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lunedì 25 agosto 2025

Contro il populismo sanitario

Contro il populismo sanitario Enrico Bucci 25 ago 2025 Il pluralismo sbagliato. Dagli Stati Uniti all’Italia, che cosa succede quando altre “sensibilità”, voci alternative alla conoscenza scientifica sono ammesse ai tavoli tecnici che indirizzano la politica. Ascoltare tutti, in tema di salute pubblica, non è democrazia ma uno scudo dell’arbitrio In questi giorni, si sentono spesso impiegare le parole “libertà” e “pluralismo”, che sarebbero da utilizzare per prendere decisioni tecniche, quasi si volesse trasformare la valutazione delle prove in una contesa di opinioni. In realtà, attraverso il richiamo ai valori liberali che riecheggiano dietro queste locuzioni, il pluralismo viene piegato a criterio di accesso e di influenza nelle sedi tecniche, il metro dell’evidenza perde forza e la rappresentazione omogenea di tesi diseguali per qualità delle prove diventa il nuovo standard di legittimazione. Si intende qui mostrare che non si tratta di episodi isolati, ma di un dispositivo ricorrente, osservabile in diversi contesti occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia, con esiti convergenti: raccomandazioni indebolite, stalli procedurali, decisioni presentate come “prudenziali” benché scollegate dal miglior bilanciamento di rischi e benefici e, alla fine, arbitrio della politica. L’importanza del problema è immediata perché tocca l’architettura minima della democrazia liberale. Un parlamento decide legittimamente i fini e le azioni da attuare, ma non può rinunciare a un orientamento affidabile sui mezzi; questo orientamento, quando è in gioco la realtà fisica, biologica o sociale misurabile, dipende dalla capacità di distinguere ciò che è probabile e ben supportato da ciò che è soltanto dichiarato. La conoscenza scientifica, con i suoi standard pubblici di prova, fornisce la bussola per valutare conseguenze, effetti collaterali, rapporti costo–beneficio; senza questa bussola, il confronto tra opzioni scivola verso quello di narrazioni equivalenti, e l’“aver ascoltato tutti” diventa scudo dell’arbitrio. Si pone dunque un nesso diretto tra qualità del discernimento imparziale e qualità della decisione democratica. Libertà e pluralismo restano valori non negoziabili sul piano dei diritti; ma, quando si passa alla formulazione di raccomandazioni tecniche, essi non possono essere in contrasto con l’obbligo di misurare le affermazioni con lo stesso metro di prova, fin dal loro ingresso nel dibattito. Se quel metro viene abbandonato o relativizzato in nome della rappresentanza di “sensibilità diverse”, non si sceglie più ciò che funziona meglio per fini dichiarati, ma ciò che è più comodo presentare come equilibrio tra voci. Ragioniamo anzitutto su cosa significa libertà di espressione e di rappresentazione di un’opinione. La libertà tutela il parlare, il criticare, il proporre idee nello spazio pubblico, senza coercizione, neppure in caso di tesi erronee. Non conferisce però, da sola, un titolo per pesare nelle raccomandazioni che producono effetti su salute, ambiente, economia, sicurezza e in generale, bene pubblico. Per incidere lì serve un altro requisito: affermazioni sostenute da prove verificabili. Confondere la libertà di espressione con il diritto di rappresentanza nelle sedi in cui si accertano fatti porta a un errore pratico prima ancora che teorico: voci con diverso grado di riscontro nei fatti finiscono per essere trattate come equivalenti. Tenere separati i piani non limita la libertà; evita che venga usata per aggirare il controllo di qualità delle informazioni. E’ quindi utile riconoscere che esistono due “pluralismi” diversi. Il pluralismo politico garantisce spazio istituzionale a interessi e valori differenti: è la regola del gioco democratico. Il pluralismo scientifico, invece, richiede di mettere a confronto ipotesi rivali sotto le stesse regole di verifica, così che conti ciò che regge meglio alla prova dei fatti. Se si scambia il primo con il secondo, la competenza si riduce a opinione, e ogni opinione deve aver rappresentanza. Se si mantiene la distinzione, tesi alternative possono entrare, ma devono superare gli stessi controlli preliminari e di peso. In scienza, se due affermazioni sono sottoposte allo stesso onere di prova e una lo soddisfa mentre l’altra no, non c’è equilibrio da rappresentare; c’è un esito. Non esistono manuali di geodesia terrapiattista. La retorica dell’equilibrio, invece, congela l’esito e lo riporta allo stadio di “controversia”. Un altro artificio ricorrente: l’invocazione di “ulteriori approfondimenti”. Il terzo passaggio è lo spostamento d’arena. La discussione viene sottratta ai luoghi dove il costo della prova è alto e l’accesso è regolamentato e trasferita dove il costo è nullo: talk-show, social forum, giornali Il punto decisivo è il filtro d’ingresso nelle sedi tecniche. Non è garantito da “libertà” o “pluralismo”, ma dalla possibilità per chiunque di portare tesi il cui grado di verità sia accertabile e non già trovato nullo in precedenti esami: verificabilità, falsificabilità, dati disponibili, metodi trasparenti e onere della prova in capo a chi afferma. Portatori di ipotesi già falsificate, vuote, non testabili, o che rovesciano l’onere della prova chiedendo agli altri di smentirle, non sono ammissibili: non per censura, ma perché le loro idee mancano dei requisiti minimi per essere pesate. Questo è il punto dove cade la richiesta di pluralismo cui sono abituati i politici, e questa è la ragione per cui anche persone con un curriculum rispettabile possono essere escluse da un dibattito scientifico, così come possono esservi ammesse persone prive di credenziali, ma con una ipotesi che soddisfa i requisiti di accesso. Come scardinare la discussione dei fatti Nonostante quanto descritto sia ovvio e risaputo, esiste ed è noto da millenni, almeno dai tempi della filosofia classica, il meccanismo retorico che rende possibile lo scardinamento del metro delle prove. Il primo passaggio è uno slittamento nel dominio improprio del diritto di accesso al dibattito: dal diritto di parola – che attiene allo spazio pubblico – si pretende un diritto di rappresentanza nelle discussioni fra esperti e nelle sedi tecniche. La mossa consiste nel presentare la presenza al tavolo come requisito di “libertà” e “pluralismo”, spostando l’attenzione del pubblico dal filtro necessario nei confronti di contenuti non verificabili alla censura delle persone che li portano. In questo modo, la questione non è più se un’affermazione sia sostenuta da dati e metodi controllabili, ma se una “sensibilità” sia stata inclusa. Il filtro epistemico viene così aggirato: invece di chiedere che ogni ipotesi in discussione non sia in contrasto con i fatti noti, non sia inferiore a ipotesi concorrenti in quanto a potere esplicativo, non sia mal definita (consenta cioè di essere messa quantitativamente alla prova), si chiede al tavolo di garantire rappresentanza di tutti a priori. Per ammettere ogni ipotesi, inoltre, l’onere della prova viene rovesciato e la struttura stessa del vaglio tecnico perde presa, perché il foro di discussione viene ridefinito come arena di voci equivalenti e dove si pesano le teste, invece che le prove. Abbiamo infatti gli stregoni biodinamici che chiedono di stare nei tavoli tecnici di agricoltura, gli omeopati che pretendono che la loro pseudoscienza sia considerata una pratica come le altre, gli osteopati che arrivano a ottenere un percorso di laurea con l’apparenza