Il rifiuto di accettare a priori il verdetto dell’urna spezza un inviolabile tabù della democrazia americana. Hillary gioca saggiamente in difesa, che è il migliore attacco
Quello
che rimane dopo un’ora e mezza di dibattito a metà fra lo
spettacolo dadaista e la libera associazione freudiana è il rifiuto
di Donald Trump di accettare a priori il risultato delle elezioni.
Che il sistema sia “rigged”, viziato, lo dice con insistenza da
settimane, ma ieri sera sul palco di Las Vegas ha detto che in caso
di sconfitta l’8 novembre vedrà il da farsi. Non è certo se e a
quali condizioni concederà l’eventuale vittoria a Hillary Clinton.
“Voglio tenere la suspense”, ha detto, svelando ancora una volta
che concepisce il processo elettorale come un grande reality show,
dove l’attesa è tutto. Mettendo dubbi sull’imparzialità del
sistema e agitando lo spettro dei brogli Trump ha contraddetto Ivanka
e la manager della campagna, Kellyanne Conway, che avevano confermato
la fiducia del candidato nel sistema, ma soprattutto ha rotto un tabù
che in un certo senso è anche più inviolabile delle volgarità
sulle donne che hanno tenuto banco nelle ultime settimane. Quelle
indicano tratti della personalità e modi di condotta, mentre
rifiutarsi di accettare il risultato di un’elezione equivale a una
mozione di sfiducia verso l’intera democrazia americana. E’
politicamente più devastante di un “grab by the pussy”.
Non
sorprende che i commentatori abbiano lasciato perdere il resto del
dibattito e si siano fiondati su quel mastodontico particolare per
incastrare l’illiberale Donald, nemico della patria che va a
braccetto con Putin e si balocca con i complotti sui brogli. E giù
di testimonianze di verdetti elettorali tesi, discussi, ma ugualmente
accettati con decoro e sentimento patrio, da Al Gore a George H.W.
Bush fino ad arrivare addirittura a Nixon, preso per l’occasione a
modello di virtù civiche perché che nel 1960 ha concesso senza
fiatare la vittoria a Kennedy nonostante da ogni parte venissero voci
di sotterfugi e frodi. Il fatto di cui i commentatori con le vesti
stracciate difficilmente tengono conto – proprio in quanto
commentatori con la propensione a stracciarsi le vesti – è il
senso politico e simbolico della posizione di Trump, che non sta
dando una notizia in prima serata ma conforta il suo elettorato,
ovvero alcune decine di milioni di americani che credono già che il
sistema sia “rigged” e il voto preordinato dalle forze oscure
dell’establishment. Galvanizza una parte del paese che non ha
alcuna fiducia nelle istituzioni governate dalle élite, e proprio
questa sfiducia è il motivo per cui ieri sera su quel palco c’era
Trump e non uno degli altri diciassette candidati repubblicani che si
sono presentati all’inizio. Il problema, semmai, è che tutti i
sondaggi sostengono che la parte di elettorato su cui l’argomento
dei brogli fa presa non è minimamente sufficiente a vincere la
maggioranza dei grandi elettori. La serata di ieri ha confermato che
il candidato repubblicano non vede davanti a sé altra via che quella
dell’ostinazione e del rilancio della posta su quello che con
grandissima probabilità è un bluff.
E
dire che era stato il migliore dei tre dibattiti per Trump. Nella
prima mezz’ora ha mantenuto la calma, si è controllato, ha tenuto
il filo del discorso e ha infilato alcuni scambi efficaci contro
Hillary, che al solito era preparatissima e meccanica. La faccia di
Trump era anche meno arancione del solito. Sugli affari della
fondazione Clinton, in alcuni passaggi sulla politica estera e
sull’economia ha incalzato l’avversaria, talvolta costretta a
ripiegare sulle frasi imparate a memoria (tutti i politici lo fanno:
il dramma è che quando lo fa Hillary si vede). A differenza degli
altri dibattiti, Trump si era preparato, il che non significa che
avesse nuovi contenuti da esibire ma che ha guadagnato in compostezza
e contegno. Con il passare dei minuti la compostezza è scemata,
lasciando il posto alle solite interruzioni, a interventi incoerenti
e con troppa enfasi, a piccole faide adolescenziali – “tu sei un
burattino di Putin”, “no, tu sei un burattino” – e ad alcuni
colpi sterili pensati appositamente per strizzare l’occhio ai suoi,
come quando ha parlato del “regime Obama”. Grande la confusione
di Trump quando si è parlato di Siria e Iraq e quasi da non credere
quando ha apostrofato Hillary con un “such a nasty woman”. La
candidata democratica ha avuto una serata con qualche momento di
affanno e una punta di nervosismo che ancora non era apparsa così
chiaramente, ma senza intoppi sostanziali: una sobria e solida
posizione di mantenimento che nel contesto attuale equivale a una
vittoria. Praticamente una rappresentazione in scala della sua
candidatura.
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