancora del macchinario noi vediamo il territorio”. Ma noi chi? E il territorio di chi?

Compagna acqua. Compagno orto. Compagna terra. Vegetali di tutto il mondo unitevi in nome della “autosostenibilità”, aiutateci a “scomporre le megalopoli in reti di micro-città”; a “ricostruire la città riconoscendo che non c’è più”, ridotta com’è a “sequenze seriali di capannoni, supermercati e villettopoli”. “Il rango di una città”, dice Magnaghi, non è più misurato attraverso il numero dei suoi abitanti. E non ha tutti i torti, sia chiaro. La sua sodale Luisa Bonesio, docente di Geofilosofia a Pavia, ha scritto pagine molto belle sul rapporto tra identità, pensiero e paesaggio. Il fatto è che poi in Toscana ci sono pure gli uomini, non i nostri cari antichi Etruschi cui questo modello si addice perfettamente (noi pure ci ambienteremmo, forse, ma non obbligheremmo nessuno a seguirci per decreto regionale né ci metteremmo a fare proselitismo politico pur di riempire con seguaci atipici come noi la nostra capanna villanoviana piena di pelli e odorosa di stalla). No, non funziona così. Ci sono gli uomini moderni, e questi seccatori amano le villette a schiera, gli ipermercati, le serie tivù americane, il consumismo e le religioni rivelate. Al massimo gli puoi infliggere la raccolta differenziata, ma come fai a convincerli dell’inutilità che lo yogurt viaggi dalla Spagna a Kiev (dice proprio così Magnaghi)? Peggio ancora è imporre loro un piano ventennale di rimodellamento del territorio, e senza neppure consultarli (il PIT è questo), aspettandosi che ne nasca “un movimento diffuso di comportamenti sociali che cambino lo stato di vita nel territorio” per “la rifondazione di processi di ricontadinizzazione”. E rieccoci ai tempi belli in cui i Khmer rossi deportavano meticolosamente migliaia di cambogiani dalle città nelle campagne per metterli a lavorare in gigantesche fattorie collettive, “fattorie democratiche” al servizio della società agraria comunista, nel nome del “Brother Number One”, il fratello numero uno, come Pol Pot amava essere chiamato. Si era nel cuore degli anni Settanta, “i Khmer rossi perseguirono ininterrottamente l’ideale dell’autosufficienza economica, nel loro caso nella versione delineata da Khieu Samphan nella sua tesi di dottorato nel 1959. Furono prese misure estreme. La valuta fu abolita, e il commercio interno e il commercio in generale potevano essere svolti solo tramite il baratto. Il riso, misurato in lattine, diventò il più importante mezzo di cambio, sebbene le persone barattassero anche oro, gioielli e altri oggetti personali” (Russell R. Ross, “Cambodia. A Country Study”, 1987). Hai capito… Ma siamo troppo maliziosi. Meglio (peggio) che sia la regione Toscana a decidere se e cosa coltivare, magari dopo aver abbattuto filari di cipressi dall’aspetto “stereotipato”, divelto vigne per farne pascolo ma non di specie qualsiasi, soltanto quelle autoctone e anche se non producono latte a sufficienza per competere sul mercato. Di per sé ci sarebbero anche spunti intelligenti, nella loro inattualità, e non solo per i polpottiani di complemento, ma a quanto pare gli agricoltori contemporanei e gli allevatori e i vivaisti non la pensano alla stessa maniera, quando si tratta di soppesare gli effetti pratici di tali sfoggi di ragion pura. Magnaghi lo sa: “Abbiamo un popolo ignorante che non è in grado, se non sorretto da protesi ideologiche, di autoriprodurre la propria vita”. Dunque, che fare? La conferenza di Magnaghi dura un’ora e un quarto, servono forza e pazienza per ascoltarla tutta. Chissà quanto ci si mette a leggere da cima a fondo le circa tremila pagine del PIT (corre voce che nessuno lo abbia fatto).


