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domenica 23 febbraio 2014

IL BESTIARIO Fabio Fazio, il finto abatino col pugnale ben nascosto Il conduttore di Sanremo e di "Che tempo che fa"sembra buonista, ma è attento ai propri comodi, fazioso e pure cattivo

Fabio Fazio, il finto abatino
col pugnale ben nascosto

Lei è un’impicciona petulante, vogliosa di mettersi in mostra, con il faccino rinsecchito di chi invecchia troppo presto, le mosse che vorrebbero essere sexy e invece sono grottesche. Per di più si compiace di essere volgare. Non appena apre bocca, sparla di culi, tette, puttanaggio, porca vacca! Mi ricorda certi bar di Torino accanto al mercato dei fiori, dove in piena notte i camionisti appena arrivati dalla Liguria sfogano la stanchezza del viaggio con un serie infinita di stronzaggini. Lui ha l’aspetto, i modi e lo stile verbale dell’abatino compunto, il bravo ragazzo di famiglia che va a trovare le zie e sa che non amano le parole eccessive. Del resto a urlacchiare anche per conto suo è la partner. Sto parlando di Fabio Fazio e di Luciana Littizzetto. E mi ha colpito il giudizio sottile di Selvaggia Lucarelli su Libero: «Lucianina è l’uomo che Fazio non ha il coraggio di essere». 
Ma che uomo è Fazio? Prima di tutto non è affatto un buonista. Lui finge di arrabbiarsi se qualcuno lo definisce così. Questo Bestiario gli piacerà perché lo ritiene  l’esatto contrario dell’uomo generoso. In questo caso l’abito non fa il monaco. L’aria dimessa, l’espressione sempre dolente di chi annuncia una sciagura, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare: tutto è farlocco, una messa in scena che nasconde il vero Fazio. 
In una Rai che nessuno riesce a cambiare e da sempre è frantumata in sultanati, Fazio è il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia a nessuno, tanto meno al direttore generale Gubitosi e alla presidentessa Tarantola. Ritenuti, e forse non a torto, figure di passaggio. Sempre molto attento ai propri comodi e all’occorrenza anche cattivo. Con la manina avvolta nella flanella grigia e il pugnale avvelenato ben nascosto. 
Il sultanato di Fazio è Che tempo che fa e risulta uno dei più marmorei, con una durata che inizia nel 2003 e resiste ancora oggi. Sono undici anni, ma vivrà intatto nel tempo, sino a quando esisterà la Rai. Da quel trono, ben collocato nella Tre, la rete rossa, Fazio pratica una censura inflessibile. Travestita da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglie, ma discrimina. 
Lui gestisce in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tivù privata, però non alla Rai. Che è pur sempre tenuta in vita dal canone sborsato anche dai tanti che Fabio cancella perché non rispondono all’identikit che lui preferisce: quello del sinistrorso che rimpiange il vecchio Pci con tutti gli annessi e connessi, a cominciare dal disastro del comunismo italico. Non a caso il suo spin doctor, il consigliere principe di Che tempo che fa, è Michele Serra, un altro nostalgico del passato trinariciuto. 
In più di un caso, il settarismo politico di Fazio ha prodotto situazioni grottesche. È accaduto nel presentare un libro del direttore dei giornali radio Rai unificati. Un collega già redattore dell’Unità e poi condirettore di Paese sera, un quotidiano filo-Pci destinato a sparire. 
Era il maggio 2007, sotto il governo di Romano Prodi. Quella sera gli utenti della Rai ebbero sotto gli occhi un’ammucchiata tutta rossa, da far morire d’invidia i nostalgici della Germania dell’Est, polizia segreta compresa. Rete di sinistra, conduttore di sinistra, autore di sinistra in quota Ds. Un conflitto d’interessi sfacciato, fra compagnucci che si strizzavano l’occhio a vicenda. Felici di averla fatta franca per l’ennesima volta. 