di scienza che ne deriva, o i sostenitori di ogni balzana teoria che vogliono tutti una sola cosa: rappresentanza fino a prova contraria (ovviamente mai accettata), talvolta riuscendo nei loro intenti truffaldini come accaduto a Vannoni con Stamina, proprio grazie all’interessamento della politica e del suo pluralismo fuori luogo in ambito scientifico. Il secondo passaggio è la costruzione del falso equilibrio. Si mette in scena una simmetria che non esiste sul piano delle prove, dichiarando che a una tesi consolidata debba sempre corrispondere una “controparte” per parità di trattamento. In scienza, se due affermazioni sono sottoposte allo stesso onere di prova e una lo soddisfa mentre l’altra no, non c’è equilibrio da rappresentare; c’è un esito. Non esistono manuali di geodesia terrapiattista. La retorica dell’equilibrio, invece, congela l’esito e lo riporta allo stadio di “controversia”, producendo stallo decisionale di fronte all’impossibile analisi di ipotesi già falsificate, di cui si chiede l’analisi ulteriore con aggiustamenti ad hoc, oppure impossibili a falsificarsi, per la vaghezza della loro formulazione. A questo punto entra in gioco un altro artificio ricorrente: l’invocazione di “ulteriori approfondimenti” senza specificare quali dati manchino, con quali metodi si intendano ottenerli e in che tempi. L’eterna revisione in attesa di nuovi dati sull’efficacia della biodinamica, o l’eterna attesa di tempi sempre più lunghi quanto al manifestarsi degli effetti collaterali che gli antivaccinisti sono certi debbano manifestarsi, sono casi tipici. Lo scopo è di rimandare indefinitamente una conclusione già giustificata dal materiale disponibile, trasformando la legittima cautela in sospensione permanente del giudizio – così continuiamo a discutere di omeopatia, biodinamica o simili sciocchezze all’infinito. Il terzo passaggio è lo spostamento d’arena. La discussione viene sottratta ai luoghi dove il costo della prova è alto e l’accesso è regolamentato – foro dei pari, replicazione indipendente, sintesi sistematiche – e trasferita dove il costo è nullo: talk-show, social forum, giornali, conferenze stampa, consultazioni “aperte” senza criteri di ammissibilità. In queste arene si produce un capitale simbolico che, una volta accumulato, viene riportato nei comitati come “esistenza di un dibattito” o di “volontà pubblica”, allo scopo di rinegoziare l’accesso e il peso delle tesi. In termini operativi, si passa dalla domanda “quale tesi regge meglio ai fatti?” alla domanda “quale tesi ha una presa sociale sufficientemente ampia?” e la qualità della decisione scende perché il criterio di selezione non è più interno alle tesi enunciate e imparzialmente esposto al vaglio della natura, ma esterno all’enunciato e fondato sul gradimento più o meno ampio e su interessi più o meno diffusi. Il risultato non è un dibattito più aperto, ma un metodo più debole: la decisione si allontana dal dato verificabile e si avvicina alla gestione delle narrazioni. Una volta ridefiniti i criteri di accesso e la grammatica dell’analisi tecnica, la politica ottiene due risultati con un solo gesto: neutralizza i dispositivi di controllo sui fatti e si procura una copertura per la narrazione preferita, potendo dichiarare di aver “ascoltato tutte le sensibilità”. Non più politiche informate dalle prove disponibili, ma prove selezionate o sospese in funzione della politica prescelta. Così la comunità scientifica viene esautorata nel suo compito centrale – stabilire, con metodi pubblici e replicabili, che cosa è ragionevole ritenere vero e con quale grado di incertezza – e la sede politica si emancipa dal vincolo della coerenza con le migliori evidenze disponibili, che scompaiono dalla scena. La scelta finale può allora essere presentata come prudente, equilibrata, persino “più democratica”, mentre di fatto è meno vincolata ai dati e più sensibile a convenienze contingenti. Si ottiene così un potere discrezionale amplissimo. E’ precisamente qui che la protezione dei cittadini si indebolisce: quando la “rappresentazione delle opinioni” sostituisce il requisito di aderenza ai fatti disponibili, eliminando un forte vincolo all’azione del potere. Proprio questo è il processo che vediamo in atto in molte regioni del nostro pianeta; come esempio, considereremo gli Stati Uniti ed il nostro paese. La protezione dei cittadini si indebolisce quando la “rappresentazione delle opinioni” sostituisce il requisito di aderenza ai fatti disponibili. Alternative facts, la versione del “pluralismo” negli Stati Uniti. Una falsa par condicio, anticamera dell’arbitrio. La gold standard science definita per ordine esecutivo. Il caso Nitag in Italia Negli Stati Uniti, la versione locale del “pluralismo” si è cristallizzata in un termine che ormai è entrato nel lessico politico: “alternative facts”. Con questa formula si legittima l’idea che al tavolo tecnico possano sedere non solo tesi minoritarie, ma veri e propri contro-fatti, cioè affermazioni che non superano i test di verificabilità, presentate come un’opzione tra le altre. In linea con questa idea, si è per esempio proceduto alla rimozione in blocco dei 17 membri dell’ Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) del Center for Disease Control and Prevention (CDC), giustificata come azione per “ripristinare la fiducia”, trasformando un organo di sintesi pubblica delle prove utili a formulare le raccomandazioni epidemiologiche e vaccinali in un tavolo di nomina politica, con soggetti graditi all’amministrazione ed in particolare a Robert F. Kennedy Jr, storico antivaccinista che attualmente dirige la sanità. Poco dopo, le raccomandazioni federali per l’età pediatrica di vaccinazione si sono spostate verso la formula della “decisione condivisa”, nonostante l’American Academy of Pediatrics abbia pubblicato linee più aderenti alla letteratura proponendo la vaccinazione universale nella fascia 6–23 mesi. Nel frattempo, la cessazione di una ventina di progetti su piattaforme mRNA (quasi 500 milioni di dollari) è stata rivendicata come “prudenza” e “ascolto del pubblico”, nonostante forti critiche accademiche sul danno arrecato a linee promettenti. In questi esempi, si vede come il grimaldello del pluralismo nella discussione – l’ammissione degli “alternative facts” antivaccinisti – apre la strada al controllo politico: ciò che conta non è più quanto una tesi regge alle prove, ma il controllo degli organismi deputati alla formulazione delle tesi di salute pubblica. La stessa torsione si è vista in Italia nella vicenda del Nitag (National immunization technical advisory group, il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni). Dopo la revoca del gruppo decisa dal ministro della Salute, a seguito delle proteste della comunità scientifica contro due nomine con posizioni spesso antiscientifiche, una parte della maggioranza ha costruito una contro-narrativa in cui “pluralismo” non significa filtri più severi sulle prove, ma diritto di rappresentanza delle posizioni del pubblico. Le reazioni, fra gli altri, di Matteo Salvini, Francesco Lollobrigida, Galeazzo Bignami, Alberto Bagnai e altri esponenti dell’area di governo ha presentato lo scioglimento come “pessimo segnale” perché contraria al pluralismo di cui i soggetti in questione pretenderebbero di farsi alfieri, e la comunità scientifica come corporazione dogmatica che soffoca il confronto. In questa cornice, come abbiamo già visto la parola “pluralismo” funziona da piede di porco semantico: sposta il giudizio dal merito delle evidenze al diritto