I cipressi che a Montalcino alti e schietti…
Fabrizio Bindocci è nato contadino ed è diventato manager delle più importanti aziende agricole della Val d’Orcia. Fa visita spesso al Cinelli Colombini, con il quale condivide la militanza in Confagricoltura, il cuore della battaglia contro il PIT (“se non ci fosse lui che studia tutto alla perfezione…”) e la tinta bordeaux dei mocassini lucidissimi, cuoieria artigianale che sa ormai di benessere, come la giacca autunnale maremmana. L’incazzatura è però, pur composta, veracemente terragna: “Non c’è una, dico una sola voce fuori dal coro: siamo tutti d’accordo nel dire che il PIT va riscritto, e bisogna riscriverlo tutti insieme”. Marson non ama i cipressi, mi sembra evidente, le fanno troppo oleografia per turisti in cerca di cartoline animate. “Ma come si fa a prendersela coi cipressi? A dire che banalizzano il paesaggio toscano? E poi che male c’è se i turisti vengono qui per ammirarli? Gli stranieri sono incantati da questo territorio, dalle nostre vigne ben pettinate e dalle nostre case coloniche restaurate con rispetto architettonico e paesaggistico. Senza contare che qui ci sono quattromila impiegati, non esiste un cassintegrato, un licenziamento”. Avete costruito un mondo falso e mercantile, e inquinate pure. “Noi siamo i primi custodi del nostro paesaggio, è vero che l’abbiamo modellato noi, ma se lei veniva qui 60-70 anni fa sa che cosa trovava?”. I calanchi. Ma quando si pronuncia la parola “calanchi” bisogna sapere – Marson sembra non saperlo – che Cinelli Colombini ha una conoscenza storico-orografica formidabile del suo territorio: “Il fattore che ha dato origine alle biancane, ai calanchi e a tutti quei fenomeni fu la catastrofe ecologica causata dal grande disboscamento del ’300, che causò la catastrofe ecologica di un terreno prima totalmente boscato. Non è un paesaggio naturale, è ciò che resta di una Seveso del medioevo”. In altre parole i Territorialisti si sono innamorati di un paesaggio reso lunare con le maniere cattive e lo contrabbandano come un unicum naturale. Il Bindocci rincara: “60-70 anni fa qui c’erano degrado, spopolamento, rocce solitarie, e il rischio di una industrializzazione selvaggia che un sindaco illuminato come Ilio Raffaelli seppe scongiurare. Dal 2004 il paesaggio di Montalcino è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, ora il PIT dice che va cambiato. E che siamo allora, tutti bischeri?”. Ci sono troppe vigne, troppi campi di grano o di ceci, la monocoltura è il nuovo nero, nel senso del male assoluto o per lo meno relativo alla Val d’Orcia. Sta scritto nel PIT: “Prevenire l’inopinata estensione dei vigneti su suoli argillosi, destinata solo a creare problemi idrogeologici e a compromettere la qualità della produzione”. “A parte il fatto che i vigneti impiantati su suoli argillosi, se realizzati in modo agronomicamente corretto, riducono l’erosione dei suoli e non la aumentano; e che è opinabile che la qualità del vino ottenuto da vigneti in argilla sia inferiore a quella di un vigneto realizzato in altri suoli, per esempio tutto il Barolo è prodotto nelle crete delle Langhe; a parte questo, l’assessore Marson dovrebbe sapere che qui ci sono dodicimila ettari di boschi e solo tremilaseicento di vigne, ulivi, seminativi e pascoli. Lei è mai andato nelle Langhe o nello Champagne? Si faccia un giro lì, così vedrà davvero che cos’è una monocoltura. E guardi che non siamo soltanto noi di Montalcino a ribellarci, il malcontento arriva fino alle cave di Carrara”. E l’inquinamento? “Fortuna ha voluto che cinque anni fa avessimo fatto un progetto di rilevazione sul territorio, con l’analisi scientifica delle acque. Ebbene nelle falde non risulta alcun inquinamento da concimi e antiparassitari, e invece oggi la regione ci tratta come se sparassimo azoto a go go, ma per ottenere cosa, poi, delle giungle brasiliane?”. Altra accusa: vi state appropriando di pascoli, attentate alla biodiversità. “Guardi, dove ora c’è la terra dei Banfi, prima sa che cosa c’era? C’erano pescheti, terreno agricolo coltivato! Altro che pascolo: a Pian di Rota prima delle vigne c’era il seminativo”. E gli smottamenti, le esondazioni? “Quando l’Orcia esonda non stravolge niente. Qui da noi si dice che il fiume anche dopo cento anni ritorna sempre nello stesso posto, ci siamo abituati. Ma a Montalcino non ci sono frane e smottamenti. Qui facciamo gli agricoltori e siamo le prime sentinelle del territorio, abbiamo appena mandato alcuni escavatori per realizzare dieci, dodici chilometri di fossa manutentiva, non incanaliamo mai troppa acqua tutta insieme, sappiamo lavorare. Mandateci pure via di qui, sapete che succederà? Arriveranno dissesto e incuria”.

Il PIT spiega (si fa per dire, visto lo stile oracolare) che “l’intensificazione delle attività agricole e la riduzione e frammentazione dei relittuali nuclei forestali costituisce una forte criticità anche quando si realizza in aree agricole con residuali funzioni di connettività”. Cinelli Colombini obietta metodico: “I ‘residuali nuclei forestali’ coprono il 41 per cento della superficie del comune di Montalcino. Non mi pare che l’attività agricola recente li abbia limitati e anzi, si sono ininterrottamente estesi negli ultimi 200 anni”. Il Bindocci rincara: “Lei l’ha mai letto un libro sui boschi? Lo sa che cos’è una matricina? E’ la pianta grossa, la madre, quella che non si deve tagliare mai. Ne lasciamo tot per ogni ettaro, di matricine, secondo la legge dello stato e secondo le disposizioni della Forestale. E il mondo ci dice chapeau per come amministriamo il territorio”. Volo pindarico: e le villette a schiera di Monticchiello? E le nuove aree residenziali presso Pienza? Bruttine eh. Altre criticità, dice il PIT. “Insisto, se non si può costruire un po’ resteranno solo povertà e abbandono. La gente ha diritto al decoro”. Messaggio conclusivo: “Quelli che vogliono stravolgere il territorio non siamo noi. La natura incontaminata non esiste, è un parto della fantasia di chi farebbe bene a ritagliarsi dei disegni e appenderseli alle su’ finestre, se non un gli va di vedere tracce umane”. E se alla regione non vi ascoltano? Se vi vieteranno di vendemmiare alla maniera vostra? “Siamo pronti a mettere millecinquecento trattori su strada e a marciare su Firenze, come hanno fatto i francesi sugli Champs-Élysées. Se si può evitare è meglio, ma se è inevitabile io ci vado, col mio trattore”.

“Cesare ordinò che questa selva venisse abbattuta a colpi d’ascia; essa infatti non aveva subito danni nella guerra precedente e si innalzava, foltissima, tra i monti già privati dei boschi, vicino alle opere di fortificazione. Ma le forti braccia tremarono e, scossi dalla maestà del luogo che incuteva timore, i soldati erano convinti che, se avessero percosso i sacri tronchi, le scuri sarebbero tornate indietro colpendoli” (Lucano, “Pharsalia”).

