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venerdì 11 febbraio 2022

Le liti nei partiti e tra alleati, insulti a chilometro zero

di Antonio Polito | 10 febbraio 2022 Nessuno si fida di nessuno: forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia La pugnalata alle spalle, il tradimento, il complotto, l’abiura, l’autocritica. Il dizionario della lotta politica, in pieno XXI secolo e nonostante un governo di unità nazionale, rispolvera le parole e i toni della guerra fredda. Di un tempo in cui la delegittimazione tra avversari poteva almeno essere giustificata dallo scontro epocale tra visioni del mondo contrapposte. Così, se Di Maio non è d’accordo con il capo del suo partito, è perché è un essere «a forma di poltrona», è un «traditore», è «il Renzi del M5S» (non è chiaro se nella similitudine Conte ne sia il Bersani). E Di Maio, per difendersi, deve metterla anche lui sul piano della dirittura morale, per spiegare che pur avendo contrastato l’elezione di Elisabetta Belloni, capo dei Servizi, a capo dello Stato, lei è sua «sorella» (addirittura!), e garantire che le è stata sempre «leale», in un singolare capovolgimento dei ruoli per cui è il ministro della Repubblica che giura lealtà al funzionario. Giorgia Meloni, d’altra parte, non è più «disposta a fare buon viso a cattivo gioco», dove il cattivo giocatore, si direbbe quasi il baro, è Salvini, perché prende i voti del centrodestra e poi se li spende col centrosinistra, e d’ora in poi, se vuole ancora avere rapporti con lei, deve dare «garanzie» di non tradirla di nuovo alla prima occasione. «Stia all’opposizione senza romperci troppo i coglioni», aveva dal canto suo intimato il Capitano, anche lui incline all’uso politico dell’indignazione. E lo scontro non risparmia nemmeno i minori. Perché se la Meloni dice che non vaccina la figlia, vuoi che Salvini non corra ad annunciare che nemmeno lui vaccina la figlia, e Tajani invece che la vaccinerebbe subito, se solo ce l’avesse una figlia piccola? Poveri ragazzi, privati della privacy fin dalla più tenera età. Non si capisce fino a che punto i politici stiano imitando lo stile dei social, o i social abbiano assorbito quello dei politici; in una logica paranoica che prima o poi porterà qualcuno a definire gli avversari «pulci nella criniera del cavallo di razza», come fece Togliatti settanta anni fa con due dirigenti del Pci in dissenso, Magnani e Cucchi, bollati come «magnacucchi» (la infamia sul «venduto» funziona sempre: la colf di uno dei due espulsi si licenziò pur di non restare al servizio di un «traditore»). Ma mentre nel passato di solito ci si insultava tra nemici, oggi lo si fa molto spesso tra alleati o anche tra compagni dello stesso partito. Con il risultato che gli elettori, il popolo costantemente evocato e vezzeggiato, viene indotto a ritirarsi sdegnato da una competizione politica sempre più vuota di idee e piena di potere. Perché se Conte e Di Maio non si fidano l’uno dell’altro, se Meloni e Salvini non si fidano l’una dell’altro, se Renzi non si fida dei magistrati che lo stanno indagando, e i sovranisti non si fidano dei centristi che non votano la Casellati, e i leader non si fidano dei loro stessi ministri in odore di «poltronisti»; ma come pensate che gli elettori possano fidarsi di tutti loro, e fidarsi del Parlamento e del processo democratico, e affollare le urne quando è il momento? È infatti sulla fiducia che è basata la «grandiosa invenzione del sistema rappresentativo», il frutto migliore della Rivoluzione francese: il popolo esercita la sovranità attraverso una delega ai suoi rappresentanti, confermandogliela o ritirandola a scadenze fissate dalla legge. Forse non è chiaro il danno che questo «torello» continuo arreca alla credibilità della democrazia. Gli elettori vengono trattati da spettatori di un numero circense, eseguito da quegli stessi leader che ogni giorno rivendicano «il primato della politica», il bisogno che «torni in cattedra», e denunciano il complotto tecnocratico che mira a screditarla per prenderne il potere. Medico, cura te stesso, dice il Vangelo. E di certo i partiti sembrano tutti aver bisogno di un bagno di umiltà e di identità. Umiltà per ricordarsi che la vita pubblica di una nazione è più grande delle loro pretese. Identità per fermarsi un attimo a riflettere su chi sono (visto che le coalizioni non ce lo dicono più), che cosa vogliono (non basta volere ciò che i sondaggi dicono che la gente vuole), e quali regole si danno per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come prescrive la Costituzione (invece di passare il tempo dai notai, come se fossero società a responsabilità limitata).

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