Ma in altri casi, lo spettacolo si rivelò penoso. Sempre a spese nostre, Fazio aveva invitato Pietro Ingrao affinché presentasse l’autobiografia: Volevo la luna, pubblicata da Einaudi. In preda a un vuoto di memoria, il vecchio capo comunista, sostenne che il Pci aveva preso aspre distanze dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, parteggiando per gli insorti di Budapest. 
Non era vero. Ma Fazio e il pubblico invitato nello studio di Che tempo che fa, si guardarono bene dall’obiettare. Che importanza aveva un grossolano falso storico a proposito di un evento di cui nessuno si rammentava più? Quella di Budapest era stata una tragedia che aveva fatto migliaia di morti. Ma nella basilica fazista, immersa nel silenzio delle cerimonie religiose, non ci fu nemmeno un mormorio, un colpo di tosse, un’occhiata di imbarazzo. 
Come mai? Edmondo Berselli, un intellettuale libero e un uomo speciale, purtroppo scomparso anzitempo, lo spiegò così sull’Espresso: «Nessuno osò obiettare nulla, perché in quel momento si stava celebrando l’apoteosi senescente, ma non senile, di un comunismo impossibile, l’utopia del grande sogno, l’assalto al cielo. E quindi tanto peggio per i fatti se i fatti interrompono le emozioni». 
Ma Fazio sa pure essere un vero paraculo, per dirla alla Littizzetto. Nel fare zapping con il telecomando, capitai su Che tempo che fa. E sorpresi il compagno Fabio che stava facendo lingua in bocca con un destrone collaudato, Gianfranco Fini. E dopo il bacio a luci rosse, ecco un dialogo che va dipinto come un cicì e ciciò. Dalle mie parti si dice così di due comari che se la contano amabilmente. 
Mi domandai che libro avesse mai scritto Fini, in quel momento presidente della Camera dei deputati. Più che un libro era un fascicoletto messo insieme da qualcuno dei suoi assistenti a Montecitorio. Ma in realtà il motivo nascosto era un altro. Con il suo fiuto infallibile, il compagno Fabio aveva annusato che il camerata Gianfranco si stava riciclando. E sarebbe presto diventato l’avversario numero uno di Silvio Berlusconi. 
Ecco svelato il cruccio vero dell’abatino di Che tempo che fa. È quello di non essere in grado di uccidere, moralmente, il diabolico Cavaliere. Il suo consigliere e ispiratore Michele Serra deve averlo indottrinato nel modo giusto. Forse ripetendogli, due, dieci e cento volte, quello che aveva spiegato a Luca Telese in un’intervista per Il Fatto: «Berlusconi e il berlusconismo sono una forma estrema di individualismo amorale, di spregio per le regole, di superficialità puerile. Anche se Berlusconi finisse, l’humus che lo ha fatto prosperare rimarrebbe». 
Una bella coppia di sinistri disperati, reduci da troppe sconfitte politiche. Serra dichiarò che, in quel momento almeno, la sua speranza era Nichi Vendola. E Fazio? Mistero, forse sperava soltanto in se stesso. E ha avuto ragione. Per un motivo che Aldo Grasso, il numero uno dei critici televisivi, ha spiegato a proposito di un altro spettacolo di Fabio, il Vieni via con me, condotto insieme a Roberto Saviano. Ma è una ragione che si adatta pure a Che tempo che fa. 
«È una cerimonia religiosa, una messa, una funzione liturgica. L’officiante è Fazio, lui trasferisce sui fedeli quell’aura di senso di colpa che gli trasfigura il volto. La doglianza gli dà potere. Mostrarsi vulnerabile (i ricchi contratti non gli impediscono di piangere sempre miseria) è la sua garanzia di invincibilità, tra un Alleluja e una via Crucis». 
Grasso ha capito tutto. Ci terremo Fabio e Lucianina per molti anni. O almeno sino a quando resterà in vita la Rai e anche dopo. Grazie a Dio sono abbastanza anziano per non vederli incanutirsi sul palco di Sanremo, la brutta copia dei vecchietti di un famoso cioccolato. 
di Giampaolo Pansa

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