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La lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, menzionata anche come appello (o manifesto) contro il commissario Calabresi, è un documento pubblicato dal settimanale L'Espresso, con cui numerosi politici, giornalisti e intellettuali chiesero la destituzione di alcuni funzionari, ritenuti artefici di gravi omissioni e negligenze nell'accertamento delle responsabilità circa la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra mentre era in stato di fermo presso la questura di Milano, nell'ambito delle indagini sulla strage di Piazza Fontana condotte dal commissario Luigi Calabresi.
Storia[modifica | modifica wikitesto]
La lettera formula una serie di accuse a persone che avrebbero condizionato, a vario titolo, l'iter processuale in favore del commissario Calabresi, partendo dal presupposto che Pinelli fosse stato ucciso e che sussistesse una responsabilità di Calabresi in merito alla sua morte. Tali persone sono: il giudice presidente del Tribunale di Milano, Carlo Biotti, che avrebbe dovuto pronunciarsi sul procedimento per diffamazione promosso da Calabresi nei confronti di Lotta Continua e che, prima di essere ricusato su iniziativa della difesa di Calabresi, aveva chiesto con forza la riesumazione del corpo di Pinelli; Michele Lener, avvocato di Calabresi; Marcello Guida, questore di Milano all'epoca del caso Pinelli, il quale, nella prima conferenza stampa relativa alla morte di Pinelli, aveva sostenuto la tesi del suicidio a causa dell'implicazione dell'anarchico nella strage[1]; Giovanni Caizzi e Carlo Amati, magistrati milanesi, che indagarono sulla morte di Pinelli.
Il 10 giugno 1971, la lettera fu inizialmente sottoscritta da dieci firmatari: Mario Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. La lettera aperta fu pubblicata sul settimanale L'Espresso il 13 giugno, a margine di un articolo di Camilla Cedernaintitolato Colpi di scena e colpi di karate. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli. Il titolo si ispira all'ipotesi, emersa da alcune prime indiscrezioni sulle ferite ritrovate sul corpo di Pinelli e sostenuta da Lotta Continua e da diversi ambienti extraparlamentari, che la defenestrazione di Pinelli fosse stata causata da un colpo di karate. Le settimane successive, il 20 e il 27 giugno, la lettera venne ripubblicata, con l'adesione di centinaia di personalità del mondo politico e intellettuale italiano, fino a giungere a 757 firme.
Il linguaggio usato nella lettera, caratteristico di quegli anni di aspri e violenti scontri ideologici[2], è particolarmente diretto ed accusatorio, al punto che successivamente, in tempi e modi diversi, alcuni dei firmatari rivedettero le loro posizioni. Norberto Bobbio, ad esempio, in una lettera aperta indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su la Repubblica il 28 marzo 1998, parla apertamente di «orrore» nel rileggere quelle parole, distinguendo tuttavia merito del comunicato, sul quale non intese ritrattare, e linguaggio[3]. Altri, invece, come Paolo Mieli[4] e Carlo Ripa di Meana[5], ritrattarono la sottoscrizione dell'appello, ritenendo che esistesse un nesso di causalità con l'omicidio del Commissario Calabresi, avvenuto circa un anno dopo. Giampaolo Pansa, il quale invece declinò l'invito a firmare l'appello, afferma che dette «un avallo al successivo assassinio di Calabresi»[6]. Folco Quilici e Oliviero Toscani[7] negarono invece di avere mai sottoscritto l'appello.
Il testo integrale[modifica | modifica wikitesto]
« Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida[8], e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini. »
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Elenco dei firmatari[modifica | modifica wikitesto]
Segue l'elenco dei 757 firmatari della lettera[9] in ordine alfabetico.
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