d’accesso delle opinioni, così che il filtro delle tesi in discussione e dei loro portatori venga percepito come abuso democratico anziché come tutela del metodo. Anche il disappunto attribuito alla presidente del Consiglio è stato nello stesso registro: non una parola sulla competenza dei componenti e sulla qualità delle prove che devono caratterizzare un organismo come il Nitag, ma una invocazione di “pluralismo” da tutelare. L’intento, come abbiamo visto, è trasparente: la politica vorrebbe liberarsi, a monte, del vincolo di coerenza con le migliori evidenze disponibili e del controllo dell’unica minoranza in grado di estrarre queste evidenze, la comunità scientifica. Se tuttavia si normalizza l’idea che sia importante rappresentare ogni posizione, anche fatti alternativi, al tavolo della scienza con la scusa di non soffocare il dibattito democratico, come del resto fatto a suo tempo anche dalla parte politica avversa a quella oggi al governo (si pensi per esempio al ministro Maurizio Martina e alla sua richiesta di un “franco dibattito” sugli Ogm proprio su queste pagine), la società tutta perde la sua bussola imparziale per orientare scelte con effetti misurabili su salute, sicurezza, ambiente, energia, e in una parola ogni qualvolta conti interrogare il mondo naturale per prevedere cosa sia meglio fare. E’ precisamente ciò che molte analisi statunitensi hanno segnalato quando hanno denunciato che gli “alternative facts” non sono una ragione per sottrarsi ai vaccini, né un fondamento legittimo per rifare raccomandazioni o rifinanziare programmi: sono un modo di spostare l’asse decisionale dalla realtà misurabile alla negoziazione politica delle percezioni del pubblico. In entrambe le esperienze, italiana e americana, la funzione pubblica della scienza viene esautorata nello stesso passaggio: si sostituiscono i requisiti di verificabilità, replicabilità e sintesi comparativa con la par condicio delle posizioni; si ribattezza apertura ciò che è, di fatto, libertà di manovra per scelte scollegate dalle prove; si presenta come pluralismo ciò che è soltanto indebolimento del filtro che protegge i cittadini dagli errori evitabili. Negli Stati Uniti si è andati poi oltre, con l’introduzione di un concetto vincolante da parte della politica: la “gold standard science” definita per ordine esecutivo, che istituisce di fatto un commissario politico sulla scienza. L’ordine “Restoring Gold Standard Science” elenca principi condivisibili – riproducibilità, trasparenza, revisione tra pari, falsificabilità – ma affida a un “senior appointee” nominato politicamente il potere di stabilire che cosa è rilevante, di bollare come “non integri” studi scomodi, di elevarne a dismisura lo standard di certezza o di escludere intere aree (per esempio ampie porzioni di epidemiologia e scienze ambientali). Un altro ordine esecutivo completa il disegno: tutta la filiera dei finanziamenti – priorità di ricerca, selezione dei progetti, continuità dei fondi – passa sotto la supervisione di un incaricato politico con mandato esplicito a “promuovere l’agenda presidenziale”, con peer review declassata a parere consultivo e la possibilità di interrompere immediatamente bandi e progetti già approvati se ritenuti non più allineati. Anche qui il messaggio è chiaro: non è più la comunità scientifica a fare la sintesi e a controllare la qualità, non è più il metro dei fatti e dell’analisi quantitativa a stabilire cosa sia più probabilmente vero, è la politica a selezionare cosa entra e cosa esce dal perimetro della “buona scienza”. E’ l’istituzionalizzazione dell’“alternative facts” e la logica conseguenza del “vale tutto” pluralista in ingresso: abbandonata la metrica scientifica di valutazione, se i fatti contraddicono la linea stabilita, si escludono i fatti e si cambia il filtro, non la linea. Ecco quindi che la dimostrazione pratica della tesi enunciata in apertura si disvela ai nostri occhi: il “pluralismo” distorto che la politica applica alla scienza non amplia il controllo di qualità, ma crea un varco per decisioni basate su “fatti alternativi” e per una gestione della scienza a misura di narrativa, perché l’abolizione di metriche oggettive di valutazione apre la strada all’arbitrio. Tiriamo le somme Dovrebbe a questo punto essere chiaro al lettore che esiste un criterio semplice per smascherare una pericolosa retorica usata dalla politica di destra e di sinistra quando vuole indebitamente occupare spazi che non le competono: quando “libertà” e “pluralismo” vengono invocati contro la “scienza dominante” (altra tipica perifrasi usata in questi casi) per giustificare la discussione di qualunque posizione. Nel dominio politico il pluralismo riguarda la rappresentanza di interessi e valori; nel dominio dell’accertamento dei fatti conta il passaggio obbligato per dati accessibili, metodi trasparenti, risultati ripetibili e sintesi quantitativa delle prove disponibili. Se si eliminano questi requisiti, non si tratta di apertura, ma di un espediente per svincolare decisioni da fatti, numeri e scienza, introducendo una falsa par condicio, anticamera dell’arbitrio. Il filtro d’ingresso in una discussione che riguardi fatti di natura, come nel caso delle valutazioni tecniche sulla salute del cittadino delle varie politiche vaccinali possibili, non è e non deve essere l’identità o la rappresentatività presso l’opinione pubblica, ma la verificabilità e la robustezza dei fatti a supporto: ipotesi vuote, già falsificate, non testabili o che rovesciano l’onere della prova non hanno titolo per incidere su raccomandazioni scientifiche. Per questo, Matteo Salvini, Alberto Bagnai, Francesco Lollobrigida, Giorgia Meloni, Galeazzo Bignami e gli altri esponenti che rivendicano il “pluralismo” nei tavoli scientifici stanno costruendo una narrazione a loro conveniente, e non difendono la democrazia o la libertà: presentare lo scioglimento del Nitag come torto al pluralismo significa esattamente attaccare l’uso imparziale del metodo scientifico nel decidere quale sia una posizione degna di esame e quale no. Nel campo dei fatti non esiste diritto di rappresentanza che non sia quello delle misure e dei numeri, e la discussione si fa con il metodo della scienza nelle sedi opportune e prima di arrivare in comitati che debbono sintetizzare le prove disponibili. Chiedere posto al tavolo per posizioni o già smentite o prive di verificabilità (come la comunità scientifica nazionale tutta ha dichiarato nel caso del Nitag), non è tutela della libertà, è licenza di manomettere il metro di decisioni che, come quelle relative ai vaccini, dovrebbero basarsi sui fatti. L’Italia non deve seguire la via degli “alternative facts” né quella del commissario politico sulla scienza: è la scorciatoia di Trump, non la nostra. Una maggioranza parlamentare ha legittimazione a scegliere i fini dell’azione politica nell’ambito delle previsioni degli effetti di tali azioni, non ad abusare di fatti, regole e metodo per ottenere previsioni consone ai propri interessi. Chiamare “pluralismo” l’esenzione dai controlli della comunità scientifica, rendendo gli organi tecnici incapaci di emettere giudizi grazie alla forzatura “pluralista”, è togliere alla democrazia la sua bussola, in attesa di introdurre il commissario politico come in Usa. E’ questo che si vuole per il nostro paese? E la comunità scientifica saprà reagire con unanimità, come accaduto per il Nitag, oppure, come per il “manifesto della razza” o più recentemente nel caso di certi documenti dei Lincei, inseguirà i desiderata della politica?