La nostra crescita dolce e felice
Silvio Franceschelli è del Partito democratico e fa il sindaco a Montalcino, riceve in maniche di camicia in una sala disadorna che non è la sua. Calvo, corpulento e mite, ha senza dubbio più capelli che buone ragioni per fidarsi del PIT, e infatti non si fida. Vorrebbe essere conciliante, e all’inizio lo è. “Sappiamo che da parte della regione c’è una disponibilità di massima a ridiscutere alcuni punti del PIT”. Epperò. “Però abbiamo bisogno di fatti, non di aperture di credito. Il problema del Piano per la Toscana è che non si capisce ancora se sia solo indicativo o anche prescrittivo-restrittivo. Non è una differenza da poco, visto che poi noi sindaci saremo chiamati ad attuarlo comune per comune”. Il sindaco di Montalcino è un po’ offeso e lo dà a vedere. “Il PIT non ci rende onore, se corrispondessimo alla descrizione che viene fatta di noi, saremmo davvero poco intelligenti. Deturpatori… inquinatori… banalizzatori del paesaggio con i nostri cipressi e i nostri vigneti”. Balle? “Balle. Chi fa tanti chilometri per venire fin qui si aspetta i vigneti, perché la vigna è un tratto imprescindibile di questa terra e un segno evidente del suo benessere, oltretutto i vigneti occupano solo il 10-15 per cento del suolo”. Tremilaseicento ettari, me l’hanno detto il Cinelli Colombini e il Bindocci. “Appunto. E le avranno anche detto che la disoccupazione qui è allo zero per cento. Un tempo si diceva che il Brunello era essenziale per salvare Montalcino, adesso bisogna che Montalcino e i suoi abitanti si mobilitino per salvare il Brunello. Il buon Dio ha fatto le nostre colline, noi ci abbiamo fatto del buon vino”. Sulle terrazze alluvionali dell’Orcia… “Qui le terrazze alluvionali arrivano fino a duecentocinquanta metri di altezza, cioè quasi in collina, non me lo invento io, lo dicono gli agronomi”. Insomma ’sto PIT è una ciofeca. “I presupposti storici e le finalità di salvaguardia sono condivisibili”. L’inizio e la fine.

“E’ quel che ci sta in mezzo a non funzionare. E poi doveva essere più preciso, ma pure più sintetico. Chi se le legge tremila pagine? E quante cose costrittive si possono trovare nelle pieghe di un documento così vago?”. Scrittura da filosofi. “Ecco, sì, troppo astratto, una cosa da filosofi ma con ricadute pratiche che possono essere pesanti. E poi si potevano evitare certi giudizi moralistici, perfino sulla qualità del nostro vino, che sanno troppo d’invidia”. Vogliono farvi decrescere un po’, programmare il ritmo del vostro arretramento benecomunista. “Mi aspettavo il contrario, che ci chiedessero piuttosto come esportare il modello Montalcino. Noi non vogliamo decrescere, amiamo la crescita dolce e felice come le nostre colline, quella che attira gli investitori internazionali”. Ah! Le multinazionali… gli stranieri… gli agriturismi e il turismo termale… Tutti orrori da estirpare per i polpottiani del PIT. “Sto parlando di imprenditori che sono capitani d’industria, non di ventura, e che nei rispettivi paesi hanno la base del loro successo finanziario, un successo che consolidano qui, con investimenti piccoli, mirati ma redditizi per tutti, come un gioiello da mettere al dito. Oggi questi investitori si ritrovano imprigionati come noi nelle maglie del PIT. Come se non bastasse la burocrazia italiana, così lunga e cespugliosa, adesso la regione si mette a cambiare radicalmente le regole del gioco. Alle riunioni dell’Anci già mi prendono in giro: ‘Abituati a bere acqua, Franceschelli, ché tanto il vino non te lo fanno fare più’”. Non resta che marciare su Firenze. “La marcia su Firenze fa titolo, lo so bene. Però sono ancora fiducioso che si possa evitare”. Altrimenti? “Se non ci danno risposte adeguate, il territorio non resterà inerte e inerme”.

“Cesare – non appena vide che le coorti erano avviluppate come da una sorta di profondo torpore – per primo ebbe l’ardire di dar di piglio a una bipenne e di calarla con forza su un’alta quercia; così poi parlò tenendo il ferro ancora affondato nel tronco che aveva contaminato: ‘Ormai – perché nessuno di voi abbia la più piccola esitazione ad abbattere il bosco – credete pure che sia io a compiere la profanazione’” (Lucano, “Pharsalia”).

Un piano paesaggistico scritto per Heidi
Nel PIT sta scritto che la principale criticità di Montalcino sono le colture di vigna, olivo e grano; sono precisamente le colture praticate da millenni in Val d’Orcia. L’obiettivo dichiarato è “ricostruire la vecchia maglia colturale media e medio ampia” ovvero ridurre la dimensione dei vigneti, frazionandoli in infinite piccole unità non adatte alla coltura meccanica (cosa che in effetti gli estensori del PIT aborrono) e rendendoli economicamente troppo costosi da gestire. I polpottiani del PIT pretendono di interpolare “elementi vegetazionali e non colturali”, siepi e alberature di proda che creano ombreggiatura sulla coltura e zone umide che favoriscono la proliferazione delle malattie. Risultato: forte aumento dell’uso di fitofarmaci e conseguente rischio di inquinamento ambientale. Considerato che la cerealicoltura già opera al di sotto del livello di sussistenza, imporre altri gravami costosi, caveat e deterrenti, a chi dovrebbe giovare? In linea di principio dovrebbero esultare gli allevatori, destinatari delle aree dismesse dai vigneti e dai seminativi ceralicoli. Ma così non sembra, anche gli allevatori sono contrari all’ideologia del PIT.
Uno di loro, Fausto Ligas, è anche presidente provinciale della Coldiretti che non è esattamente un covo di liberisti. Ligas è un sardo-toscano con scarpe grosse e dure come l’oro che porta al collo e al polso; al primo sguardo gli affideresti non soltanto un gregge ma la fattoria intera, s’indovina che saprebbe farci soldi quanto bastano per sé e per te. E’ uno dei più feroci antipatizzanti di cui può fregiarsi l’assessore Marson. Ma chi glielo fa fare, visto che il futuro della Toscana è assegnato ai pascoli? “Che me ne faccio dei pascoli se poi la regione mi obbliga a metterci soltanto pecore e vacche autoctone che non fanno reddito? Questi hanno scritto un piano paesaggistico pensando a Heidi, al pastore che dorme abbracciato alle pecore, ma questa è roba da sognatori, da poeti. Lo dicevano già i Latini: la poesia non dà da mangiare e noi qui siamo piccoli imprenditori, ci lascino lavorare in pace”. Il problema principale è che le razze autoctone non sono convenienti, e quelle forestiere non piacciono ai polpottiani.


