Coronavirus impone maxi-test mondiale sullo smart working. De Masi: "In Italia c'è una resistenza patologica"
Il sociologo all'Huffpost: "Noi italiani non concepiamo di non andare in ufficio. E i capi vogliono controllarci continuamente. Ma è il modo migliore di lavorare"
15/02/2020 02:03pm CET
Il coronavirus ha costretto centinaia di aziende cinesi a correre ai ripari, nel vero senso della parola: per evitare il contagio, decine di dipendenti hanno smesso di andare in ufficio e hanno iniziato a lavorare da casa. Secondo Bloomberg, è in atto “il più grande esperimento di telelavoro al mondo” : un test che - se darà i suoi frutti - potrebbe cambiare le sorti del nostro modo di lavorare in futuro. Mentre il fatturato di società che offrono videoconferenze come Zoom è aumentato nel giro di pochissimo, c’è chi spera che l’esempio possa essere imitato anche da Paesi come l’Italia. Domenico De Masi , professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma, e fondatore della SIT, Società Italiana Telelavoro, per la diffusione del telelavoro e la sua regolamentazione sindacale, spiega ad HuffPost perché lo “smart working” fatica ad affermarsi, pur essendo “il modo migliore di lavorare”: “I vantaggi del lavorare da casa sono inquantificabili, ma in Italia c’è una resistenza patologica al cambiamento”.
“La vicenda del coronavirus - afferma - mi ricorda quella dell’imprenditore e dirigente Giovanni Alberto Agnelli, il quale morì giovanissimo, nel 1997, a soli trentatré anni per un tumore. Quando era malato e non riusciva più ad andare in azienda disse che aveva scoperto l’importanza del telelavoro. La stessa cosa sta succedendo a milioni di cinesi che sono costretti dalle circostanze a lavorare da casa: finalmente scopriranno che è il modo di migliore di lavorare”.
Visionario e apripista,
De Masi da tempo è pronto a scommettere sullo “smart working”, anche se le sue aspettative sono state deluse: “Già quarant’anni fa, quando creai la SIT, la Società Italiana Telelavoro, ero convinto che dì lì a poco il telelavoro si sarebbe affermato nella nostra società come metodo di lavoro principale. All’epoca non c’era Internet, ma c’era il telefono: credevo che con il telefono si potessero svolgere diversi lavori senza necessità di recarsi in ufficio. Mi illudevo che, essendo una cosa razionale, il telelavoro si sarebbe affermato subito. E invece no”.
Nel 2019 erano 570mila i “lavoratori agili” in Italia, in crescita del 20% rispetto al 2018: è quanto riporta uno studio condotto dall’
Osservatorio smart working del Politecnico di Milano. Ma, stando ai dati dell’Eurostat, il nostro Paese è ancora sotto la media europea per utilizzo dei vantaggi forniti dalla tecnologia. “In Italia c’è una resistenza al cambiamento che definirei patologica - sostiene il professore -. Non riusciamo ad abbandonare l’idea di dover per forza lavorare da un’altra parte, di doverci spostare da casa per raggiungere l’ufficio. Questa abitudine si è consolidata nel corso dei duecento anni di società industriale. Prima dell’avvento dell’industria, si lavorava a casa: il medico lavorava a casa, l’avvocato lavorava a casa, anche l’artigiano lavorava a casa. Poi è arrivata l’industria, con le sue macchine potenti e fragorose e gli operai hanno iniziato a spostarsi per raggiungerle. L’andirivieni tra casa e lavoro si è così insediato nella nostra mentalità e persiste tuttora, anche se viviamo in un’epoca in cui la maggior parte dei lavori potrebbe facilmente essere svolta da remoto”. “Ovviamente non tutti i lavori si possono ‘telelavorare’: il pompiere deve correre dove è l’incendio, il chirurgo deve stare in sala operatoria, il cassiere deve essere sul posto. Ma il 60%-70% della popolazione svolge un lavoro da ‘impiegato’, ovvero manipola informazioni che grazie a telefono e Internet potrebbero essere trasferite da un posto all’altro a costo zero, senza bisogno di recarsi ogni giorno in un luogo fisico diverso dalla propria abitazione. Penso, ad esempio, a tutte quelle persone che lavorano nei Ministeri: potrebbero benissimo farlo da casa, dal bar, dalla spiaggia”.