sabato 23 agosto 2025

Epicuro

filosofia Epicuro desc img Mauro Bonazzi Filosofia - Epicuro, Bonazzi Epicuro è un grande amante delle polemiche: ha attaccato ed è stato attaccato, con il risultato che molte delle sue idee sono state fraintese. Ma il suo messaggio è chiaro. La filosofia dovrebbe occuparsi dei problemi della nostra esistenza. Ed è perfettamente in grado di farlo, se solo si lasciano da parte i filosofi di professione, che con le loro astruserie complicano quello che è semplice, e ci impediscono di vivere una vita felice. I filosofi parlano di cose inutili e incomprensibili, quando invece è tutto semplice. Per capirlo basta chiarire tre punti, tutto il resto verrà da se: 1) che cosa è e come è fatta la realtà; 2) come posso conoscere questa realtà in modo certo; 3) e come vivere in questa realtà. Sembrano questioni complicate – di questo discutevano i filosofi da secoli; è tutto semplicissimo. La realtà: cos'è e come «conoscerla» Che cos’è la realtà? La realtà sono atomi e vuoto, sono atomi che si muovono nel vuoto. Epicuro è un atomista convinto, così come lo era stato Democrito. Ma in Democrito l’ipotesi atomista è ancora confusa, e non è chiaro cosa siano davvero questi atomi. Epicuro è invece netto: gli atomi sono corpi che cadono nel vuoto, che ogni tanto deviano (il famoso clinamen di cui parla Lucrezio), aggregandosi e separandosi. Tra Epicuro e Democrito c’è Platone, con la sua divisione metafisica tra il mondo sensibile (il mondo delle cose che vediamo e tocchiamo) e il mondo delle idee (ciò che è oggetto dei nostri pensieri). In Democrito questi due piani sono ancora confusi. In Epicuro c’è una presa di posizione netta: il fantomatico mondo delle idee di cui parla Platone non esiste; esiste solo quello che fa parte della nostra esperienza sensibile. La realtà sono corpi che si aggregano e disgregano. L’universo, infinito, è il risultato del gioco d’incontri e scontri degli atomi tra di loro, basta. Se questa è la realtà, non sarà difficile conoscerla – e arriviamo così al secondo punto. Noi disponiamo di uno strumento formidabile per conoscere la realtà: i nostri sensi. Perché anche noi siamo fatti di atomi. Inutile dire che anche in questo caso Epicuro si sta scatenando contro Platone, che aveva negato ogni valore alle sensazioni. Di nuovo, Epicuro ha le sue ragioni. C’è qualcuno che ha intenzione negare l’attendibilità di quello che vede o tocca? Del resto, non ci sono solo le sensazioni. Le sensazioni sono come delle fotografie. Descrivono la realtà così come essa ci appare; a volte può capitare che sulla foto ci sia qualche incongruenza: ma continuando a fare esperienze si creano dentro di noi, nella nostra memoria, dei concetti più generali che ci aiutano a conoscere. (Epicuro sta qui difendendo una teoria empirista della conoscenza). Continuando ad osservare questi esseri pelosi che mi camminano davanti si forma dentro di me, in modo spontaneo, il concetto di gatto; e poi li chiamo Babette e Apollo. Per viverci insieme basta e avanza. Per muoversi senza inciampare nella vita di tutti i giorni basta affidarsi alle nostre esperienze. Scopri tutte le Materie desc img Storia desc img Letteratura italiana desc img Scienze desc img Fisica desc img Matematica desc img Greco desc img Latino desc img Letterature straniere La felicità consiste nel piacere; una vita felice è una vita dedicata al piacere Perché a questo dovrebbe servire la filosofia, a vivere, anzi: a vivere bene. Eccoci al terzo punto, quello più importante; quello a proposito del quale le provocazioni di Epicuro raggiungono il culmine. La felicità consiste nel piacere; una vita felice è una vita dedicata al piacere. Davvero? Che vita è una vita dedicata soltanto alla ricerca del piacere? Che avessero ragione i suoi avversarsi; che, alla fin fine, Epicuro sia solo un provocatore, senza nulla di serio da insegnare? Vediamo. Intanto si tratta di ricordarsi chi siamo: siamo corpi, no? E quindi il piacere non può essere così negativo, visto che è legato proprio alla dimensione del corpo esprimendone uno stato di benessere. L’edonismo (in greco piacere si dice hedone) di Epicuro è una diretta conseguenza del suo materialismo. Del resto, tutto sta a intendersi su cosa sia, davvero, il piacere. La ricerca della felicità e i diversi tipi di bisogni Per capirlo bisogna capire prima di tutto quali siano i nostri bisogni. Siamo esseri imperfetti e abbiamo quindi delle necessità. Ma non tutti questi bisogni sono ugualmente importanti, anzi. Epicuro introduce una tripartizione: 1) ci sono bisogni e desideri naturali e necessari, 2) bisogni e desideri naturali e non necessari, 3) bisogni e desideri non naturali e non necessari. Partiamo dagli ultimi: noi possiamo desiderare di essere ricchi, famosi o potenti, ma questi desideri non rispondono ad alcun bisogno reale, ad alcuna mancanza (dipendono da «opinioni vuote», scrive Epicuro): non sono naturali, insomma, e non è necessario soddisfarli. Non portano nulla. Anzi, ogni tentativo di realizzarli sarà causa di frustrazione continua perché non troveremo mai il piacere che speravamo di trovare nella loro realizzazione. Possiamo accumulare tutte le ricchezze o tutto il potere che vogliamo, ma non ce ne verrà nulla, solo la frustrazione di chi non trova quello che si aspettava. Diverso è il caso della fame o della sete: quelli sono bisogni reali – non possiamo certo stare bene se soffriamo i morsi della fame – e vanno soddisfatti: sono bisogni naturali. Ma c’è modo e modo per soddisfarli. Ho fame e magari voglio mangiare la bistecca da 1000 euro che si trova solo a Dubai; e non potendomela permettere mi intristisco. E perché, poi? Se il problema è non avere fame quale è la differenza tra questa bistecca e un panino nel bar sotto casa? Ecco la distinzione tra bisogni naturali e necessari (il panino) e bisogni naturali e non necessari (la bistecca da 1000 euro). Sembra una distinzione capziosa, ed è invece decisiva: perché ci aiuta a mettere le cose in prospettiva. Epicuro non vuole che rinunciamo a piacere più sofisticati (se mi invitano a mangiare la famosa bistecca, perché no?) ma vuole farci capire che stare bene è molto più facile di quanto pensiamo. Il vero piacere non è, come probabilmente pensavamo, il godimento che proviamo durante il soddisfacimento di un bisogno (ad es. mentre mangiamo). Il vero piacere è quello stato di benessere che proviamo quando ci siamo finalmente liberati dai bisogni (ad es. dai morsi della fame). Il vero piacere è lo stato di benessere che si dà quando non abbiamo bisogno di nulla, perché abbiamo tutto quello che ci serve. E stiamo bene. Caro amico che mi stai ascoltando, Epicuro avrebbe potuto dire: siamo qui, non abbiamo fame e non abbiamo sete, parliamo di cose interessanti e ci divertiamo – perché non ammettere che stiamo bene? In fondo, si tratta di riconoscere che uno stato di benessere è la nostra condizione naturale. Ecco perché la felicità è molto più facile da raggiungere di quanto non si creda. Insomma, la teoria del piacere di Epicuro non è certo quella scuola di corruzione che molti hanno descritto. Il vero piacere non è il soddisfacimento di un bisogno, ma il liberarsene Il problema però non è soltanto il piacere. Ci sono anche paure e preoccupazioni a infestare le nostre giornate. Epicuro lo sa e ha una risposta anche per questo. Per Epicuro sono tre le paure più tossiche: la paura degli dei (che intervengono per punirci), la paura del dolore e la paura della morte. Ma preoccuparsi di queste paure è inutile. È inutile preoccuparsi degli dei per una ragione molto semplice: perché gli dei non si occupano di noi, e dunque non abbiamo nulla da temere. Si noti: Epicuro è stato spesso accusato di essere ateo, ma la sua posizione è molto più sottile. Epicuro non ha nessun problema a riconoscere l’esistenza degli dei. La ragione va ricercata nella sua teoria della conoscenza. Lo abbiamo detto prima: le sensazioni sono sempre vere ed è un fatto che a tutte le latitudini e in tutti i tempi gli esseri umani sostengono di avere fatto esperienza di apparizioni divine. Benissimo, dice Epicuro, gli dei dunque esistono. Ma – ed è il punto decisivo – non si occupano di noi. Perché se gli dei, che sono onnipotenti e perfetti, si occupassero del nostro mondo, il nostro mondo andrebbe bene. Ma questo chiaramente non è il caso. (Epicuro anticipa il problema della teodicea, della giustizia di Dio, di cui si discuterà animatamente in epoca moderna, dopo l’avvento del cristianesimo). L’unica conclusione ragionevole è allora che gli dei esistono e se ne vivono beati nei loro mondi: sono un modello che dovremmo cercare di seguire, altro che temerli. La paura e il dolore Quanto al dolore c’è poco da dire: se è sopportabile, non resta che sopportarlo (e il ricordo dei momenti piacevoli può contribuire a renderlo ancora più sopportabile). Se invece non è sopportabile, vuol dire che ci porterà alla morte. Che però non è un problema: arriviamo così all’ultimo e decisivo punto. La morte, dice Epicuro, non è niente per noi, perché o ci siamo noi o c’è lei: non è qualcosa che ci riguarda. Il ragionamento è chiaro e dipende di nuovo dalla tesi materialista: noi siamo il nostro corpo; la morte è banalmente la disgregazione degli elementi che ci costituiscono (gli atomi). Non c’entra nulla con noi, quindi, perché la morte c’è quando io non ci sono. E perché dovremmo preoccuparcene, allora? Vero. Si potrebbe però obiettare che il problema più serio è un altro: in fondo non temiamo il nulla della morte, ma la perdita della vita, l’idea che la vita sia interrotta prima del tempo. Epicuro ha una risposta anche per questo. Non ha senso temere la fine della vita, perché la felicità non aumenta con il tempo. Quando stiamo bene, abbiamo raggiunto la felicità e questa condizione piacevole non aumenta se la si prolunga nel tempo. Se c’è, c’è; non è una merce da accumulare; un giorno o un anno in più non fa differenza. Per chi è felice, il tempo non conta. Una parete non diventa più bianca perché sarà bianca anche domani. Una vita serena non diventa più serena, se la si è vissuta qualche giorno in più. Sempre proiettati nel futuro, ce ne facciamo schiavi, incapaci di vedere quello che abbiamo davanti. Non è meglio imparare con Epicuro a godere dell’attimo presente, consapevoli di quanto sia meravigliosa l’esistenza, questa nostra esistenza nata dal puro caso e però insostituibile nella sua unicità? Non sappiamo da dove veniamo e dove stiamo andando; magari siamo qui per caso, senza motivo: potevamo non esserci. Però ci siamo. E intorno a noi non mancano i modi per godersi la vita, noi e i nostri cari. Carpe diem, cogli l’attimo, impara a godere del presente, come diceva il poeta latino Orazio. Insomma, è tutto più semplice di quanto crediamo; basta avere il coraggio di ammetterlo e scopriremo che una vita felice è alla nostra portata. È davvero così difficile essere felici? La filosofia di Epicuro è tutta in questa domanda, e non è detto che la sua risposta sia da disprezzare. 12 giugno 2025 ( modifica il 13 giugno 2025 | 13:20) © RIPRODUZIONE RISERVATA

martedì 19 agosto 2025

Emicrania: come si riconosce e quali sono le cure efficaci?