La Cinta senese è diventata minoritaria fin dagli anni Sessanta, troppo grassa. La vacca Maremmana pure, poca ciccia e tutta corna, buona per farci l’aratura quando non c’erano ancora le macchine. “Io mica sono contrario a che sopravvivano tutte le nostre belle varietà di animali, sia chiaro – dice il Ligas – ma tu non puoi impedirmi di far pascolare una pecora da latte sarda o francese e costringermi invece a tenere pecore che fanno tanta lana e poco latte”. La lana in Italia non la produce più quasi nessuno, costa troppo, si smaltisce a fatica anche a sotterrarla (ed è vietato) e nemmeno brucia, come sa chiunque calpesti un buon tappeto dentro casa propria (nei suk orientali usa ancora accostare la fiamma a un filo del tessuto per verificarne la qualità). “C’è poco da intervenire – continua il Ligas – in Toscana i prodotti principali sono vino, olio e grano. Il pecorino viene dopo. Chi ha scritto il PIT immagina una politica assistenzialista che non tiene conto di tutto questo. Ci servono soltanto poche regole chiare e attuabili da tutti, alcuni paletti vanno anche bene, ma poi decido io quel che fare all’interno dei miei paletti. Sono anni che lo facciamo, e senza aver fatto chissà quali studi: abbiamo trovato un equilibrio tra la produzione (e il prezzo) dei cereali e la zootecnia, curiamo i boschi e li tagliamo, sì, per evitare che il sottobosco scompaia, abbiamo modellato la Toscana, per fortuna o per bravura, ma non bene, di più! I turisti vengono qui e noi gli diamo un fazzoletto di terra dove degustare vino, pici e salame; ma per farlo deve essere anche conveniente e fare reddito. Il tempo dei sognatori è finito”. Mi sa che con i polpottiani finisce male. “Non era mai successo prima che tutto il nostro sistema venisse messo in discussione, sembra che solo la Marson abbia capito come funziona il mondo. Questi sono ideologi, ma non penalizzano solo Barbi, Frescobaldi, Banfi e Antinori, cioè i grandi produttori di vino; questi mettono in crisi chi ha due ettari di terra e prova a farci un po’ di vino”. Resta una minima speranza. “Si avvicinano le elezioni e Rossi è stato riproposto da Renzi, dovrà guardarsi intorno e capire che sul PIT si gioca la sua campagna elettorale”.

Anche Flora marcia su Firenze
“L’espansione del vivaismo verso la pianura pratese costituisce una rilevante minaccia per il residuale paesaggio agricolo di pianura”. Riecco il PIT, riecco Pol Pot: ce l’ha anche con la dea Flora. E c’è dunque un’altra categoria pronta a marciare su Firenze, i florovivaisti che tra Pistoia e dintorni producono da soli circa il 27 per cento del prodotto interno lordo toscano. Una potenza in rivolta. Il presidente della Coldiretti di Pistoia, Mario Carlesi, ha usato toni di patriottismo dannunziano – “Siamo come quei soldati che sulla linea del Piave hanno difeso l’Italia quando le sorti della Prima guerra mondiale sembravano infauste” (www.floraviva.it) – e ha poi spiegato che i vivaisti non vogliono quattrini pubblici come contropartita per le limitazioni cui i nuovi khmer vogliono sottoporli. I vivaisti stanno già bene così: “I vincoli presenti nel piano paesaggistico mettono a rischio la permanenza stessa del tessuto produttivo vivaistico limitandone lo sviluppo e questo rappresenta una seria minaccia anche all’occupazione, è a rischio oltre il 60 per cento dei posti di lavoro diretti e indiretti. Senza una revisione completa del PIT non saranno i tanti finanziamenti, che potrebbero arrivare, a risollevare il vivaismo pistoiese, che colora e rende ricca la piana pistoiese”.

La valle delle piante in provincia di Pistoia – rivendicano i vivaisti – realizza oltre il 40 per cento della produzione nazionale di piante ornamentali, 1.500 aziende e 5.500 addetti diretti che diventano 10.000 con l’indotto. “Una storia iniziata oltre un secolo fa e proseguita grazie a innovazioni continue. Che oggi sono orientate all’ecosostenibilità, ambientale ed economica”. La Coldiretti pistoiese la pensa esattamente come la Pallacorda di Montalcino: “Non si preserva in eterno il paesaggio se non c’è un’attività economica che produce utilità. A Pistoia abbiamo sviluppato un modo bello di fare impresa: producendo piante: 5.000 ettari di colture che restituiscono ossigeno e occupazione. Una cintura di verde attorno a Pistoia, Quarrata, Agliana, Serravalle Pistoiese che lo stesso Piano paesaggistico della regione auspica si sviluppi in altre aree”. Ma allora dov’è il problema? “Il piano paesaggistico offre spunti e consigli, strade che il vivaismo ha già intrapreso. Anche perché è il mercato che ci chiede piante certificate. E oggi un quarto della superficie vivaistica del distretto pistoiese è già certificato o è sulla via della certificazione verde secondo i rigorosi criteri del programma ambientale per la coltivazione di piante ornamentali (che non è il solo)”. Ed è così che anche i vivaisti della Toscana accusano Marson d’essere nemica delle Muse, dell’armonia e della bellezza, oltreché del libero mercato: “Non si può da un lato definire la piana pistoiese come zona vocata (legge sul vivaismo), e dall’altra produrre un documento che tratta la coltivazione di piante ornamentali come attività non agricola e accusando chi cura il paesaggio di deturparlo”.

