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lunedì 31 dicembre 2018

L’ANNO NUOVO Dal 2018 al 2019, la magia di vivere il presente

Ribelliamoci all’egemonia della nostalgia e al desiderio di tornare a una vita mai esistita Il passato non sia un rifugio, ma un modello
  di Massimo Gramellini su "corriere.it"
Dal 2018 al 2019, la magia di vivere il presente shadow

Nell’anno che verrà vorrei ribellarmi all’egemonia culturale della nostalgia. Questo desiderio di fare ritorno a un passato mai esistito che permea il dibattito politico e le nostre vite. Si tratta di una gigantesca «fake news» che anch’io mi racconto a giorni alterni. Quando il bisogno di lamentarmi delle oscure macchinazioni orchestrate ai miei danni prevale sulla voglia di assumermi la responsabilità del mio destino. Allora divento nostalgico, malinconico, rivendicativo. E mi perdo nel rimpianto di un piccolo mondo antico dove tutto era semplice, chiaro, a portata di mano. Si usciva dalla casetta per passeggiare nella piazzetta e oziare tra i negozietti, senza paura di essere importunati dal clandestino e aggrediti dal malandrino. Un mondo rassicurante. Un po’ noioso, forse. Ma in ogni caso immaginario. Il passato, quando si chiamava presente, non era affatto così. Ci si alzava la mattina in stanze raffreddate dalla crisi petrolifera che aveva razionato il riscaldamento.

Per leggere il giornale senza uscire di casa non c’era l’iPad, ma bisognava confidare nella puntualità del postino e nella cortesia del portinaio incaricato di depositare il manufatto sullo zerbino. L’automobile di papà inquinava come un congresso di tabagisti turchi. Ai semafori le persone gettavano le cicche e le cartacce dai finestrini abbassati con la stessa spensieratezza con cui oggi guardano il volo di una farfalla. Poi li riportavano su a mano, ma spesso la manovella si incantava e il vetro restava a mezz’asta, provocando brividi non sempre piacevoli, specie d’inverno. A scuola le classi accoglievano fino a quaranta alunni: la prima mezz’ora andava via solo per fare l’appello. La percentuale di bulli che ti sequestravano la merenda era identica a quella attuale, ma non essendoci i telefonini, le loro malefatte restavano circoscritte ai compagni di banco e non diventavano cibo per i sociologi. Il telefonino, già. Non esisteva. In compenso esisteva il duplex, la condivisione della linea telefonica tra due nuclei familiari al cui confronto i Montecchi e i Capuleti erano gemellati. Facevo la posta alla cornetta della cucina, per chiamare la ragazza nell’unico momento in cui sapevo che sarebbe stata lei a rispondere e non la nonna sorda o il padre geloso. Ma appena afferravo l’apparecchio, lo sentivo vibrare in un clic e la linea diventava muta. L’avevano presa gli odiosi compagni di duplex. Ingannavo l’attesa fantasticando su chi fossero e dove abitassero, ma soprattutto sulle torture da cui avrei fatto precedere la loro inevitabile esecuzione capitale. Poi la linea tornava, ma misteriosamente spariva di nuovo.

Mica tanto misteriosamente: l’aveva presa mio padre dal telefono del salotto. Allora scendevo a chiamare con i gettoni, stando attento a rinchiudermi bene dentro la cabina, perché di gente strana ne girava parecchia. I terroristi sparavano per le strade. I rapitori sequestravano i bambini e non solo i figli dei miliardari. Stravaccati davanti ai portoni delle case non c’erano i clandestini, ma gli eroinomani con il laccio emostatico intorno al braccio. Mio padre venne aggredito da due di loro nell’androne del condominio e lottò per non farsi portare via la borsa: gli rimase il manico. Lo sentii dire che l’Italia era diventata un posto spaventoso da cui bisognava scappare, non più il luogo tranquillo e sicuro della sua giovinezza (quando c’erano le bombe, il pane secco, il coprifuoco e i rastrellamenti). I programmi televisivi finivano prima delle undici di sera. In un famoso sketch, Nicola Arigliano sparava agli artisti intimando «non voglio noie nel mio locale» e sembrava un reperto storico, non ancora il precursore del sovranismo. La domenica, per vedere i gol, dovevi aspettare il pomeriggio inoltrato. Adesso sembra poetico, allora era una rottura. Nei cinematografi ti fumavano in faccia senza ritegno. Nei ristoranti ti rifilavano ogni sorta di schifezza scaduta e il salumiere di fiducia imbrogliava sulla bilancia. Nessuno conosceva il significato della parola scontrino. L’amianto era ovunque e ce se ne vantava pure. I grandi inviati dei giornali romanzavano gli avvenimenti, tanto non c’era la Rete a smentirli.