di Maria Clara Tonini La terapia sintomatica ha l’obiettivo di bloccare l’attacco nel più breve tempo possibile e quindi va assunta entro mezzora/un'ora dall’inizio del dolore L’emicrania è considerata una vera e propria malattia neurologica benigna, la cui corretta diagnosi viene esplicitata non con esami strumentali o biochimici, come per la maggior parte delle malattie, ma con precisi criteri diagnostici e linee guida, declinati dalla Classificazione Internazionale delle Cefalee. Il sintomo è la cefalea che deve durare dalle quattro alle settantadue ore con due delle seguenti caratteristiche: una localizzazione unilaterale - talvolta anche bilaterale -, un dolore pulsante, di intensità medio-forte che limita o impedisce lo svolgimento delle attività quotidiane; un peggioramento con l’attività fisica. Durante l’attacco emicranico devono essere presenti almeno uno dei seguenti sintomi: nausea e/o vomito, fastidio alla luce (fotofobia) e ai suoni (fonofobia). Quando diventa cronica Nel 12% della popolazione è una malattia ad andamento episodico se si manifesta con una frequenza inferiore ai 15 giorni di mal di testa al mese; viene definita cronica nel 1,4-2% dei casi, se la cefalea è presente per più di 15 giorni al mese per più di tre mesi. Nel 2,5-3% dei casi l’emicrania episodica evolve in una forma cronica. Studi scientificamente validati hanno dimostrato che soggetti con una frequenza basale superiore ai 10 giorni di cefalea al mese per più mesi o anni continuativamente avevano un rischio circa 6 volte maggiore di cronicizzazione rispetto a soggetti con bassa frequenza di attacchi. Altri studi hanno evidenziato che il rischio di cronicizzazione è di circa 9 volte maggiore se presente un uso eccessivo di analgesici, in particolare per i farmaci di associazione, dose dipendente - più di 10 assunzioni al mese per i triptani e 15 per i farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) e paracetamolo. Le terapie efficaci Non da trascurare che l’uso eccessivo di farmaci sintomatici non solo può favorire la cronicizzazione dell’emicrania, ma può causare una nuova cefalea definita «medication overuse headache» (Moh, mal di testa da uso eccessivo di farmaco), che sommandosi ai giorni con emicrania determina un mal di testa continuo, peggiorando ulteriormente la qualità di vita e il benessere in generale. Una tempestiva diagnosi e un corretta gestione terapeutica diventano un momento importante. La terapia sintomatica ha l’obiettivo di bloccare l’attacco nel più breve tempo possibile e quindi va assunta tempestivamente - entro la prima mezzora/ora dall’inizio del mal di testa. Rappresenta l’approccio migliore quando la frequenza degli attacchi non è elevata e quando la frequenza degli stessi si risolve con la sola terapia sintomatica. Si avvale dei Fans o dei triptani, che rappresentano la classe di prima scelta dell’attacco emicranico, o del paracetamolo; attualmente viene indicata una nuova classe di farmaci chiamata gepanti. Gli altri farmaci La profilassi è indicata in tutti gli attacchi con frequenza medio-alta o quando sono parzialmente o completamente non responsivi alla terapia sintomatica. Ne fanno parte i beta bloccanti, i calcioantagonisti, gli inibitori dei recettori dell’angiotensina, alcuni antiepilettici, gli antidepressivi triciclici e i rivoluzionari anticorpi monoclonali anti CGRP (peptide correlato al gene della calcitonina). Infine la tossina botulinica tipo A si è dimostrata efficace nei soggetti con emicrania cronica non rispondenti o intolleranti ai farmaci di profilassi. Va ricordato che qualunque terapia di profilassi va mantenuta per un periodo di tempo di almeno tre mesi, evitando sospensioni improvvise, e che va considerata efficace se la frequenza dei giorni di mal di testa si riduce di almeno il 30-50%, non sottovalutando l’efficacia anche in termini di riduzione dell’intensità del dolore.

domenica 17 agosto 2025

È INUTILE CHE SBRAITATE: PER USUFRUIRE DEL BAGNO DI UN LOCALE DOVETE CONSUMARE

16 ago 2025 13:30 È INUTILE CHE SBRAITATE: PER USUFRUIRE DEL BAGNO DI UN LOCALE DOVETE CONSUMARE – NON È UN CAPRICCIO DEL RISTORATORE DI TURNO, MA C’È UNA SENTENZA DEL TAR DELLA TOSCANA CON LA QUALE SI PONE UNA PIETRA TOMBALE SULLA QUESTIONE: UN LOCALE PUBBLICO NON È UN BAGNO PUBBLICO – SE VI SCAPPA LA PIPÌ POTETE ENTRARE, MA DOVETE CONSUMARE ANCHE IL PRODOTTO CHE COSTA MENO: A QUEL PUNTO, IL PROPRIETARIO DEL LOCALE NON POTRÀ NON FARVI UTILIZZARE LA TOILETTE – IN ALCUNE CITTÀ, PERÒ, IL SINDACO HA STABILITO CHE… E' possibile usufruire del bagno di un locale senza consumare? La risposta breve è no: di norma il bagno nei locali pubblici è riservato a chi consuma nel locale stesso e quindi ne diventa cliente. Ma anche se questa risposta potrebbe risultare scontata per molte persone, la questione è stata oggetto di diversi dibattiti. A fare il punto è l'Unione nazionale consumatori. Un locale pubblico non è un bagno pubblico: a chiarirlo la sentenza del Tar Toscana, n. 691 del 18/2/2010, risultato di un ricorso contro la delibera del Consiglio comunale di Firenze, n.69 del 24 luglio 2007, che all’art. 29, comma 3, imponeva ai locali pubblici di garantire l’uso a titolo gratuito del bagno 'a chiunque ne facesse richiesta'. La sentenza del Tar Toscana afferma che 'l’eccessiva gravosità economica' dell’obbligo di fornire gratuitamente l’uso del bagno potrebbe comportare una limitazione della libertà di iniziativa economica, in violazione dell’art. 41 Cost. La prova di questa gravosità, indica la sentenza, “si coglie agevolmente nel fatto che l’erogazione dello stesso servizio da parte del Comune (tramite la predisposizione di bagni pubblici) è onerosa e non gratuita” e che quindi “il Comune di Firenze pretende di imporre ai privati di rendere a titolo gratuito una prestazione che, allorché venga resa dal Comune medesimo, è, invece, a titolo oneroso”. Il diritto di usufruire dei servizi igienici dei locali pubblici è quindi riservato a chi consuma, mentre i bagni pubblici sono a disposizione di tutti e prevedono una tariffa fissa per essere utilizzati. I locali pubblici sono obbligati ad avere un bagno a norma e funzionante e questo riguarda tutti gli esercizi con un’attività di somministrazione di alimenti e bevande che prevedono una sosta da parte di chi consuma, come bar, ristoranti, pizzerie, trattorie, tavole calde, self service, fast food, birrerie, pub, enoteche e simili. Non è invece obbligatorio nei locali in cui è previsto solo l’asporto o dove il consumo è immediato, come pizzerie d’asporto, rosticcerie o gelaterie. Il fatto che i locali pubblici debbano avere un bagno, però, non significa che chiunque abbia diritto a usufruirne. La normativa di riferimento è il Tulps, Testo Unico delle Leggi sulla Pubblica Sicurezza, che nell’art. 137 indica che “il gestore di un pubblico esercizio non può rifiutarsi di mettere la sua toilette a disposizione di un cliente pagante senza giustificato motivo”. Per essere considerati clienti paganti non esiste un importo minimo: anche acquistando il prodotto con il prezzo più basso, la persona diventa cliente pagante del locale e in quanto tale ha il diritto di usufruire del bagno. I locali commerciali tuttavia non possono imporre una tariffa fissa per utilizzare il bagno, poiché non è possibile chiedere un corrispettivo per un servizio che non è l’oggetto della propria attività. Il proprietario del locale può impedire l'uso della toilette al cliente? Chi gestisce un locale può impedire l’uso del bagno a un cliente? Secondo il Tulps questo è possibile solo in caso ci sia un 'giustificato motivo'. Ma poiché per legge chi detiene un pubblico esercizio ha l’obbligo di avere sempre un bagno a norma e funzionante, gli unici possibili giustificati motivi sono l’inagibilità temporanea o il fatto che il bagno sia occupato, sempre temporaneamente, da un’altra persona. Chi possiede un esercizio di somministrazione e non ha un bagno a norma e funzionante è sanzionabile. Il consumatore o la consumatrice a cui è impedito l’uso del bagno perché non presente o perché inagibile può chiamare la polizia municipale per una verifica. Nel caso in cui effettivamente il bagno risultasse non esistente o non a norma e/o funzionante, chi possiede l’esercizio di somministrazione dovrà pagare una multa. Le norme citate finora hanno validità se non esistono singoli regolamenti comunali che stabiliscono come devono comportarsi gli esercenti. Ad esempio il Comune di Parma, con il Regolamento per la Convivenza approvato con Delibera di Consiglio comunale n. 37 del 27/05/2014, obbliga i gestori ad “assicurare la piena ed effettiva fruibilità ed efficienza dei servizi igienici interni ai locali (consentendone l’utilizzo gratuito al pubblico)” e a impegnarsi “a comunicare all’interno del locale, attraverso apposito cartello segnaletico, la piena ed effettiva fruibilità a titolo gratuito, dei servizi igienici”. Tuttavia, salvo diversa indicazione del singolo regolamento comunale, i bagni dei locali pubblici sono riservati ai clienti.