A parlare con il Foglio è ora Francesco Mati, che con i fratelli Andrea e Paolo è titolare di un piccolo importante vivaio pistoiese fra i più antichi in Europa (Piante Mati, il suo nome: fondato da Casimiro nel 1909, nasce come stabilimento orticolo a conduzione familiare e successivamente viene trasformato in azienda vivaistica. Oggi è guidata dalla quarta generazione di Mati, mentre la quinta muove i primi passi d’apprendistato). Come il Cinelli Colombini e il Bindocci, anche il Mati milita in Confagricoltura, ma di lui non si può dire che stia già scaldando il trattore (magari seguìto da un bel corteggio di Apette Piaggio popolate da amici floricoltori) in vista della marcia su Firenze. Anzi dice che “in questo momento le armi della diplomazia sono ancora imprescindibili: ci hanno chiesto di fare le nostre osservazioni, le stiamo facendo con le associazioni di categoria, è bene parlarsi con le istituzioni”. Sull’analisi del Piano Pol Pot, tuttavia, non ci sono differenze rispetto agli arriabbiati col trattore. “Noi non produciamo inquinamento, noi produciamo ossigeno e bellezza. Non possono venire a dirci che siamo un ostacolo per il corretto sviluppo del territorio e del paesaggio”. Esistono opinioni diverse sullo stesso paesaggio, evidentemente. “Il paesaggio toscano è il frutto di una presenza storica attiva, agricola e non soltanto agricola. Non è come per le Tre Cime di Lavaredo, dolomia inerte fino allo sgretolamento naturale, qui il paesaggio è fatto di imprese che già fanno i conti con vincoli rigidi, e che, se imprigionate da regole ancora più costrittive, finiranno per abbandonare il territorio e lasciare il paesaggio a se stesso. Il PIT dovrebbe essere concepito per tutelare il paesaggio, ma così com’è lo mette in pericolo”. Senza contare le ricadute economiche. “Le nostre imprese contraggono mutui, fatturano bene, hanno molti dipendenti, non possono dirci ‘ora via tutti’. Ogni causa ha un effetto”. Devono ascoltarvi. “Ripeto, parliamone tutti insieme. Ma a mali estremi estremi rimedi”.

“Allora la folla dei soldati si accinse a obbedire, non perché fossero tranquillizzati per aver eliminato i loro motivi di perplessità, ma perché valutavano l’ira degli dèi e quella di Cesare. Piombarono a terra gli orni, furono abbattuti gli elci pieni di nodi, e le querce di Dodona, gli ontani – che costituiscono il legname più acconcio per costruire imbarcazioni – e i cipressi, che testimoniano il lutto delle classi alte, allora per la prima volta furono privati delle loro chiome e, tolte le fronde, fecero passare la luce del giorno e i densi tronchi mantennero in piedi il bosco che stava cadendo, per quanto ci si accanisse contro di esso. Le popolazioni galliche, a tale spettacolo, emisero gemiti, ma i soldati, all’interno delle mura, esultarono” (Lucano, “Pharsalia”).

De re aedificatoria
Possibile che certi orrori nascano proprio a Firenze? Come se i Medici non fossero mai esistiti. Come se non fosse qui, nella capitale dell’Umanesimo il cui nome racchiude il sorriso verde di Flora, che l’eccelso urbanista Leon Battista Alberti venne per incontrare Filippo Brunelleschi, Donatello e Masaccio.

E’ possibile. Se n’è accorto anche l’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) la cui sezione toscana, il 4 settembre scorso, ha pubblicato un documento severissimo con il Piano paesaggistico regionale (PPR, è un altro modo per chiamare il PIT). Fin dalla relazione introduttiva del presidente Enrico Amante, le considerazioni sono inesorabili: “In primo luogo si tratta di un lavoro ‘a mezzo’, in quanto il Piano non opera alcuna selezione tra le aree tutelate ex lege e non individua le aree compromesse e degradate […]. Un altro difetto d’impostazione, inficiante in radice la costruzione del Piano paesaggistico adottato dalla regione Toscana, risiede in una visione ‘panpaesaggistica’ sottesa allo strumento. Nella costruzione costituzionale, la tutela paesaggistica deve sottendere ad assicurare la compatibilità paesaggistica delle trasformazioni, se consentite e come conformate dagli strumenti urbanistici: difatti governo del territorio, ambiente e paesaggio sono materie distinte, che presiedono alla cura di interessi pubblici diversi. Invece, il Piano adottato dalla regione Toscana nega la distinzione tra governo del territorio e paesaggio, intendendo conformare le attività dell’uomo sul territorio attraverso l’unica lente della tutela paesaggistica”. Amante sta dicendo che i khmer della regione Toscana ignorano la differenza tra chi consuma suolo per riqualificare un paesaggio altrimenti degradato e chi, occupandolo o abbandonandolo, finisce per degradarlo. C’è dell’altro e questo altro arieggia le argomentazioni principali ascoltate fin qui: “La disciplina del Piano paesaggistico, tra parte generale e schede d’ambito, appare poco chiara e permeata di prescrizioni generiche”. Con effetti facilmente prevedibili: “La vaghezza dei precetti imposti, accompagnata dalla cogenza e prevalenza che l’ordinamento accorda alla disciplina paesaggistica rispetto alle altre fonti regolamentari, rischia di ingenerare nei prossimi anni un notevole caos interpretativo”.