Il mio mito Montanelli raccontava di avere scritto di guerre e rivoluzioni senza mai uscire dall’albergo: ogni giorno un informatore andava a riversargli le suggestioni che lui poi confezionava da par suo. Sentivamo musica bellissima, questo sì, ma gli adulti non condividevano il nostro entusiasmo. Era così anche prima e lo è stato anche dopo. Oggi si rivalutano i cinepanettoni, i Lùnapop (deliziosi), persino Berlusconi. Tra vent’anni succederà lo stesso con Fedez e Salvini. Abbiamo perso soltanto l’idea che sia possibile cambiare il mondo tutti insieme. Eppure è l’unica conquista del passato che nessuno sembra rimpiangere. L’ambasciatore della nostalgia è Ulisse, l’uomo occidentale in perenne bilico tra internazionalismo e localismo, apertura e chiusura, mi sento a casa ovunque e mi sento a casa solo a casa mia. Trascorre l’intera Odissea a macerarsi nel desiderio di ritornare nella sua isoletta. Ma quando finalmente ci torna, non vede l’ora di ripartire alla scoperta del mondo, come rivelerà a Dante parecchi secoli dopo. Non c’è nulla di sbagliato nell’essere nostalgici. La nostalgia scalda il cuore. Letteralmente: è stato dimostrato che chi la prova sopporta meglio il freddo. Ma funziona se è uno strumento e non un traguardo, un modello e non un rifugio. La nostalgia semplifica, restituendoti nel ricordo una realtà deformata, perché depurata dalle tensioni. Appaga il bisogno di appartenere a una tribù, a un luogo sicuro, a un Noi contrapposto a un Loro. Per chi ha ucciso il futuro rimane solamente il passato. Ma appena si uccide il passato — o almeno lo si ridimensiona un po’ — si scopre che l’unica realtà è il presente. Non è poi così male, benché la mente umana tenda a sottovalutarlo, preferendo crogiolarsi nel rimpianto e nel desiderio.

La vita media si è allungata e la sua qualità è migliorata. Sono diminuite le disuguaglianze, nonostante si percepisca il contrario. Ma l’esistenza quotidiana di un manovale — che può lavarsi con l’acqua calda, muoversi rapidamente e informarsi con un clic — assomiglia a quella di un benestante molto più di quanto si assomigliassero le vite dei loro corrispettivi in un’epoca qualsiasi del passato, comprese le più recenti. Si può andare avanti e fare meglio, ma si può anche tornare indietro, specie se l’unica marcia vagheggiata dallo spirito del tempo è la retro. Nei miei giorni di nostalgia mi comporto come un erede che si aggrappa al patrimonio ricevuto, avendo perso la fiducia di poterne creare uno nuovo. Quand’è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta? Nel primo canto della citata Odissea, la dea Atena appare all’erede per antonomasia, Telemaco, e gli suggerisce di mettersi in viaggio per raccogliere notizie sul padre. La dea sa che il viaggio di Telemaco sarà inutile. Eppure vuole che lui lo compia lo stesso, per dare un senso e un orizzonte alla sua attesa. Il contrario della nostalgia è la consapevolezza di vivere immersi nel presente. Mi auguro e vi auguro di incontrarla spesso, nell’anno che verrà.

30 dicembre 2018 (modifica il 30 dicembre 2018 | 23:17)

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