Paolo Franchi è uno dei decani del giornalismo politico, essendo stato redattore di “Rinascita”, di “Paese Sera”, di “Panorama” e del “Corriere della Sera”, di cui tuttora è uno dei principali editorialisti. Ma Franchi è anche stato a lungo un dirigente dei giovani comunisti e un amico personale di molti fra i più autorevoli dirigenti del Pci. Perciò sono così ricche di notizie e di suggestioni le 400 pagine del suo libro “Il tramonto dell’avvenire. Breve ma veridica storia della sinistra italiana”, edito in questi giorni da Marsilio.
Franchi racconta con dovizia di particolari la tragedia della sinistra italiana, gli scontri continui fra comunisti e socialisti, il dramma di “Mani pulite”, i tentativi di dar vita a una nuova realtà politica con le Querce e gli Olivi e poi i continui cambiamenti di nome dell’ex Pci, senza un parallelo cambiamento di contenuti e di risultati.
Franchi si concede anche i pochi possibili riferimenti divertenti, fra cui quello al mitico “Ferrini” che impersonava il militante romagnolo (“non capisco ma mi adeguo”), “metà veterocomunista e metà protoleghista”. O quello all’indimenticabile imitazione di Rutelli in cui si esibiva Corrado Guzzanti nell’“Ottavo nano” di Serena Dandini.
L’amarezza di Franchi nasce dal fatto che il periodo di cui si occupa il suo libro (prevalentemente, dagli anni Settanta ad oggi) vide, alle elezioni politiche del 1976, il Pci che sfiorò il sorpasso della Dc (e la superò ampiamente sommando i voti di un Psi in crescita).
Lo sperpero di questa forza politica è dovuto – è un mio parere ma direi che in questo anche Franchi è duro nel giudizio sul Pci - all’antisocialismo quasi maniacale dei comunisti italiani, che si acuisce negli anni del grande successo di Craxi (il referendum sulla scala mobile e Sigonella, per ricordare solo gli eventi più clamorosi) e non è in grado di offrire una visione da sinistra moderna come quella sintetizzata da Claudio Martelli nella sua relazione al congresso socialista di Rimini: un evento cui anch’io, da militante socialista, ebbi la fortuna di partecipare. La pagina più alta, almeno sulla carta, del riformismo italiano.
Franchi dedica un ampio capitolo alla vicenda di “Mani pulite”, ricordando criticamente “il metodo Di Pietro” (arresto, confessione, rilascio; con qualche suicidio di troppo). Pur senza negare le responsabilità dei socialisti, egli prende una posizione netta e amara: “Ci fu qualcosa di infame – scrive – nel trattamento che l’informazione, un bel pezzo del mondo imprenditoriale e finanziario, ma prima ancora le forze politiche italiane (soprattutto il Pds) riservarono a Craxi”, paragonandolo ad Al Capone, facendo del “cinghialone” il capro espiatorio di tutto, “sperando di salvare la ghirba” (e spesso riuscendovi).
La sola osservazione che mi permetto di fare su questo punto è che andrebbe sempre ricordato il fatto che un dirigente delle Partecipazioni Statali – dopo essere stato arrestato tre volte da Di Pietro in tre diverse città – si decise a parlare e a raccontare come vi fosse “un tavolo” in cui periodicamente si riunivano le grandi imprese e i partiti per decidere quanti soldi dare a ciascun partito (nel caso del Pci – in questo più furbo degli altri – non direttamente ma tramite le Cooperative).
Del resto (ma questa è una mia considerazione) non c’è da stupirsi se Craxi, con le sue scelte di rottura, non trovò difensori da nessuna parte: certo non nel Pci (che lo avvertiva come un pericolo) né nel sindacato (sconfitto se non umiliato sulla scala mobile) né nello storico protettore dell’Italia, gli Stati Uniti, incapaci di dimenticare il grande gesto di Sigonella.
E Franchi ricorda un’intervista del 2018 a Huffington Post in cui Sergio Staino dice: “Mi vergogno della gioia che provai quando lanciarono le monetine contro Craxi. Fu il primo atto di antipolitica della storia repubblicana, l’avvento di quello che i Cinque Stelle e la Lega hanno portato a compimento con il loro governo”: “un giudizio lucido, commenta Franchi, una autocritica sincera. Ma purtroppo assai tardivi”.
Anche per questo ho apprezzato in particolare il riconoscimento di Franchi alla lealtà di Del Turco, vice segretario generale della Cgil, che resistette alle pressioni dell’entourage craxiano perché rompesse l’unità di comunisti e socialisti nella Cgil di Luciano Lama.
Nel libro di Franchi ci sono notizie esaurienti su tutta la storia dei comunisti italiani, fino alla scelta di Prodi e alle più recenti – e non certo edificanti – peripezie del Pd. E ci sono vicende di grande interesse, come quella dei “miglioristi” (Napolitano, Lama, Macaluso e altri) che “lungi dal puntare a una qualche fuoriuscita dal capitalismo, si ripromettevano, appunto, soltanto di migliorare nei limiti del possibile la società così com’era, senza metterne in discussione i fondamenti di classe”.
In sintesi, una scelta di socialdemocrazia europea che purtroppo non è mai divenuta la linea vincente fra i comunisti italiani. Dunque – potrei concludere da vecchio militante socialista – la scelta giusta era quella del Psi, e non quella del Pci. Ma non posso non ricordare a me stesso il tragico errore dei socialisti – primo partito alle elezioni politiche del 1946 – che scelsero di suicidarsi solo due anni dopo con la confluenza nel Fronte Popolare.
Purtroppo, c’è una ragione per cui la sinistra non ha mai vinto in Italia. E Franchi ricorda che il Pci e il Psi condividevano la convinzione che l’Italia fosse un Paese di destra, o nel migliore dei casi di centrodestra, come hanno dimostrato prima il predominio della Dc, poi le vittorie di Berlusconi, infine la sconcertante passione di tanti italiani per il Truce Matteo Salvini.
E tuttavia Franchi conclude il suo libro negando che si possa fare a meno della sinistra: “Ma – aggiunge - una sinistra che non riparta dal lavoro, tradizionale e nuovo, e dai diritti sociali non ha ragione di essere”.