Seguono poi, nel documento dell’Inu, altre ricognizioni di natura tecnica, ma sempre negative e ben riassunte dalle parole dell’urbanista Fabrizio Cinquini: “Il dispositivo normativo così strutturato, in sostanziale antitesi rispetto ai metaobiettivi annunciati e con i princìpi della Convenzione Europea, propone una visione del paesaggio che risulta ‘sterilizzata’ e conformata al solo livello regionale, inevitabilmente appiattita sulla dimensione paesaggistica (tipicamente ancorata, anche per l’impostazione voluta dal ministero, a mere condizioni di tutela e conservazione), che elude le possibilità di interazione e socializzazione con il livello locale e che prefigura, anche per l’assenza di una commisurata e conseguente rivisitazione della componente strategica, una struttura e un modello territoriale paradossalmente statico (fallendo o comunque indebolendo la potenziale valorizzazione), tendenzialmente immutabile e rinuncia alle capacità di determinare la propria contemporaneità e di delineare al contempo le condizioni e le regole per realizzare e innovare (in un’ottica di compatibilità e sostenibilità) il futuro paesaggio toscano”. Bocciatura completa: il PIT è un parto fantasmatico per utopisti, feticisti, divinizzatori di un malinteso senso del paesaggio dai tratti minerali e sostanzialmente anti umani. Una brutta scoperta, per la patria dell’Umanesimo.

Tra Euripide e Nico Orengo
Se Euripide fosse nostro contemporaneo, e abitasse in Val d’Orcia, manderebbe tutti a quel paese e poi, le mani nei capelli (quei pochi che aveva), brucerebbe il manoscritto delle sue “Baccanti” sull’ara di Fufluns-Pachiens, il nume etrusco del vino (da cui il latino Bacco). Nemmeno lui avrebbe potuto immaginare una versione tanto squinternata dell’eterno conflitto tra il re tebano Penteo e il muggente Dioniso, tra una sovranità ciecamente bigotta e il dio del fuoco liquido che travolge la mente. Certo qui non è in questione soltanto la sorte del vino toscano, che però è parte principale nel dramma satiresco in corso, e lo è a parti invertite: questa volta Bacco è il regnante da spodestare, e una setta di visionari post settantasettini cerca di farlo arretrare in nome di un rapporto irenico ma ottuso con la natura. Natura che di suo, come insegnano i maestri del Rinascimento, è sia forza naturante che forma naturata dall’uomo. Qui sta il segreto di ogni grande opera (si parla di ermetismo, non di Tav).

Se poi volessimo intenerirci con una spruzzata di letteratura contemporanea, potremmo prestare ai nostri polpottiani la voce di Luciano, il tassista devoto alla birra forgiato da Nico Orengo nel suo libro “Di viole e liquirizia” (Einaudi, 2005), un simpatico antieroe delle Langhe che gioca a deludere i sogni vignaioli del sommelier francese Daniel, trapiantato ad Alba alla ricerca di estasi enologiche piemontesi. Luciano detesta le onde verdi e quiete e sciabordanti avviticchiate sulla terra delle Langhe: “Un paesaggio monotono: colline e colline di vigna tutte uguali. Non c’è più un albero da frutto… tagliati tutti i frutteti per far posto alla vigna… vede un orto? Via anche quelli, tanto c’è la Coop e un presidio di Petrini, sperso chissà dove… abbiamo una bella fantasia o no?”. E ancora: “Per essere inventivi siamo inventivi. Qui in Langa è tutta un’invenzione… ci siamo inventati un paradiso di vigna per amanti del vino… colline da far invidia alla Toscana. Tutte balle. Qui non sai cosa fare se non mangiare ed ubriacarti, se te lo puoi permettere”. E infine: “Io di tutta ’sta retorica del vino non ne posso più. Abbiamo oramai solo quello e ci costruiamo castelli di balle. E non c’è più posto per niente, per un ricordo, sembriamo nati tutti signori da quando questa non è più terra di malora”.

Potente geometria delle passioni atrabiliari. Il fatto è che la Toscana non è più terra di malora dall’epoca degli Etruschi, che il vino sapevano farlo e amavano trapiantarlo. Nemmeno il passaggio dei Goti in occasione del sacco di Roma, che dopo il 410 dell’èra volgare rese così periglioso il famoso Reditus di Claudio Rutilio Namaziano da Roma alla Gallia, riuscì a deturpare l’agro toscano per troppe lune. Né il cencioso Medioevo né l’età dei Comuni poterono impedire (au contraire: “Guarda il calor del sole che si fa vino / Giunto a l’omor che della vite cola”, cantava Dante) che l’homo tuscus continuasse a modellare i suoi declivi collinari sentendosi al centro di una perenne età dell’oro punteggiata di boschi e pascoli bradi come di vigneti e distese di grano, ma anche di cave, miniere, strade basolate, acquedotti. E non era quella, come non può esserlo oggi, una statica economia di sussistenza. C’erano mercanti che mercanteggiavano, pirati (anche di Stato) che pirateggiavano, reticoli di contatti e popolazioni lungo i quali la mano dell’uomo scolpiva l’ambiente circostante secondo le leggi sacre della vita comune e il calendario della natura. Poco è cambiato da allora, gli abitanti di Murlo hanno ancora lo stesso Dna dei loro progenitori tirreni. Perché privarli della loro identità trapiantando Pol Pot lì dov’è ancora la Felix Etruria di sempre? E niente, per rospondere bisognerà recarsi dall’assessore prof. arch. Marson in Pol Pot.