martedì 12 agosto 2025

Botulino: i sintomi

Il dottor Francesco Broccolo ha fatto chiarezza e offerto qualche consiglio pratico per orientarsi in questo mare di allarmismo. Quali sono i sintomi da botulino e come è meglio comportarsi quando li si riconoscono? "Inizialmente dà dei sintomi gastroenterici, cioè la nausea, il vomito, la diarrea, i crampi addominali", ha premesso l'esperto, specificando poi che ci si deve insospettire quando questi "sono seguiti da sintomi neurologici". Un esempio concreto? "L'aptosi, la mancanza di riuscire a mantenere le palpebre aperte", ha spiegato Broccolo. Bisogna essere vigili e stare attenti. Se si riconoscono i sintomi elencati, è bene "chiamare immediatamente il 118, andare in pronto soccorso, perché così parte subito l'iter diagnostico e anche clinico", ha proseguito il professionista. C'è una terapia? Questa è la domanda che più rimbalza in rete in questi giorni. "La terapia è dare immediatamente, prima possibile, il siero che neutralizza la tossina che è in circolo", ha chiosato l'esperto.

domenica 10 agosto 2025

Manifesto contro le armi nucleari

Il 9 luglio 1955, Bertrand Russell e Albert Einstein insieme a diversi colleghi presentano un manifesto in cui invitano gli scienziati di tutto il mondo a riunirsi per discutere sui rischi per l'umanità prodotti dall'esistenza delle armi nucleari. «Stiamo parlando in questa occasione, non come membri di questa o quella nazione, continente o credo, ma come esseri umani, membri della specie Uomo, la cui continua esistenza è in dubbio. Il mondo è pieno di conflitti. Tutti, allo stesso modo, sono in pericolo e, se il pericolo viene compreso, c'è speranza che possano scongiurarlo collettivamente. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a chiederci non quali passi si possano intraprendere per dare la vittoria militare al gruppo che preferiamo, perché non ci sono più passi del genere; la domanda che dobbiamo porci è: quali passi si possono intraprendere per impedire una contesa militare il cui esito sarebbe disastroso per tutte le parti in causa?» La Pugwash conference propone la via del dialogo Ispirati dal manifesto Einstein-Russell, nel 1957 nel villaggio di Pugwash, Nova Scotia, Canada, un gruppo di scienziati si riunisce e fonda la Pugwash conference, che saranno premiate con il Nobel nel 1995. L'obiettivo di Pugwash è «l'eliminazione di tutte le armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e biologiche) e della guerra come istituzione sociale per la risoluzione delle controversie internazionali. A tal fine, la risoluzione pacifica dei conflitti attraverso il dialogo e la comprensione reciproca è parte essenziale delle attività di Pugwash, particolarmente rilevante quando e dove vengono impiegate o potrebbero essere utilizzate armi nucleari e altre armi di distruzione di massa». Abbiamo paura uno dell’altro, e questa paura genera la guerra Il testo fondatore di Pughwash recita: «L’umanità ha un solo nemico: la nostra irrazionalità che ci impedisce di lavorare assieme per risolvere i problemi comuni.» Abbiamo paura uno dell’altro, e questa paura genera la guerra. L’influenza di Pugwash è stata grande e riconosciuta, per esempio da Robert McNamara e da Gorbachev, nell’arrivare agli accordi di riduzioni delle armi nucleari. Come nasce un Nobel I primi passi verso il disarmo nucleare: il trattato START Il più efficace fra questi trattati è stato lo START (I e II) (Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche), un trattato bilaterale tra Stati Uniti e Unione Sovietica sulla riduzione e la limitazione delle armi strategiche offensive. Il trattato fu firmato il 31 luglio 1991 ed entrò in vigore il 5 dicembre 1994. Proposto dal presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, il trattato START nella sua attuazione finale alla fine del 2001 ha portato alla rimozione di circa l'80% di tutte le armi nucleari strategiche allora esistenti. Lo stock di armi nucleari dell'ex Unione Sovietica è sceso da 12.000 a 3.500. Qualche volta gli esseri umani sono ragionevoli. La storia non si fa con i «se invece». Ma se la ricerca nucleare si fosse sviluppata in un momento di pace, forse non vivremmo l’incubo in cui siamo. La forza dell’atomo avrebbe potuto essere una forza di pace. Gli esseri umani avrebbero potuto essere abbastanza ragionevoli da metterla sotto un controllo internazionale condiviso, come hanno fatto per le armi biologiche e chimiche. Se la ricerca nucleare si fosse sviluppata in un momento di pace, forse non vivremmo l’incubo in cui siamo Hanno provato ripetutamente a proporlo, dopo avere fatto il danno, scienziati come Oppenheimer, responsabile di avere diretto la costruzione della bomba americana, o Niels Bohr, il grande vecchio della fisica quantistica. Ma ha prevalso la sete di potenza del governo americano. Ci ha provato, l’umanità intera, dopo i quasi 100 milioni di morti ammazzati nelle due guerre mondiali e l’orrore infinito di Hiroshima e Nagasaki. Ci ha provato con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, con il sogno delle Nazioni Unite che insieme rinunciano alla guerra e la impediscono, con i grandi centri di ricerca internazionali come il CERN di Ginevra, aperto a tutte le nazioni del mondo. I trattati START ci hanno provato di nuovo. Ma la sete di dominio ha prevalso. Invece di organizzare una pace condivisa, negli anni successivi, l’America ha scelto di privilegiare il suo proprio impero attraverso la violenza. 4 agosto 2025 ( modifica il 4 agosto 2025 | 19:36)

sabato 9 agosto 2025

Botulino, la guida: come ci si contagia, i sintomi, le conseguenze e come difendersi

sabato 9 agosto 2025 condividi Botulino, la guida: come ci si contagia, i sintomi, le conseguenze e come difendersi In Italia è psicosi da botulino: tre persone hanno perso la vita a causa del virus, una grave malattia provocata dalla tossina del batterio Clostridium botulinum. Una tragedia che riporta al centro dell’attenzione la necessità di conoscere meglio questo nemico invisibile: che cos’è, come si contrae, come riconoscerlo e, soprattutto, come prevenirlo. Che cos’è il botulino Il termine “botulino” indica comunemente il Clostridium botulinum, un gruppo di batteri in grado di produrre una delle neurotossine più potenti conosciute. Si tratta di microrganismi anaerobi, che si moltiplicano soltanto in assenza di ossigeno. Nell’essere umano e in alcuni animali, l’infezione provoca il botulismo, una malattia che può condurre alla morte per paralisi respiratoria. I primi segnali possono essere subdoli: abbassamento delle palpebre, visione doppia o offuscata, pupille dilatate, difficoltà nel parlare e deglutire, secchezza della bocca e stitichezza. Nei casi più gravi, la tossina paralizza progressivamente la muscolatura fino a coinvolgere quella respiratoria. Come ci si contagia Il botulismo si presenta in tre forme principali: alimentare, da ferita e infantile. È raro – in Italia si registrano solo alcune decine di casi l’anno – ma estremamente pericoloso. La forma alimentare, la più frequente negli adulti, si contrae ingerendo alimenti contaminati, spesso conserve preparate in casa come melanzane o funghi sott’olio. Le spore del batterio, presenti nel terreno e quindi facilmente a contatto con frutta e verdura, resistono al lavaggio. In condizioni prive di ossigeno e con pH e nutrienti favorevoli, le spore “si risvegliano” e il batterio attivo inizia a produrre la neurotossina. Per comprendere se un alimento è a rischio si badi al coperchio: una rigonfiatura, o un'emissione di gas all'apertura, così come il "clac" anomalo del tappo indica che il prodotto non va consumato. Tempi di incubazione Dopo l’ingestione della tossina, i sintomi possono comparire in un intervallo che va da poche ore a un massimo di 10 giorni, con una media di 12-36 ore. La rapidità di esordio dipende dalla quantità di tossina ingerita: più è alta, più i segni compaiono velocemente. Conoscere questo intervallo è fondamentale per riconoscere il rischio e intervenire tempestivamente con cure ospedaliere, che possono fare la differenza tra la vita e la morte. Come evolve la malattia Una volta ingerite, le tossine vengono assorbite nell’intestino e raggiungono il flusso sanguigno, che le trasporta verso i nervi periferici. Qui si legano a recettori specifici e bloccano il rilascio di acetilcolina, il neurotrasmettitore che consente la contrazione muscolare. Il risultato è una paralisi flaccida progressiva che parte dalla testa e scende verso il basso. Il botulismo non si trasmette da persona a persona: il contagio avviene solo per esposizione diretta alla tossina o alle spore attive. 6. Come difendersi Evitare conserve casalinghe se non si è certi delle corrette procedure di sterilizzazione. Acidificare le preparazioni (aggiunta di aceto o limone) quando previsto dalle ricette sicure. Riscaldare i cibi a rischio prima del consumo, seguendo le indicazioni ufficiali. Scartare subito ogni alimento con confezione gonfia, tappo che “clicca” o odore sospetto. Conservare correttamente i cibi, rispettando temperature e tempi indicati. La conoscenza è l’arma più potente contro il botulismo: solo comprendendo come agisce e prevenendone la formazione si può ridurre drasticamente il rischio.