“Ormai ci siamo assuefatti a questo modo di lavorare, siamo talmente abituati a fare chilometri ogni giorno per raggiungere il lavoro che la possibilità di non farlo ci sembra impensabile - aggiunge -. Abbiamo imparato a dividerci tra due luoghi principali: la casa, in cui tornare a dormire, e il posto in cui lavoriamo. A questa visione ‘distorta’ contribuisce anche la mentalità dei capi: con il lavoro da remoto non è possibile controllare il lavoratore momento per momento mentre lavora, ma solo esaminare il risultato finale. Questo per alcuni capi è inaccettabile: hanno quella che io chiamo la ‘sindrome di Clinton’, abituato ad avere la stagista sempre pronta nella stanza a fianco. Ecco, molti boss italiani ragionano allo stesso modo: vogliono avere i dipendenti sottocchio, non si fidano. Nel telelavoro invece non conta il processo, ma l’obiettivo: non importa se il dipendente preferisce lavorare di notte, al mattino presto, prendersi poche o tante pause. L’importante è che porti a termine il suo compito nel migliore dei modi”.
I benefici sono molteplici: “Lavorare da remoto ha talmente tanti vantaggi che, se ci riflettiamo bene, semplicemente dovremmo prendere e dire ‘ok, da domani lavoriamo tutti da casa’ - continua De Masi -. Prima di tutto, c’è un risparmio notevole di tempo e di soldi. Basti pensare al tragitto che si fa per andare al lavoro: lavorando da casa non si spreca tempo, non si sprecano soldi per la benzina, per l’autostrada, diminuisce la possibilità di incorrere in incidenti. La città è più libera, meno inquinata, si riduce il traffico. Oltre ai vantaggi per l’ambiente, ci sono poi quelli per le aziende: ovviamente se i dipendenti lavorano da casa, le aziende non avranno bisogno di affittare grossi spazi e spendere in questo modo le proprie risorse. Non ci sarà bisogno di sprecare aria condizionata, di allestire le mense per i lavoratori, etc”.
Vantaggi ci sono poi anche dal punto di vista psicologico: “Nel corso del tempo, per scoraggiare questa pratica, si sono diffuse molte fake news, come quella che vede chi lavora da casa ‘isolato’ dal resto del mondo. Non è così: chi lavora da remoto può svolgere il suo lavoro in tutta tranquillità e concentrazione senza perdersi in chiacchiere inutili, può scendere al bar sotto casa per un caffè, parlare con gli altri, rapportarsi con le persone senza essere costretto a passare del tempo con gente che non ha scelto”.
In Cina - favorita anche dal coronavirus - si sta diffondendo sempre di più la cosiddetta
“homebody economy” , un tipo di economia “da casa” che va dal telelavoro ai crescenti servizi di streaming on demand, dallo shopping online, dalla consegna diretta di cibo e altri prodotti a domicilio all’offerta didattica e ai corsi di formazione su Internet. Ma qual è la situazione in Italia? Possiamo davvero immaginare una società del futuro in cui in larga parte si lavori da remoto? Secondo il professor De Masi, sì: “Siamo in ritardo rispetto ad altri Paesi - afferma - basti pensare che la percentuale di chi lavora da casa qui è intorno al 3%, in Olanda si attesta al 40%. Però lentamente la cultura dello smart working si sta affermando. Certo, ci vuole più coraggio da parte delle aziende per far sì che il telelavoro diventi il modus operandi principale. È inutile adottare soluzioni a metà, come consentire al dipendente di lavorare alcuni giorni da casa e alcuni giorni in ufficio: in questo modo non si liberano posti, i vantaggi non sono ‘tangibili’. È necessario lasciarsi andare al cambiamento, credere in una società in cui lavorare da remoto non venga più visto come un lusso e chi la
Nessun commento:
Posta un commento