Breakfast at Phnom Penh
Anna Marson riceve puntuale di buon mattino a Palazzo Strozzi Sacrati, bisogna riconoscerlo: non presenta tracce di sangue innocente o colpevole che le gronda dagli artigli (non ha nemmeno gli artigli, se è per questo), non mostra i tratti della torturatrice khmer, al massimo tradisce un po’ di nervosismo quando sorride arricciando il naso e cerca conforto negli occhi della sua assistente. Con lei bisogna giocare a carte scoperte, premettere che qui si antipatizza forte verso la sua causa, rimettere in fila i capi d’accusa principali e offrire diritto di replica: assessore, queste nostre pagine sono pregiudizialmente anti polpottiane, altro che bagno di sangue, abbiamo dato voce a quelli che la detestano, sono tanti, anzi tutti. Lei, che non è nemmeno toscana (“mi accusano pure di questo? Ma vivo qui da 18 anni!”), ne esce come la signora Pol Pot (per non dire di suo marito, ma poi ne diciamo ancora), come l’è venuto in mente ’sto PIT?

“Punto primo: il PIT era stato formulato nel 2007, noi l’abbiamo ereditato e integrato avviando dalla fine del 2011 la redazione del nuovo Piano paesaggistico. Ci hanno lavorato docenti ed esperti dei cinque principali atenei toscani: le Università di Firenze, Pisa, Siena, la Scuola Normale Superiore e la Scuola Sant’Anna di Pisa. Tutti gratuitamente”. Due anni di lavoro. “Il 2 luglio scorso il Consiglio regionale l’ha adottato e da allora è su internet perché chiunque potesse leggerlo. Ho passato l’estate impegnata in un ‘Tour del paesaggio’ per spiegare il PIT alle amministrazioni locali e alle diverse associazioni toscane. Il nostro Garante della comunicazione ha dato conto di tutto”. E ieri sono scaduti i termini per le così dette osservazioni. “Ora si procederà con un’istruttoria nella quale vedremo di recepirne le più motivate. Poi si torna in Giunta, si aspetterà il parere della commissione consiliare competente, Ambiente e territorio, quindi si andrà in Aula per il voto”. Prima delle elezioni regionali di primavera. “Certo, entro gennaio”. Verranno coi trattori, perfino quelli della Cia che sono de sinistra, assessore, se ne rende conto? “La Cia è stata l’unica associazione a consegnarci un dossier, ma ce l’ha dato tre giorni prima dell’adozione del Piano.

Quanto ai trattori, non lo sapevo. Penso ci siano dietro manovre economiche… due giorni fa hanno comprato un’intera pagina pubblicitaria su Repubblica. Cose che costano”. Eh ma se non lo si dimostra… e poi i consorzi toscani sono ricchi, si staranno autotassando. “Però sono dimostrate due cose: che in dieci anni il settore agricolo toscano, tra fondi regionali e fondi europei, ha ricevuto circa 150 milioni di euro; e che il sostegno europeo all’agricoltura, dalla metà degli anni Duemila, è caratterizzato dalla così detta ‘condizionalità’, di cui noi abbiamo tenuto conto nel nostro Piano. Significa questo: io ti do i fondi in cambio di un approccio greening, cioè tu nell’impiegarli devi adottare accorgimenti precisi, non puoi ottimizzarli solo per la tua impresa, devi anche infrastrutturare in modo ecologico e multifunzionale”. Di qui tutto il casino del PIT. “Il PIT non offre carote, d’accordo, ma ho l’impressione che parte della protesta sia manipolata da chi vorrebbe cancellare la ‘condizionalità’ europea e sta sollevando artatamente tanti bravi agricoltori incolpevoli”. Ma avete fatto arrabbiare tutta la Val d’Orcia! “Essere dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità non è solo un titolo, è anche un vincolo”. Tutte quelle regole generiche e cespugliose… “E’ un falso problema”. Allora mettiamo ordine. “Il Piano è chiaro, come hanno riconosciuto i giuristi chiamati a giudicarlo, e si articola in tre dispositivi: le indicazioni che sono soltanto orientamenti e che non prevedono sanzioni in caso di mancato rispetto; le direttive, cioè norme generali che vanno ulteriormente discusse durante il recepimento dei comuni e che possono essere motivatamente disattese, perché esigono coerenza e non conformità, e se fossero state più precise avrebbero invaso lo spazio di discrezionalità dei comuni; infine ci sono le prescrizioni, che sono norme anche molto puntuali, riguardano prevalentemente i beni paesaggistici, servono a semplificare e rendere trasparente la vita anche dei soggetti privati nelle aree già vincolate dallo stato”.

Ma che vi hanno fatto di male i vigneti e le monocolture? “In alcune zone limitate i vigneti sono troppo estesi, bisogna solo limitarne l’espansione. Le nostre indicazioni dicono: fateli pure i vigneti, ma in un altro modo, senza omologare il territorio con unità colturali di minimo cinque ettari ripetute più volte senza soluzione di continuità”. E i poveri cipressi, li farete abbattere tutti? “No! Sui cipressi non esistono divieti, c’è soltanto un nostro giudizio di incoerenza. Un tempo avevano un ruolo ben preciso, segnalavano zone di confine, conducevano a qualcosa di rilevante per la collettività. Adesso ogni casa colonica si fa il suo ingresso con i filari di cipressi, per noi questa è una sgrammaticatura: lo segnaliamo, non lo vietiamo”. Noi ci crediamo pure, però l’associazione degli urbanisti toscani ha scritto cose durissime sulla vostra concezione museale, statica, sterilizzante e anti umanistica del paesaggio. Sobbalzo di Marson. “Io stessa sono un membro effettivo, in sonno, dell’Inu, ma, da quando l’Istituto non è più presieduto da Adriano Olivetti, l’Inu si è occupato più di politiche professionali che di cultura dell’urbanismo. E’ più vicino alle posizioni dell’Anci (l’associazione che riunisce i comuni, ndr), molti urbanisti sono consulenti o tecnici comunali. Inoltre a proposito delle accuse di ‘staticità’ che ci hanno rivolto, le ricordo che il PIT è dedicato ‘alle molte generazioni che con il lavoro quotidiano hanno costruito e mantenuto i paesaggi in cui abbiamo la fortuna di vivere’. E che ha in esergo questa frase di Cesare Brandi, la legga”. Leggo: “Questa campagna, voi la visualizzate subito con i suoi cipressi, i suoi ulivi, i suoi filari, ordinata e pulita come una casa povera dove tutto è al suo posto. Ma non è così o non è solo così. Si può capire meglio, forse, guardando un cane che dorme, una vacca che, distesa, digruma, e si vede quella pelle spessa che segue il corpo e là ricasca, qui fa una piega o un montarozzo, ma senza stacco: continua al di sotto, perché è un corpo con i suoi muscoli e l’adipe, mentre le ossa sono come un fossile dentro la terra. Ora la campagna toscana è così, come una grossa bestia che riposa e la terra segue i muscoli, li rimodella teneramente”.