lunedì 4 agosto 2025

Il mondo sui carboni ardenti

Dal 2000, cioè dalla presidenza Bush in poi, negli Stati Uniti avevano chiuso 780 centrali a carbone (foto Getty) Magazine Il mondo sui carboni ardenti Siegmund Ginzberg 04 ago 2025 La fonte più inquinante e letale ora brucia più che in passato. La fame d’energia e l’addio alle buone intenzioni La finanza verde scopre il suo bluff Dovrei essere grato al carbone. Avevo cinque anni. Una tosse perniciosa mi consumava settimana dopo settimana. I farmaci non avevano effetto. Mia mamma mi portò a Kadiköy, dall’altra parte del Bosforo, dove aveva sede la più vetusta centrale che alimentava Istanbul. Risaliva ai tempi ottomani. L’hanno dismessa negli anni 90 del secolo scorso, da allora è stata trasformata in museo. Si fece dare un sacchettino di carta con qualche pezzo di carbone coke. Mi fece aspirare i fumi. La pertosse passò. Forse è la ragione per cui sin da bambino mi sono piaciuti gli odori chimici, aspri e pungenti. Dalle vernici con cui si rinfrescavano le vecchie barche a remi di legno, alla Coccoina, al toscano forte… Vecchio, caro carbone. A casa ci si riscaldava con la stufa. Non so più quante scottature nel toccare inavvertitamente i lucenti tubi di scarico. Nella Pechino degli anni 80 ci si scaldava e si cucinava con rondelle di polvere di carbone. Ho indelebile la visione dello Shanxi tutto giallo di loess e nero di carbone. Le strade erano ingombre di file di carretti tirati a mano o coi cavalli. Un cavallo si era accasciato sfinito dalla fatica. Non riuscirono a tirarlo su. Non è più così. Nel frattempo hanno chiuso (tra le proteste delle maestranze e degli enti locali) migliaia di piccole miniere. Ma lo Shanxi, che è stato definito “la Pennsylvania della Cina”, continua a produrre un terzo del carbone della Cina. Senza carbone non ci sarebbero stati la rivoluzione industriale, le fabbriche, né la classe operaia. Fu una fantastica e terribile epopea. Con costi umani altissimi. Una catena senza fine di terribili incidenti che intrappolavano i minatori nelle viscere della terra. Anche bambini sotto i sei anni, che fino a metà Ottocento erano metà della forza lavoro impiegata nelle miniere. Avevano continuato a impiegarli fino al Novecento avanzato. Città interamente annerite dalle polveri di carbone (il “fumo di Londra” ha dato il nome a un colore molto di moda nell’abbigliamento elegante maschile). L’epopea ha lasciato un segno indelebile nella letteratura dei due secoli precedenti il nostro. Viene narrata, nei diversi aspetti, in un libro, vecchiotto ma ancora valido, di Barbara Freese, Coal: A Human History (Basic Books, 2003, edizione riveduta e aggiornata). Senza carbone non ci sarebbero stati la rivoluzione industriale, le fabbriche, la classe operaia. Epopea fantastica e terribile, dai costi umani altissimi Una storia conclusa, o che comunque volge alla fine? Non proprio. Nel mondo si brucia ora il doppio del carbone che si bruciava nel 2000. Il quadruplo di quello che si bruciava nel 1950. E’ tuttora la fonte di energia dominante nell’industria. Ma anche quella più inquinante di tutte. E’ quella che maggiormente contribuisce ai gas serra. E’ di gran lunga la più letale, anche rispetto alle altre fonti fossili. Dieci anni fa gli accordi di Parigi sul contenimento del surriscaldamento globale a 1,5 gradi sembravano annunciare la fine del carbone. Tutti i modelli convergevano nel dichiarare che era il primo dei grandi inquinanti a doversi ridurre (ancora più rapidamente del petrolio) se ci si voleva avvicinare all’obiettivo (raggiungerlo viene ormai ritenuto impossibile). Non c’è transizione ecologica che tenga se non si comincia a fare a meno del carbone. E invece domanda ed estrazione hanno continuato a crescere. A dispetto di ogni buona intenzione dichiarata. Specie in Cina e in India, che ne sono i maggiori consumatori al mondo. Dieci anni fa gli accordi di Parigi sembravano annunciare la fine del carbone. Oggi se ne brucia il doppio rispetto al 2000, il quadruplo del 1950 Si suol dire che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Figuriamoci se vengono meno anche le buone intenzioni. In Europa molti paesi hanno già rinunciato al carbone. Gli Stati Uniti sembravano avviati sulla buona strada: sono il paese che nell’ultimo decennio aveva più ridotto le centrali a carbone. Ma ora è cambiata la solfa. “Carbone è bello, è pulito”, il refrain di Trump. Sono aggettivi a cui tiene. Specie quando fa campagna nelle regioni minerarie. “Dico sempre [ai miei] di non omettere mai gli aggettivi bello, pulito quando dicono carbone”. L’ha ripetuto nel firmare davanti alle telecamere, circondato da minatori col casco, uno dei suoi primi ordini esecutivi da presidente, teso a incentivare, senza più limiti, l’estrazione, il consumo, e pure l’esportazione di carbone. Felici i minatori. Malgrado il ritorno di un male che trent’anni fa sembrava in via di estinzione: l’antracosi, il Black Lung Disease, la “malattia del polmone nero”. La stima è che di questa condizione cronica soffra ora un minatore americano su dieci. Ma gli preme di più che riaprano le miniere. E’ stato il voto dei minatori della Pennsylvania a far vincere Trump. Dal 2000, cioè dalla presidenza Bush in poi, avevano chiuso ben 780 centrali a carbone. Le 400 centrali a carbone rimanenti ormai forniscono non più del 16 per cento del fabbisogno elettrico degli Stati Uniti. Molto meno delle centrali a gas, del nucleare e delle rinnovabili. Era pianificato che metà delle centrali in funzione chiudessero o fossero trasformate anche loro. Ma molte, almeno un terzo di quelle che sarebbero dovute andare in pensione, hanno posticipato, o addirittura cancellato la chiusura. L’India di Narendra Modi si era impegnata ad azzerare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2070. Buona intenzione, anche se, come disse Keynes, “a lungo termine saremo tutti morti”. Ma intanto il loro ricorso al carbone aumenta, anziché diminuire, e malgrado ingenti investimenti in rinnovabili. La Coal India, statale, che è la più grande compagnia di produzione di carbone al mondo, ha appena annunciato la riapertura di oltre 30 miniere che erano state chiuse e l’apertura di altre 5 miniere nuove, da aggiungere alle 310 miniere in operazione. Il carbone continua a fornire tre quarti della produzione di elettricità del paese. La previsione è che l’uso del carbone continuerà a crescere fino al 2035 (quest’anno hanno raggiunto il record assoluto di 1 miliardo di tonnellate, con un aumento del 5 per cento rispetto all’anno precedente; l’aumento continuerà ad essere, secondo le previsioni ufficiali, del 6-7 per cento all’anno). Poi, dicono, si assesterà. E comincerà a diminuire. Ma solo dal 2047 in poi. La Cina continua a bruciare più carbone di Stati Uniti ed Europa insieme. La Coal India ha annunciato la riapertura di oltre trenta miniere La Cina si è mossa in direzione delle fonti rinnovabili prima e su maggiore scala di tutti gli altri. Sono anni che Pechino non è più immersa in una perenne nuvola di smog. Sono scomparse le vecchie stufette a blocchi di polvere di carbone. Hanno decentrato le fabbriche. Hanno installato più turbine a vento e pannelli solari di tutto quanto il resto del mondo. Hanno il primato assoluto nella produzione di batterie sempre più efficienti. Hanno più di metà dei brevetti per la produzione di energia pulita di tutto il mondo. Hanno trentuno nuovi reattori nucleari in costruzione. Si apprestano a soffiare agli Stati Uniti il primato nelle nuove tecnologie nucleari. Hanno il primato assoluto, in qualche caso il monopolio, nelle terre rare indispensabili per le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale. Le vendono a tutti, così come vendono a tutti le loro auto elettriche. Esportazioni virtuose: la stima è che da sole contribuiranno a ridurre dell’1 per cento le emissioni nel resto del mondo. Ma intanto loro continuano a bruciare più carbone e ad emettere più inquinamento climatico di Stati Uniti ed Europa insieme. Con le migliori intenzioni, continueranno così per un bel po’. Se hanno cambiato rotta da un paio di decenni, non è stato per salvare il mondo. L’hanno fatto perché dover importare fonti di energia che non hanno minacciava la loro sicurezza. Meno male che, parlando l’altro giorno a New York, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha sostenuto che i fossili (carbone incluso) “stanno finendo fuori strada”, e che “un futuro di energia pulita non è più una promessa, è un fatto”. In effetti, secondo l’ultimo rapporto Onu, nel 2024 le rinnovabili hanno fatto la parte del leone rispetto alle fonti fossili: il 92,5 per cento dell’aggiunta complessiva di capacità e il 72 per cento della crescita di generazione aggiuntiva di elettricità. Pulito non è solo più etico: ormai pure conviene. Secondo l’Irena (International Renewable Energy Agency) il 90 per cento delle rinnovabili produce ormai su scala mondiale a minor costo delle alternative fossili più a buon mercato (il calcolo include le spese di investimento di capitale e di operazione degli impianti, ma non i costi delle infrastrutture di trasmissione e di distribuzione). “I paesi che si aggrappano ai combustibili fossili non stanno proteggendo le loro economie: le stanno sabotando”, l’ammonimento di Guterres. Che però non pare destinato ad avere maggior ascolto dei suoi ammonimenti sulle guerre in Ucraina e nel medio oriente. I conti senza l’oste non tornano. Un fatto è che il mondo intero è sempre più affamato di energia. L’intelligenza artificiale promette aumenti esponenziali dei consumi di elettricità. Si stima che tra il 2030 e il 2035 i grandi centri dati che “addestrano” modelli sempre più complessi, consumeranno il 20 per cento dell’elettricità prodotta nel mondo. Se non si trovano nuove fonti, non resterà che grattare il fondo del barile di tutte le fonti esistenti, sporche, carbone compreso, o pulite che siano. Un secondo fatto è che da gennaio alla Casa Bianca c’è Trump. Che non ha mai fatto mistero del suo programma, tutto sbilanciato sui combustibili fossili: “Drill, baby, drill”. Altro che ridurre carbone, petrolio e al gas. Dà via libera a tutti i progetti divora-energia della Silicon Valley. Massacra il suo ex amico Musk togliendogli gli incentivi alle auto elettriche. Trump sta assumendo il ruolo di pusher mondiale degli idrocarburi. Spingendo Giappone, Corea, e pure l’Europa, a comprargliene di più. Totali sono il suo scetticismo e disinteresse per le conseguenze climatiche: ha sistematicamente tagliato i fondi a tutte le agenzie che monitorano i mutamenti climatici, sospette di “narrazioni” che possano contraddire la nuova corsa agli idrocarburi, ha persino chiuso i siti su cui rendevano pubbliche le loro ricerche. “Clima” sembra essere diventata parola tabù in America, quanto ogni minima critica al Partito comunista, o a Xi Jinping, o alla strage di piazza Tiananmen del 1989 sono da sempre parole tabù, temi proibiti per i siti cinesi. Ha licenziato centinaia di scienziati ed esperti che sinora compilavano i rapporti pubblici sull’argomento. Ne ha assunti altri noti per aver sostenuto che la questione clima è ancora scientificamente “irrisolta”, per aver messo in dubbio che il surriscaldamento del pianeta sia dovuto all’attività umana; ha assunto persino un meteorologo dell’Università dall’Alabama, affiliato alla Heritage Foundation - il think-tank di estrema destra, coautore del famigerato Project 2025 - il quale sostiene che sia causato invece dalle nubi, e che aveva pubblicato un rapporto intitolato “Migliorare la vita umana” in cui si argomenta che i combustibili fossili sono “essenziali” per risolvere la povertà globale. Trump ha vinto anche grazie al voto dei minatori della Pennsylvania. Ora ha assunto il ruolo di pusher mondiale degli idrocarburi Ma come, con l’America ormai sconvolta continuamente da alluvioni assassine, tempeste, tifoni, fenomeni atmosferici abnormi, possibile che l’opinione pubblica gli lasci passare liscio questo smaccato negazionismo? Accetti senza farne un dramma il ritorno all’irresponsabilità del passato? Possibile. Nel porsi questo interrogativo a proposito dell’alluvione in Texas, il giurista Cass Sunstein, studioso di razionalità e irrazionalità dei comportamenti, ha ricordato che, anche di fronte a fatti traumatici, tendono a prevalere le opinioni preconcette. Chi già prima riteneva che i mutamenti climatici sono un pericolo reale, continuerà a sostenere che bisogna fare assolutamente qualcosa per fermarli. Chi invece era già convinto che il clima è una balla, che certe tragedie sono sempre successe, dal Diluvio universale in poi, difficilmente cambierà idea. Continuerà a ritenere che Trump abbia ragione a fregarsene. L’offensiva, la retromarcia a tutto campo, non riguarda solo l’America. Tocca anche chi, come l’Europa, andava, bene o male, nella direzione opposta. Il guaio è che le grandi potenze del pianeta hanno interessi diversi sulla questione climatica. E quindi a una sfida che sino a non molto fa veniva considerata “globale”, da risolvere “tutti insieme”, stanno rispondendo in ordine sparso, anzi contraddittorio. Gli Stati Uniti di Trump (ma già in qualche misura i suoi predecessori) puntano a trarre il massimo vantaggio dalla situazione esistente, e dalle fonti di cui hanno già la disponibilità. E così gli altri. Un saggio recente di Lucio Caracciolo l’ha presentata in modo estremamente schematico ma suggestivo. La questione non è se ci siano mutamenti climatici in atto, né se siano dovuti all’attività umana, o ad altri fattori. Dando per scontato che qualcosa si sta muovendo, che le temperature stanno salendo, l’America punterebbe alla Groenlandia e alle sue miniere (e le mire sul Canada vanno ovviamente nella stessa direzione). La Russia vorrebbe approfittare del cambio di temperature che sta scongelando il permafrost siberiano, mentre continua a vendere il petrolio e il gas (e a finanziare coi ricavi la sporca guerra di Putin in Ucraina). E tra chi glielo compra c’è la Cina. La Cina sarebbe interessata a produrre (e vendere al resto del mondo) le tecnologie per l’adattamento. En passant, tutti quanti sarebbero interessati alle nuove rotte artiche, il nuovo mito del “Passaggio a nord-ovest”, rese possibili dallo scioglimento dei ghiacci, che consentirebbero enormi risparmi di tempo e di risorse nel muovere le merci, comprese le materie prime energetiche. A prenderle da tutti resterebbe l’Europa, che si è attardata, anzi ha esagerato nel ruolo di crocerossina del clima. Si chiama geopolitica, bellezza! Semplicistico? Probabilmente. Sgradevole? Certamente. Ma alcune cose paiono incontrovertibili. Pochi ormai ritengono possibile raggiungere l’obiettivo, che ci si era prefissati un decennio fa, di contenere il surriscaldamento. Le emissioni, a dispetto di tutti i buoni propositi, anziché diminuire, sono aumentate di circa lo 0,8 per cento ogni anno. Il “net zero” entro il 2050 appare ormai irrealistico. Dovremmo riuscire a ridurle del 4,8 per cento all’anno. Se le riducessimo dell’1 per cento all’anno dovremmo attendere il 2160 per raggiungere l’equilibrio. Se lo facesse solo l’Europa, sarebbe come svuotare il mare con un secchiello. In questo quadro fosco, di pessimismo cosmico e apocalittico, c’è chi, come Caracciolo, propone di cambiare i parametri, di rinunciare all’obiettivo di arrestare il cambiamento climatico e di concentrarsi invece sul limitarne e contrastarne le inevitabili conseguenze. L’Italia, ad esempio, potrebbe lavorare sui corsi d’acqua che continuano ad esondare, concentrandosi su grandi lavori per il riassetto del territorio e del corso dei fiumi, di fronte al ripetersi sempre più frequente di fenomeni come alluvioni e bombe d’acqua, che peraltro colpiscono sempre gli stessi punti fragili. Insomma rimediare, piuttosto che prevenire ed eliminare le cause, che è ormai impossibile. Non mi hanno mai convinto catastrofismi e profezie di apocalisse, che vengono fuori da che mondo è mondo. Ma l’idea mi pare sensata. Non ho mai capito perché la sinistra non si sia mai battuta per grandi lavori idraulici, investimenti epocali, un piano per il riassetto del territorio di portata pari al “Next generation Europe”. Così come non ho mai capito perché abbia lasciato alla destra un tema altrettanto epocale come la crisi demografica. Una cosa invece mi pare chiara: che col carbone dovremo continuare, purtroppo, a convivere per un bel po’.