Molto bella, ma poi agli allevatori come il Ligas, che rispondiamo… gliele facciamo allevare le pecore sarde oppure solo razze autoctone senza latte e vacche Maremmane tutte corna e niente ciccia? “Non c’era nessun obbligo, nel Piano, pensavamo fosse meglio incentivare l’allevamento di razze autoctone e comunque quella indicazione la togliamo”. Oh! E ai vivaisti come il Mati, solo botte? “Che i vivai toscani, per come si sono sviluppati, costituiscano un problema per il territorio lo dice il Consiglio regionale che non a caso ha prodotto un apposito regolamento per una maggiore sostenibilità ambientale”. Tutti i vivai? “Non tutti, i piccoli no. Ma ci sono grandi estensioni di vivai senza soluzione di continuità, sopra tutto nel pistoiese, che comportano trasformazioni significative del paesaggio. La vasetteria, per esempio, con tutti quei grandi teli che coprono immense aree…”.
Niente da fare, i polpottiani adorano le soluzioni di continuità, detestano i grandi spazi metropolitani e di monocolture, non amano la realtà che si frappone allo sguardo sognante. Nel Piano, per dire, si parla di una “mappa inedita per gli orizzonti visivi” realizzata “attraverso l’applicazione di algoritmi” che consente di “prevedere da quali punti di vista una trasformazione sarà percepibile teoricamente, vale a dire al netto della presenza di ostacoli alla vista: un edificio, un bosco, etc.”. Questa “valutazione di visibilità misura la probabilità di ciascuna porzione del suolo regionale di entrare con un ruolo significativo nei quadri visivi di un osservatore che percorra il territorio”. Obiettivo: “Misurare l’impatto delle trasformazioni nelle ‘immagini’ della Toscana caratteristiche di diverse forme di fruizione/contemplazione del paesaggio”. Eccola, l’astrattezza di cui è lecito diffidare: se uno s’affida all’algoritmo che abolisce gli ostacoli, non finisce per innamorarsi di un paesaggio virtuale e per rifiutarsi di contemplare qualunque cosa al suo interno? Magari sbagliamo, ma forse si capiscono le ragioni della Pallacorda quando protesta perché il PIT, volendo tutelare le “visuali panoramiche” in quanto tali, impedirà di costruire alcunché: “In Toscana – dicono esasperati dalla Pallacorda – non c’è manco un metro di terra che non sia visibile da qualche paese”. Non c’è alternativa, torniamo ad attaccare a testa bassa: il PIT sembra la “Corazzata Potemkin” di Fantozzi, è troppo lungo ed è scritto in modo atroce. “Ammetto che abbiamo avuto problemi a ridurre a unità sufficiente le visioni multidisciplinari che hanno contribuito a… E’ un po’ carente nella sintesi linguistica, d’accordo”.

E poi diciamola tutta e veniamo al dunque, anzi veniamo agli attacchi personali all’assessore Anna Marson in Pol Pot: il PIT è il prodotto di una filosofia che ci pare forse nobile nelle sue premesse lunari ma anche astratta, settaria e divulgata con una prosa respingente, da gruppettari settantasettini in odore di eversione salottiera. Stiamo parlando della setta dei Territorialisti. “Intanto, se avesse visto come mi ha trattata il Tg3 di ieri, saprebbe chi è davvero Pol Pot, e certo non sono io. Dopodiché, non si può dire che il nostro sia il PIT dei Territorialisti, anche se mi piacerebbe che contenesse più territorialismo”. Hanno collaborato con voi. “Avevo due alternative. Potevo fare un bando europeo a scatola chiusa, costoso e affidato all’estero; oppure attivare tutte le competenze disponibili in Toscana, in un regime di accordi per sperimentare collaborazioni con le nostre migliori università. E abbiamo fatto così, con docenti non pagati e la disponibilità di alcune borse di ricerca”. Assessore, i Territorialisti sono guidati da suo marito, Alberto Magnaghi. Podere Operaio.

L’assessore a questo punto può soltanto irrigidirsi, sospirare rabbuiata. “Le avevo detto che avremmo subito un attacco anche selvaggio”. Silenzio, secondo sospiro: “Io ho un’altra storia rispetto a quella di mio marito. Ma se entriamo nei rapporti famigliari… se entriamo nei rapporti famigliari non posso che rispondere che mi sento ferita. E allora dovremmo entrare anche nei rapporti personali esistenti tra coloro che stanno orchestrando le diffamazioni rivolte al Piano”. Nient’altro da aggiungere? “Mio marito ha collaborato al lavoro sui sistemi insediativi, alla terza delle invarianti”. E… “non è stato pagato, naturalmente. Anzi, gli ho impedito di presenziare nelle commissioni preposte all’assegnazione delle borse di studio. Ma non lo scriva proprio così, la prego: non mi faccia divorziare da mio marito”. Ma no, quale divorzio, noi siamo per l’amore.
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